N.03
Maggio/Giugno 1991

Le Comunità di Accoglienza come comunità di proposta

Quando uno domanda di abbracciare la vita monastica, non gli si conceda facilmente lingresso […]. Gli si mettano davanti agli occhi fin dallinizio tutte le difficoltà e le asprezze attraverso le quali si va a Dio […]. Venga messa alla prova, in ogni modo, la sua pazienza[1].

Con queste parole s. Benedetto affronta il problema dell’accoglienza vocazionale quando scrive la Regola monastica (540 ca.).

Sette secoli più tardi un altro santo – che si era premurato di dire ai suoi seguaci: “Si guardino i frati dal mostrarsi tristi allesterno e oscuri in faccia come gli ipocriti, ma si mostrino lieti nel Signore e giocondi e garbatamente amabili”[2] quando affronta il problema dell’accoglienza vocazionale così si esprime: “Se qualcuno, per divina ispirazione, volendo scegliere questa vita, verrà dai frati nostri, sia da essi benignamente accolto. Il ministro (il superiore provinciale) lo riceva con bontà e lo conforti e diligentemente gli esponga il tenore della nostra vita”[3].

Il tempo passa e con esso cambiano tante realtà. La brusca e vertiginosa accelerazione impressa alla storia in questa seconda metà del nostro secolo fa cambiare tutto e molto velocemente. La chiesa del dopo concilio sta vivendo la grande crisi vocazionale che ancora non è esplosa in tutta la sua gravità, se si dà uno sguardo al panorama vocazionale che ci viene offerto a livello europeo. “Oggi, forse – ci dice il Papa – sperimentiamo in modo più profondo la grandezza e le difficoltà della messe (…); ma avvertiamo anche la mancanza di operai. Gli operai sono pochi. Di qui assumono decisivo significato le parole del Maestro: Pregate dunque il padrone della messe[4]. L’azione del padrone della messe è veramente necessaria. Qui c’è una sfida alla nostra fede, che solo se presa seriamente può risolvere il problema vocazionale.

Molto cammino è stato fatto in Italia nell’ultimo venticinquennio e buoni risultati, grazie a Dio, si sono raggiunti. È stato un percorso in salita che ha avuto il grande merito di purificare la pastorale vocazionale sia negli agenti che nei mezzi e nelle strutture, qualificandola sempre di più. Questo è avvenuto grazie soprattutto al lento e profondo cammino di autocomprensione che va facendo la nostra chiesa. Basti pensare all’ecclesiologia preconciliare, conciliare e a quella dei nostri giorni[5] per apprezzare la tendenza che in essa sta maturando, quella che ha dato già una svolta decisiva alla pastorale: l’“attesa” che la gente venisse alla chiesa sta diventando sempre più un “andare” alla gente. Il cambiamento si avverte ancora di più nell’ambito della pastorale vocazionale. Dall’attesa (così come si riscontra anche nei testi delle due regole citate) si va facendo sempre più missionaria, comunionale, umile, proposta.

 

 

Le comunità vocazionali

Le Comunità di Accoglienza Vocazionale (c.a.v.) non sono più un fatto che esula da quella che è la pastorale ordinaria, non fa più notizia. Sono diventate oramai, strutture essenziali della pastorale vocazionale. In un certo senso, le c.a.v. sono sempre esistite, anche se isolate e rare nei decenni passati. La loro diffusione, invece, è da porsi nella seconda metà degli anni ‘70 con un incremento continuo durato fino a 3-4 anni fa. Ora l’espansione sembra un po’ rallentata.

Quando il Signore ci fa dono di alcune vocazioni esse vanno accettate con umiltà e con amore sapendo che sono semplicemente “dono” gratuito dello Spirito, che ama la sua chiesa e la ringiovanisce costantemente rendendola sempre più ricca e feconda. È con gratitudine, allora, che oggi dobbiamo ringraziare il Signore della messe per i frutti vocazionali maturati in questi anni in seno alle c.a.v. (per i cappuccini, ma vale anche per molti altri istituti, da oltre un decennio, la quasi totalità dei novizi proviene dalle c.a.v.).

Nate prevalentemente in seno alle famiglie religiose, le c.a.v. si stanno diffondendo da per tutto. Basti ricordare, tra l’altro, quanto scrive mons. Maggiolini: “Sarebbe auspicabile che, in un prossimo futuro, attorno a qualche parrocchia o a qualche Istituto religioso in Valtellina, nel Comasco e nelle Valli Varesine, potessero sorgere delle comunità di accoglienza, in vista di un discernimento vocazionale per giovani”[6].

Nella pastorale vocazionale le c.a.v. non possono più essere considerate un optional. È questo il punto di partenza ed è anche la prima conclusione cui deve giungere ogni seria riflessione sulla promozione delle vocazioni di speciale consacrazione (sacerdoti, diaconi, missionari, religiosi, istituti secolari). Non sono una realtà opinabile soprattutto per i religiosi, perché è ancora necessario mantenere al primo posto la legge del discepolato. Credo che si possa parafrasare il Documento Conclusivo e dire che “ogni ritardo nel costituire le c.a. v. si traduce in un danno per il proprio istituto e per la chiesa”[7]. Non si può attendere e rimandare oltre nel costituirle con l’assurda pretesa che esse debbano nascere già adulte. Così facendo esse non saranno mai costituite. Parimenti è da escludere il facile decisionismo che vorrebbe realizzarle subito, su due piedi. Ne nascerebbero semplicemente degli aborti.

 

 

Programmare la pastorale

Da qualche anno si va facendo un notevole sforzo di rinnovamento in tutti i campi, per sottrarsi al pressappochismo pastorale, così anche nel nostro settore, la parola d’ordine è “programmare”. Solo così saranno evitati i facili e inutili “falò” o gli “interventi eccezionali” per tradurre, invece, tutto in “cammini” che prevedano gradualità e progressione.

Oggi è molto sentita l’esigenza di avere indicazioni di metodo sul come tradurre in programma concreto delle idee. Allora una buona partenza potrebbe essere quella di andare a conoscere di persona alcune c.a.v. Nel mondo della ricerca e dell’industria oggi la “conoscenza” viene considerata la vera ricchezza di un’impresa[8]. Programmare non è una cosa facile, ma è estremamente necessario. Il Signore stesso ha programmato la storia della salvezza (anche se ha a che fare continuamente con la libertà umana) e solo nella “pienezza dei tempi” ha inviato il suo Figlio prediletto.

Nella costituzione delle c.a.v. è doveroso tener presente che “la comunità non è un ideale umano, ma una realtà divina”[9] e che i primi anni in genere saranno quasi sicuramente sterili, ma di una sterilità solo apparente, perché dopo – se non verrà meno il coraggio della perseveranza – i frutti non mancheranno.

Come prima cosa è necessario sapere che cosa si vuole e dove si desidera arrivare[10]. È il primo passo, ma è anche il più importante. Una chiarificazione da fare in modo serio. Una donna matura e sana fisicamente, per esempio, potrà giustamente pensare ad avere dei figli. Se, invece, fosse ancora troppo bambina o troppo avanti negli anni o non godesse buona salute, il suo primo pensiero non potrà mai essere quello di aspettarsi dei bambini. Nell’ultima enciclica il Santo Padre ci ha ricordato quanto ci aveva detto già dieci anni fa[11] : “Le vocazioni al sacerdozio o alla vita consacrata sono segno sicuro della vitalità della chiesa”[12]. È veramente sorprendente, per chiarezza e per testimonianza di fede, quanto ci dice il vescovo di Como: “Si parte da unumile, serena, chiara convinzione cristiana: una chiesa la quale, con lintensità che riesce a raggiungere mediante laiuto di Dio, vive la comunione con il suo Signore: questa chiesa spontaneamente, istintivamente, del tutto normalmente, esprime le diverse fisionomie vocazionali che manifestano la ricchezza insondabile del mistero di Cristo”[13]. Lo stesso discorso vale per i religiosi: “La vita stessa degli istituti religiosi – ci dice un recente documento – e soprattutto il loro avvenire, dipende in parte dalla formazione permanente dei loro membri”[14].

Le c.a.v. devono essere inserite in un progetto di pastorale vocazionale. Un progetto che sia sottratto all’improvvisazione, a impostazioni unilaterali, conservative o innovative. “Che proceda nella logica di grande realismo: si interroga coraggiosamente sul dover essere, ma si misura con eguale coraggio con le risorse concrete a disposizione: muove nella logica del possibile qui e ora”. Un progetto capace di promuovere una pastorale che sia “contemporanea” (il metodo dell’incarnazione) per evitare tanto il desiderio di restaurare un passato che non tornerà quanto quello di evadere in un futuro immaginario.

Le c.a.v. devono poter fruire del beneficio di tutta la pastorale (che nativamente è vocazionale). “È dovere di tutta la comunità – ci dice il papa – di favorire la nascita delle vocazioni e di collaborare nella percezione, chiarificazione e maturazione dellinteriore chiamata di Dio”[15].

Per una coraggiosa pastorale vocazionale non è più il tempo dei navigatori solitari, e un piano pastorale rappresenta un eccellente antidoto a questo pericolo, purché esso sia elaborato con il contributo di tutti (tenendo in debito conto le specifiche competenze di ognuno). La guerra del Golfo – anche se assurda, anche se combattuta per interessi molto privati – pur ci ha insegnato qualcosa: la tenacia con cui gli USA sì sono impegnati ad assicurare il più vasto consenso possibile al loro progetto. Non a caso il nostro decennio a livello internazionale è stato chiamato “l’era delle alleanze”. Questa necessità deve essere sempre più esigita anche in seno alle nostre realtà ecclesiali.

 

 

Caratteristiche di una C.A.V.

Il Documento Conclusivo, in sintesi, ci dice già quanto è strettamente indispensabile ad una c.a.v.[16]. È necessario che esse non siano delle “campane di vetro” o “riserve protette”, ma siano realmente inserite nella chiesa locale con il loro specifico carisma. Che vivano – nei prossimi anni, per esempio – nel dinamismo del progetto CEI per gli anni ‘90: “La testimonianza della carità”.

Sia una comunità pasquale, capace di vivere e annunziare la risurrezione, radunata intorno a Maria, perché da lei “impariamo la delicatezza, lattenzione, la chiarezza e la luminosità. In lei noi troviamo la capacità di capire che cosa dà veramente gioia al mondo, che cosa rende la storia piena dellesultanza di Dio”[17]. Una comunità che coltivi prima di tutto lo spirito della santa orazione, “al quale tutte le altre cose devono servire” (San Francesco). Che sia “memoria e profezia, ben ancorata, cioè, su quello che siamo stati e siamo, ma capace anche di scommettere su quello che vogliamo essere”. Una comunità che viva consapevole che nel suo cuore sta “il perdono e la festa. Le due facce di una stessa realtà, quella dellamore”[18]. Sia una comunità che ami i poveri (sembra ovvio, oppure credo che sia sempre necessario verificare se i poveri frequentano le nostre comunità e se lo fanno volentieri).

Sia una comunità fondata sulla parola, perché “è la parola che chiama e fa essere”. Perché “ogni incontro con la parola di Dio è momento felice per la proposta vocazionale”[19]. “Tutto ciò che di bello è capitato nella storia della santità è capitato perché ad un certo momento qualcuno ha ascoltato la parola e ha capito che quella parola era da fare”[20]. “Certi slanci di generosità, certe aperture coraggiose, un certo sbrigliarsi della fantasia che permette di intravedere ciò che prima era buio e di progettare come percorribile ciò che prima sembrava impervio, sono leffetto di un incontro con la parola”[21].

 

 

Conoscere e amare i giovani

Sia una comunità che conosca e ami i giovani, attenta a quelli che sono i loro interessi e i loro impegni, ben consapevole che essi non temono il sacrificio, ma la mediocrità. Una comunità che tenga presente il significativo incremento in questi anni dei giovani nell’impegno in gruppi che lavorano per la pace, a favore degli extracomunitari e in gruppi ecologisti, anche nelle più giovani classi di età[22]

Una comunità che conosca le pagine che il volontariato sta scrivendo in questi anni (abbiamo il primato europeo), pagine che resteranno come gemma preziosa nella storia dei giovani[23]. Così come è da tener presente la forte richiesta di spiritualità dei giovani di oggi, basti pensare alla celebrazione delle Giornate Mondiali della Gioventù, ai pellegrinaggi giovanili, alle scuole di preghiera, ai giovani che durante l’estate partecipano a campiscuola (da una stima ancora approssimata risulta che essi sono sei/settecento mila), ritiri ed esperienze simili.

Sia una comunità che tenga presente anche gli altri fattori nuovi della società italiana, quali la denatalità (il 39% delle coppie ha un solo figlio e il 18% non ha nessun figlio) e la “giovinezza prolungata”, quella che va dai 18-25 anni[24]. Non si può non tener conto anche del fatto che ogni sabato notte 5 milioni di giovani italiani vanno in discoteca e che nell’89 i morti a causa del fenomeno che va sotto il nome di “febbre del sabato sera” sono stati 6.500.

 

 

Conclusioni

Un sogno fatto nel ‘76 da un gruppo di animatori si va man mano realizzando. Si diceva allora: “Sarebbe bello se fra qualche anno potessimo dire alla CEI che, in ogni chiesa locale abbiamo una fraternità – non un singolo frate – disposta a mettere la sua esperienza di intimità con Dio e di servizio ai fratelli a disposizione di quanti desiderano ‘sperimentare’ la nostra vita e scoprire la propria vocazione”[25].

Don Italo Castellani, veramente con spirito profetico, dopo un attento studio e “ascolto” di ben 19 esperienze di c.a.v. così si esprimeva: “Se lanimazione, lorientamento e laccompagnamento vocazionale costituiscono il filo conduttore del cammino della fraternità vocazionale dal suo sorgere ad oggi, fondamento indiscusso sono la preghiera e la vita fraterna allinsegna dellautenticità: preghiera e vita fraterna autentica assumono modulazioni diverse, a seconda delle esperienze analizzate, ma di fatto sono la nota originale della fraternità vocazionale. Su questi fondamenti la fraternità vocazionale è già di per se stessa proposta vocazionale. È in questo senso che, se mi è permesso esprimermi così, la fraternità fa pastorale vocazionale”.

In questo testo c’è tutto quanto è essenziale a una comunità che desidera essere proposta vocazionale per giovani e adulti: preghiera e vita fraterna all’insegna dell’autenticità. Una comunità composta non da membri eccellenti, ma piuttosto una comunità feriale (Castellani), che si senta convocata dallo Spirito Santo e viva di fede; non si inorgoglisca per i doni di vocazioni che il Signore vorrà fare, con il suo contributo, alla Chiesa e nelle difficoltà sappia perseverare e lodare Dio nella certezza che “quanti sperano nel Signore riacquistano forza, mettono ali come di aquila, corrono senza affannarsi, camminano senza stancarsi” (Is 40, 31).

Infine sia una comunità che con umiltà, sappia verificarsi nelle sue finalità, nelle tappe intermedie, nel metodo e, se necessario, rettificare tutto o in parte per ricominciare. A questo punto è bene aggiungere anche una nota che pure fa parte dell’apostolato vocazionale. È possibile che, in una regione, una comunità vocazionale che abbia dato buoni frutti, con l’aiuto di Dio, debba cambiare fisionomia e impostazione e, dopo che la regione è rimasta senza comunità vocazionale e senza vocazioni, ci si chieda: “come mai?”. Sì, è possibile anche questo e le testimonianze che abbiamo in Italia non sono poche.

 

 

Una speranza e una proposta

“Viviamo in un mondo nuovo, ieri essenzialmente rurale, oggi soprattutto urbano; ciò che i primi monaci andavano a cercare nel deserto, tu lo trovi oggi nel cuore della città, perché la città stessa sta nel cuore di Dio”[26], così recita la regola di una nuova generazione di religiosi. Allora anch’io credo che una nuova generazione di c.a.v. debba sorgere nei prossimi anni, presso le parrocchie e le comunità religiose presenti nelle città, non in sostituzione, ovviamente, di quelle esistenti – sorte prevalentemente in piccoli e medi centri urbani – ma in aggiunta ad esse.

 

 

 

 

Note

[1] San Benedetto, Regola, 58.

[2] San Francesco, RnB, 7. 

[3] o.c. 2.

[4] Giovanni Paolo II, Lettera del Giovedì santo 1990.

[5] Molto utile a proposito mi sembra l’agile volumetto di B. Forte, La chiesa icona della Trinità, Queriniana, Brescia ‘85. 

[6] A. Maggiolini, Piano pastorale della diocesi di Como 1991/92. 

[7] Cfr. Documento Conclusivo, 57.

[8] Per uno sguardo sintetico, ma anche scientifico, si veda: Riccardo Galli in AA.VV. Lera delle alleanze, Isedi, Torino, 1990, 3.

[9] D. Bonhoeffer, La vita comune, Queriniana, Brescia 1969, 44,

[10] G. Celli, Come impostare un piano pastorale per un istituto religioso in Rogate Ergo, 11/90, 8-13.

[11] Giovanni Paolo II, in apertura del II Congresso Internazionale per le Vocazioni, 10.V.81.

[12] Redemptoris Missio (7.XII.90), 79. 

[13] A. Maggiolini, o.c.

[14] Congregazione per gli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica. La formazione negli istituti religiosi, 2/11/90. 

[15] Giovanni Paolo II,  Messaggio per la G.M.P.V. 1991.

[16] Cfr, Documento conclusivo, 57.

[17] C.M. Martini, La donna della riconciliazione, Centro Ambrosiano, Milano 1985,36.

[18] Jean Vanier, La comunità, Jaka Book Milano, 1980.

[19] Documento Conclusivo, 25.

[20] M. Magrassi, In ascolto con la Bibbia, Las Roma ‘78.

[21] C.M. Martini, in Seminarium 3/4 1982, 602.

[22] Gli iscritti al WWF di età compresa fra i 5 e i 14 anni, ad esempio, si sono triplicati nel breve giro di tre anni. Anche lo scoutismo, fa registrare un deciso incremento soprattutto per quanto riguarda l’AGESCI. Consiglio Nazionale dei Minori, Rapporto 1990.

[23] Nell’area del volontariato sono coinvolti il 15,4% della popolazione di riferimento, qualcosa come sei milioni di italiani. Un’attività effettuata prevalentemente in gruppo, 89%. La cifra è presumibilmente ancora più ampia perché l’inchiesta non ha preso in considerazione il volontariato dei minori, che ha peraltro dimensioni non trascurabili. Cfr III Rapporto IREF sull’associazionismo sociale (Iref – via Marcora, 18 – Roma). 

[24] È emblematico il titolo di copertina di Famiglia Cristiana del 3/8/88: “A trent’anni con mamma e papà”. 

[25] AA.VV. La presenza dei religiosi nellorientamento vocazionale della chiesa locale, CISP Cap, Roma 1976, 

[26] In occasione del seminario di studio del Segretariato Nazionale Vocazioni dei Cappuccini: Verso un progetto comune di fraternità vocazionale, La Verna, 27-29/III/81.