N.05
Settembre/Ottobre 2019

L’orante/2

Figura di orante, fine III secolo, cimitero Maggiore, Roma.

 

 

Tendere le mani nel gesto della expansis manibus è pregare: una disposizione del corpo e dell’anima, colloquio con Dio, comunione, intima corresponsione che rivela già un’appartenenza, un atto confidenziale nel timore di Dio.

Il tema delle “mani levate al cielo” segue un moto spontaneo e se la mano nel linguaggio simbolico, oltre ad assumere le varie declinazioni della parola, esprime i moti dell’anima [1], nel gesto è inscritta la connaturata esigenza dell’uomo di relazione con la divinità.

Nei passi veterotestamentari è invocazione nei Salmi (cf. 62,5; 118,48; 138,10; 140,2 e in particolare 28,2: «Ascolta la voce delle mie suppliche quando grido a te, quando alzo o le mani verso la tua santa dimora») e in Geremia (cf. Lam 3,41); il richiamo è già in un istante unito alla certezza dell’accoglienza; si confida come sostenuti da un legame vivo, fondato sull’esperienza concreta di saper Dio proteso a stendere la mano per afferrare la nostra.

In Esodo (cf. 17,11) Mosè guidato da Dio, sostenuto nell’atto da Aronne e Cur, intercederà per il popolo, con totale dipendenza e affidamento nel bisogno di Dio.

Il repertorio figurativo–simbolico cristiano attinge e si ispira ai temi del tempo raccolti nel linguaggio culturale condiviso. Il tema dell’atteggiamento di preghiera è presente nella letteratura romana [2] e più raramente presente nell’arte figurativa [3], in particolare come personificazione della pietas, sentimento religioso dai contorni diffusi che comprende non solo la religiosità verso gli dei ma anche l’amore alla patria: intenzioni composite sospingono all’adorazione e alla devozione e sono inclinazioni spesso assunte in forza di un’attitudine cultuale.

Ma se nel mondo pagano, la domanda costitutiva in ogni uomo – ossia quella sulla vita ultraterrena e sul senso stesso della vita – è accolta dalla riflessione filosofica e in modo particolare nel clima della crisi culturale e politica del III secolo d.C., per il cristiano, pur condividendone la tematica figurativa, è rivelazione, esperienza personale che si traduce nell’annuncio del kerigma. Nel contesto funerario degli ipogei e della catacombe dove il cristiano testimonia il passaggio dalla vita alla Vita, già nei sarcofagi criptocristiani o paradisiaci [4] della metà del III sec. d.C., il credente si ritrae orante (o ritrae l’atteggiamento), compartecipe dello stesso evento salvifico evocato dai vari episodi vetero e neotestamentari citati; si consegna una verità compiuta, fede incarnata affidata alla loquela delle immagini. Non si racconta una cronaca dei fatti ma con il simbolo si esprime una realtà redenta senza confini spazio-temporali: la vita donata senza misura.

La figura dell’orante ben presto assume valori diversi suggeriti dal contesto figurativo [5] e diverse sono le interpretazioni: l’anima nella beatitudine eterna e nella contemplazione di Dio, che gode della felicità nella pace divina, accompagnata dalla figura del buon pastore, richiamo al legame tra Cristo e l’anima salvata.

San Paolo e la letteratura cristiana da Ambrogio, Tertulliano e Cipriano [6] si riferiscono alla preghiera e il gesto è unito alle braccia di Cristo stese sulla croce. Il filo conduttore che dà significato a tale segno di preghiera sembra essere illuminato proprio da san Paolo nella Lettera ai cristiani di Roma (12,1-2). Così «stendendo le braccia sul legno della croce, Gesù si è dimostrato il perfetto Orante, il Sacerdote che offrendo se stesso al Padre ha abolito per sempre il sacrificio di animali consumato tra nuvole d’incenso nel tempio di Gerusalemme. Sull’esempio di Cristo anche i cristiani: il fuoco dello Spirito li rende preghiera gradita al Padre» [7].

L’orante è sì immagine di chi prega, ma più che nella sfumatura della supplica lo è nell’ottica della redenzione ricevuta. Nelle mani alzate c’è tutto il senso profondo di una rivelazione: Dio, Padre nostro al quale ci rivolgiamo nella preghiera e in cui la nostra vita viene rinnovata nel suo amore, ci fa dono dello Spirito perché il nostro volto sia sempre più somigliante al suo: ama profondamente, ha sete della gioia della nostra anima, ci indica la strada e attraverso la consegna del Figlio ci rivela il suo sconfinato amore. Ecco dunque la salvezza, ecco la gioia e le mani alzate verso di lui come tante fiamme di un unico fuoco, come con totale abbandono, perché in questa relazione c’è la vita eterna, radice ritrovata, fonte dell’amore, mistero della pienezza.

 

 

 

 

 

[1] I retori antichi dicevano che con le mani «gaudium, tristitiam, dubitationem, confesionem, poenitemtiam, modum, copiam, numerum, tempus ostendimus»: Quintiliano, De Officiis: Introduction, text and translation, 11,3,86 (I. G. Krabinger – G. Banterle), Biblioteca Ambrosiana, Milano 1977.

[2] Cf. Catullo, Carm. 53, 4-5; Virgilio, Aen. II, 687ss e VI, 314ss; Cicerone, Epist.ad fam. VII, 5.

[3] Presente per esempio in alcuni coni monetari e nella statuaria.

[4] Sarcofagi un tempo chiamati ciptocristiani perché presentavano temi biblici insieme a temi pagani, ma oggi si preferisce indicarli come “paradisiaci” perché focalizzati sul contesto ultraterreno, quindi già tipicamente cristiani. Valgano come esempio il sarcofago di Giona in S. M. Antiqua, il sarcofago di Baebia Hertofila nel Museo delle terme, quello di via della Lungara, quello detto “della via Salaria” nel Museo Pio Cristiano e il sarcofago di Brignoles.

[5] Cf. F. Bisconti, Temi di iconografia paleocristiana, PIAC, Città del Vaticano 2000, 236: «Si indica ad il ringraziamento per la salvezza già avvenuta nel ricordare i fanciulli nella fornace, Noè nell’arca, Daniele tra i leoni, Susanna tra i vecchioni; in contesto neotestamentario le citazioni dei miracoli del lebbroso e del cieco per ringraziare del miracolo; le figure di defunti martiri e santi per evocare lo stato di beatitudine nella dimensione paradisiaca; ma anche come figura isolata come rappresentazione dell’anima beata nella contemplazione di Dio e personificazione della gioia o della preghiera stessa».

[6] Cf. 1Tm 2,8 e 1Ts 5,17; V. Saxer, “Il étendit les mains à l’heure del la Passion”: le thème de l’orant dans la litérature chrétienne des II et III siècle, in Augustinianum, XX, 1980, 333-365; F. Bisconti, Temi di iconografia paleocristiana, 235-236.

[7] C. Maggioni, Eucaristia. Il sigillo sul cuore della sposa, Paoline, Milano 2005, 146.

 

 

 

Se hai trovato interessante questo approfondimento, leggi anche l’articolo Di cosa aver paura se è Cristo che ti chiama?