N.01
Gennaio/Febbraio 1992

Fedele è colui che vi chiama (1 Ts 5,24)

L’espressione “Dio è fedele” ricorre due volte nell’epistolario Paolino autentico. Una prima ricorrenza si ha a conclusione della prima lettera inviata alla chiesa di Tessalonica, dove Paolo conclude la sua preghiera prima dei saluti finali con l’invito a prendere sul serio la fedeltà di Dio, come base sicura per vivere con coerenza e fiducia l’impegno cristiano. La seconda ricorrenza si trova a conclusione della preghiera iniziale della prima lettera ai Corinzi. La motivazione profonda della perseveranza dei cristiani è evocata da Paolo con queste parole: “fedele è Dio, dal quale siete stati chiamati alla comunione con il Figlio suo Gesù Cristo, nostro Signore” (1Cor 1,9). La chiamata di Dio secondo la prospettiva missionaria e pastorale di Paolo si realizza attraverso l’annuncio del vangelo in cui si proclama la fedeltà di Dio, manifestata storicamente per mezzo della fedeltà del Figlio suo, il Cristo crocifisso e il Signore risorto.

 

 

 

Dio fedele nella storia dell’alleanza

 L’espressione paolina “Dio fedele” affonda le sue radici nella tradizione biblica, che ha il suo fulcro nell’esperienza di esodo e alleanza. Nell’antico formulario del credo biblico Dio si auto-presenta come colui che “ha fatto uscire” dalla condizione di schiavitù il suo popolo che ora gli appartiene sulla base degli impegni di alleanza. Il processo di liberazione prende avvio dalla libera e gratuita iniziativa di Dio. Infatti, quando Dio si manifesta a Mosè sulla santa montagna e lo incarica di fare uscire dall’Egitto gli Israeliti si auto-presenta come il Dio fedele agli impegni liberamente assunti nei confronti dei padri: “Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe” (Es 3,6). Di fronte alle resistenze di Mosè che non ha il coraggio di assumersi l’impegno di leader dell’esodo, Dio lo rassicura con la formula: “Io sarò con te” (Es 3,12). Mosè per avere un’ulteriore garanzia di successo vorrebbe conoscere il “nome” del Signore. La risposta di Dio è ancora una conferma del suo libero e gratuito impegno: “Io sono colui che sono” (Es 3,14). Questa formula non è una definizione di Dio e tanto meno il suo nome segreto. Il tenore della frase ebraica può essere reso così: “Io ci sono, sono qui come colui che è vivo e presente”. Dio conferma la fedeltà al suo nuovo impegno a favore di Mosè chiamato a guidare l’esodo degli oppressi verso la libertà e introdurli negli impegni di alleanza. Dunque il primo esodo sulla base della fedeltà di Dio è quello che deve compiere Mosè stesso.

Una conferma di questa prospettiva dell’esodo fondato sulla fedeltà di Dio si ha nella tradizione del profeta Isaia al tempo dell’esilio babilonese. Il profeta che parla agli esuli sfiduciati e stanchi fa appello alla fedeltà di Dio. I deportati hanno l’impressione di essere stati abbandonati da Dio. Il profeta risponde con un’immagine desunta dall’esperienza familiare: “Si dimentica forse una donna del suo bambino così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se queste donne si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai” (Is 49,15). Dio è come un padre e una madre che non possono soffocare l’impulso istintivo che fonda la relazione parentale. Egli è come uno sposo che s’impegna liberamente a riscattare la giovane sposa vedova (cfr. Is 54,7-8). La ripresa di questa relazione tra Dio e il suo popolo si fonda sul libero ed efficace impegno di Dio che fa ripartire la storia di esodo ed alleanza. Perciò egli può essere chiamato il “creatore” e “redentore” di Israele suo popolo. A conferma di questo impegno di Dio si fa ricorso alla formula di auto-presentazione del primo esodo: “Io sono il primo e l’ultimo, fuori di me non vi sono dei” (Is 44,6; cfr. 48,12).

Questa immagine del Dio fedele sta sullo sfondo delle promesse del profeta Geremia raccolte nel “libro della consolazione”. Qui si ritrovano le metafore del linguaggio familiare e sponsale di Isaia. Dio non può abbandonare i deportati alla loro sorte perché Israele è per lui come “un figlio caro, un fanciullo prediletto”; “per questo le mie viscere si commuovono per lui, provo per lui profonda tenerezza” (Ger 31,20). È questo amore profondo e tenace che sta all’origine del nuovo esodo e dell’alleanza rinnovata. Il profeta rivolgendosi a Israele in nome di Dio può dire: “Ti ho amato di amore eterno per questo ti conservo ancora pietà” (Ger 31,3). Le radici di quella che Geremia chiama “nuova alleanza” o “alleanza di pace o eterna” è l’amore irreversibile di Dio. Nonostante la storia della infedeltà del suo popolo il profeta può annunciare un futuro di pace e salvezza perché fa appello a questa fedeltà incrollabile di Dio.

Nella prospettiva della fedeltà di Dio sono riletti anche gli antichi racconti delle origini del mondo e dell’umanità. Dopo il peccato della coppia primordiale Dio annuncia la vittoria sul male per mezzo del discendente della donna (cfr. Gn 3,15). La corruzione dell’umanità provoca la catastrofe del diluvio, ma Dio rinnova la sua benedizione a favore di Noè e della sua famiglia. Egli fa ripartire la storia della creazione e si impegna a mantenere l’alleanza eterna con ogni essere vivente (cfr. Gn 9,1-17). Alla dispersione dell’umanità dopo la nuova edizione collettiva del peccato primordiale – torre di Babele – si contrappone la promessa fatta ad Abramo di benedire nel suo nome tutte le famiglie della terra (cfr. Gn 12,3).

L’immagine di Dio fedele percorre l’intera storia biblica come rivelazione del suo disegno di salvezza in un gioco di contrappunto con il peccato o infedeltà degli essere umani.

 

 

 

Il volto di Dio “fedele” in Gesù Cristo

Il vertice di questa storia della manifestazione della fedeltà di Dio si ha in Gesù Cristo, il Figlio unico e amato (cfr. Eb 1,1-2). Una sintesi contemplativa e poetica di questa visione si ha nella prima pagina del quarto vangelo. La parola che all’inizio assoluto era rivolta a Dio e per mezzo della quale l’intera realtà venne all’esistenza e trova la sua coesione, “divenne carne e abitò stabilmente in mezzo a noi e contemplammo la sua gloria di Unigenito dal Padre pieno di grazia e di verità” (Gv 1,14).

In Gesù Cristo i credenti contemplano e possono attingere l’amore fedele, “grazia e verità”. Nell’umanità storica di Gesù, il Cristo e Figlio di Dio, si rivela in modo definitivo e pieno la potenza benefica e salvatrice di Dio, che in termini biblici e giovannei si chiama “gloria”.

Non è casuale che il quarto vangelo faccia ricorso a questa terminologia non solo per presentare l’azione storica di Gesù che risana e dona la vita, ma soprattutto la sua autodonazione di amore attuata in forma estrema nella morte: “avendo amato i suoi, li amò fino all’estremo” (Gv 13,1; cfr. 13,31-32). È, infatti, nella morte di croce che l’incarnazione della parola raggiunge il suo apice. Gesù porta a compimento l’opera del Padre nella fedeltà di Figlio vissuta nella condizione estrema della morte. È quanto lasciano intravedere alcune delle più antiche riletture della morte di Gesù come massimo atto di “fedeltà”. Nella tradizione evangelica Gesù inizia il suo cammino di passione in una preghiera al Padre invocato come Abbà, in cui conferma la sua radicale adesione filiale (cfr. Mc 14,36). L’antico inno delle chiese paoline presenta l’immersione storica di Gesù nella condizione umana come quella di un figlio “fedele” fino alla morte, morte infame e dolorosa della croce (cfr. Fil 2,8). Gli fa eco la meditazione dell’autore della lettera agli Ebrei: Gesù attuò la sua condizione di Figlio fedele in mezzo alle sofferenze (cfr. Eb 5,7-9). Per questo egli può presentarsi a Dio a nostro favore come mediatore efficace: un sommo sacerdote “misericordioso e fedele (pistòs)” (Eb 2,18; cfr. 3,1-6).

 

 

 

Conclusioni attuali

Quando Paolo di Tarso nelle sue lettere fa appello al “Dio fedele” può richiamarsi a questa tradizione biblica che sfocia nell’esperienza cristologica. L’evangelo come “buona notizia” non è altro che l’annuncio dell’amore fedele di Dio diventato visibile e comunicato a tutti i credenti per mezzo di Gesù Cristo il Figlio suo. L’apostolo Paolo grazie alla sua esperienza personale ha una coscienza vivissima di questa rivelazione cristologica dell’amore fedele di Dio. Anche nelle situazioni umanamente senza via d’uscita egli può dichiarare: “i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili” (Rm 11,29). Ogni esperienza religiosa, personale o comunitaria, è la storia di una duplice fedeltà: quella di Dio e quella dell’essere umano. Ma quella di Dio è radicale e fondante rispetto alla fedeltà dell’essere umano. Quest’ultima è una risposta libera e dialogante con la fedeltà di Dio. A partire dalla creazione e origine di ogni essere cosciente si avvia e matura questa relazione con il Dio fedele che si manifesta e si rende presente nei frammenti di fedeltà della storia umana e si fa incontro in modo pieno nel volto del Figlio unico ed amato, Gesù Cristo.