Il “vieni e vedi” una costante nella pastorale vocazionale
Non si può dire che il “vieni e vedi” sia stato subito messo in pratica dai primi monaci, perché il loro primo atteggiamento è stato quello di scoraggiare chi desiderava entrare in monastero. Di fatto, essi avevano come prassi, codificata anche nelle loro regole, di mettere il candidato di fronte alle difficoltà d’un tal genere di vita, rimproverandogli soprattutto (anche senza averne esaminato le intenzioni) di voler entrare in monastero non per rispondere ad una chiamata, ma semplicemente per necessità o per comodità. Così l’aspirante veniva lasciato alla porta del monastero per vari giorni, anche una settimana o più, sempre respinto dai monaci.
Questa prassi è testimoniata, ad es., già da Pacomio, che lasciava il candidato alla porta del monastero per vari giorni; poi, se egli rimaneva, lo faceva esaminare sulle sue reali intenzioni e, se trovato idoneo, lo accoglieva tra i fratelli. Cassiano, anzi, parlava per l’aspirante monaco di un periodo di 10 giorni di attesa alla porta, mentre i monaci continuavano a respingerlo e a disprezzare i motivi per cui chiedeva di entrare, provandone nello stesso tempo la volontà e la costanza. Cassiano diceva ancora che se il candidato si fosse gettato ai piedi dei monaci pregandoli di accettarlo, essi avrebbero dovuto ingiuriarlo, accusandolo di voler entrare in monastero per motivi non retti.
Questa posizione è un po’ comune nella prima antichità monastica. Superati i giorni di prova, comunque, il candidato veniva introdotto tra i fratelli e considerato monaco a tutti gli effetti. In altre parole, non c’era ancora un postulato e un noviziato vero e proprio, e il “vieni e vedi” era sostanzialmente costituito dalla prova alla porta del monastero.
Presto, però, sempre conservando il periodo di attesa alla porta del monastero, si introduce un periodo di prova più o meno lungo, in cui il candidato vive la vita dei monaci, però in foresteria o in un luogo separato dalla comunità. La Regola del Maestro, ad es., stabiliva due mesi di prova: l’aspirante monaco entrava, ascoltava la lettura della regola che gli veniva spiegata minuziosamente, si rendeva conto delle difficoltà che poteva incontrare e, se decideva di entrare, vendeva prima tutti i suoi beni (questa condizione era essenziale) e poi veniva accettato tra i monaci. La stessa posizione si ritrova in Benedetto, il quale però prolunga i due mesi di prova facendoli diventare un anno.
A questo punto la prassi è ormai consolidata ed è chiaro da ambedue le parti – monastero e candidato – che è necessario un periodo di mutua conoscenza. L’attesa alla porta del monastero non basta più, tende anzi a ridursi e addirittura a sparire. Ciò che merita di essere sottolineato, comunque, in questo periodo, è il fatto che il monastero non organizzava il reclutamento, perché erano tanti coloro che si presentavano (per lo più adulti, anche già sacerdoti), per cui era necessaria una scelta. Anzi, nel caso di coloro che si trovavano inseriti in una comunità ascetica sin dall’infanzia (come, ad es., nelle comunità di S. Basilio, quando cioè i genitori decidevano di accettare questa vita), o venivano “donati” al monastero ancor fanciulli, allora si tese sempre più a richiedere l’emissione di uno specifico proposito di vita monastica, una volta raggiunta l’età matura.
Nel medioevo il “vieni e vedi” è ormai prassi comune. Cluny lasciava i candidati alcuni giorni in foresteria e in ugual modo sembrano aver fatto gli Ordini mendicanti. Anche Ignazio di Loyola parlava di un periodo di 10-20 giorni, in casa distinta (e non più alla porta), perché il candidato potesse esaminare se la vita della Compagnia corrispondeva ai suoi ideali.
Con gli istituti nuovi, però, che si proponevano un fine specifico, fosse esso ospedaliero, insegnante o altro ancora, la chiamata non era più solo alla vita religiosa, ma anche all’apostolato.
Questa distinzione è chiarissima, ad es., presso le Ospedaliere della Misericordia. Fondate a Roma nel 1821, esse chiedevano un attestato del parroco per provare che la giovane aveva una vocazione religiosa in genere, e poi le lasciavano un periodo di prova, in ospedale, perché potesse rendersi conto se, oltre alla vocazione religiosa in genere, avesse anche quella di entrare nel loro specifico istituto.
Con il reclutamento infantile, che diviene prassi pressoché normale dopo la seconda metà dell’Ottocento, il “vieni e vedi” non è stato più in primo piano. La riscoperta che oggi se ne sta facendo ha anche il vantaggio di essere un richiamo alla testimonianza personale.