N.02
Marzo/Aprile 1992

L’affettività: dimensione “basica” della persona e della vita

L’affettività è un fenomeno psicologico onnipresente e sfuggente insieme; vi è inoltre la tentazione di parlarne in modo “emotivo”, sorvolando sugli aspetti più reali e profondi.

Per evitare questa tentazione si farà qui quasi una breve trattazione scolastica che avrà tutti i limiti della schematicità, ma, spero, anche qualche pregio di chiarezza[1].

 

 

Natura dell’affettività

L’affettività indica la dimensione di “piacere-dispiacere” ed è quello che si prova quando motivi, bisogni, scopi sono raggiunti o negati. In altre parole l’affettività è una risonanza interiore della soddisfazione dei motivi ed è molteplice come i motivi stessi. Avremo così il piacere dovuto alla soddisfazione di bisogni organici, di incontri sociali, di interessi culturali, di scopi e intenzioni spirituali.

Una caratteristica dell’affettività è la “viscosità” cioè la lentezza nello scomparire: anche quando la soddisfazione o la frustrazione sono passate, l’impressione piacevole o sgradevole resta; ad esempio, dopo un piccolo incidente anche quando il dolore fisico è passato permane un residuo di malumore.

In questo modo l’affettività si stacca dall’esperienza soddisfacente o frustrante e dai rispettivi motivi, e a poco a poco si “deposita”, formando uno stato affettivo, lieto o triste, relativamente duraturo e con vita propria. A sua volta questa base affettiva funziona come filtro, come “occhiali” che fanno vedere al soggetto piuttosto gli aspetti positivi o negativi della sua esperienza, e così rafforzano il tono affettivo preesistente. Il fatto che gli stati affettivi abbiano una vita propria spiega perché essi siano poco modificabili con ragionamenti oggettivi.

 

 

I campi dell’affettività

Sebbene l’affettività sia una conseguenza vissuta di tutti i motivi, tuttavia quando si parla di affettività si considerano soprattutto due campi: quello del motivo di sicurezza e quello del motivo di incontro interpersonale.

Il primo riguarda la soddisfazione di sentirsi capace di affrontare la vita e i suoi compiti, di essere “degno”, valido, competente, in una parola: “sicuro”.

La sicurezza di fondo ha alcune conseguenze che ne indicano anche la presenza: il senso delle proporzioni (non tutto è egualmente importante), la tolleranza delle frustrazioni (non cade il mondo se ho qualche fallimento) e l’accettazione del rischio ragionevole (posso affrontare situazioni nuove).

Il secondo campo dell’affettività riguarda la soddisfazione o non soddisfazione nell’incontro con le altre persone. Questa soddisfazione ha naturalmente le sue condizioni che derivano dalle persone che entrano in contatto. Vi è in primo luogo una dimensione di comunicazione, e cioè “apertura”, capacità di comunicazione, oppure un atteggiamento di difesa, di diffidenza, di deprezzamento.

In secondo luogo vi è la dimensione della “riservatezza”; essa richiede di non essere né “colonizzati” né “colonizzatori”, ma rispettosi della propria e altrui identità.

La comprensione degli altri può anche raggiungere una grande maturità quando, avendo sperimentato in se stessi quanto le nostre esperienze di incertezza e di fede, di fallimento e di speranza, di gioia e dolore segnino la nostra vita, si pensa che anche gli altri vivono esperienze profonde simili alle nostre, e si è in grado di percepire più veramente le persone.

Questi due campi dell’affettività, sicurezza e capacità di incontro, sono tra loro collegati: un buon clima familiare di accettazione, amore e controllo affettuoso è la prima condizione perché si crei nella futura persona un sentimento di sicurezza e di dignità; d’altra parte chi si sente sicuro e capace, non si sentirà minacciato dagli altri e potrà sviluppare verso di loro atteggiamenti più positivi.

In questo campo è vero quanto diceva Maslow: che l’amore disinteressato per la persona altrui, oltre che essere segno di maturità, “crea la persona amata”, cioè la incoraggia potentemente a realizzare le sue potenzialità.

 

 

Funzione dell’affettività

Negli ambienti religiosi si alterna una valutazione che esalta l’affettività o la misconosce. In realtà la sua funzione è notevole nella vita umana: poiché è una reazione naturale alla soddisfazione dei motivi, può essere molto utile per sostenere e facilitare una ricerca di bene, talora impegnativa e difficile. Nell’incontro interpersonale dà quella caratteristica di genuinità, di calore umano che garantisce una vera comunione.

Tuttavia è anche vero che l’affettività non è tutto. Proprio perché essa può avere una vita indipendente dai beni che la avviano, può diventare un fine a se stesso, in modo egocentrico; la persona può, ad esempio, amare più la sua gioia di comunicare che la persona con cui comunica.

Nella persona sono più importanti i beni che può raggiungere che i sentimenti che essa prova nel raggiungerli, anche perché vi sono beni (forse i più grandi) di cui non si sente la soddisfazione, come sono spesso i beni spirituali, cui si giunge attraverso la rinuncia, la croce, la pazienza, o semplicemente attraverso la perseveranza nel dovere.

Queste considerazioni, suggeriscono l’importanza del governo dell’affettività, che non significa negarla, ma assegnarle il giusto posto nell’insieme della persona.

Certo l’affettività non si governa direttamente con editti della ragione: è necessario programmare un lento lavoro di costruzione delle disposizioni emotive più opportune, e questo lavoro è possibile soprattutto nei periodi liberi da pressioni immediate.

Occorre utilizzare i periodi di maggiore disponibilità gustando la gioia di essere incamminati verso un bene grande, coltivando l’attesa interna di un incontro tanto soddisfacente, conservando la pace interiore, evitando il “rumore” delle preoccupazioni inutili, formando il cuore a stimare, accogliere, aiutare persone che, come tali, sono le cose più grandi e importanti che il Signore ha messo su questa terra.

In una parola: l’affettività si educa non guardando al passato, ma camminando verso il Bene che ci attende, come la fede ci assicura.

 

 

Problemi specifici

L’affettività è spesso vista con diffidenza nell’ambiente religioso, come fosse un sottrarre qualcosa a Dio, cui si è promesso la totalità del cuore; d’altra parte la vita religiosa è una comunità fraterna, ed ha per scopo l’amore di Dio e delle anime, cose tutte da cui non si può escludere il “cuore”. È chiaro inoltre che ogni famiglia religiosa ha il proprio stile e i propri compiti, che modulano diversamente la dimensione affettiva.

Il negare la componente affettiva nei rapporti interpersonali potrebbe tradire un atteggiamento nevrotico di difesa, di legalismo, di ansia, di accentramento su di sé che nulla hanno a che fare con la perfezione religiosa. È proprio la carità nel Cristo che dà capacità di accoglienza e comprensione, finezza e nobiltà di tratto, gioia delicata e serena di vivere, pregare, lavorare insieme.

Certo, vi è il pericolo di un’affettività fine a se stessa, “consumistica” ed egocentrica, che ha come possibili conseguenze – e segni rivelatori – l’esclusività, la gelosia, l’eccesso di espressioni sensibili. Una tale affettività chiaramente non è integrata in una vita che cerca Cristo.

Come si è detto sopra, l’affettività ben educata è quella che guarda non a se stessa, ma ai grandi beni che il Signore offre e ai compiti che Egli ci propone.

Questo criterio è illuminante, specialmente quando si tratti di valutare l’affettività che può sorgere nell’incontro o nella collaborazione pastorale con persone di altro sesso, situazione in cui possono intervenire componenti emotive e sensibili che interpellano in modo nuovo le persone coinvolte.

In questo caso, più che in altri, la dimensione della “riservatezza”, di cui si è detto sopra, nel religioso si manifesterà nel conservare gelosamente la propria identità di consacrato, che gode dell’amore del Cristo, e nel vedere, in modo sempre limpido le persone che si incontrano come figli di Dio, da Lui amati e, in qualche modo a noi affidati perché doniamo loro non tanto la nostra affettività quanto la Sua parola e la Sua grazia, portandoli così non alla nostra povera persona, ma a Lui.

Un altro aspetto dell’affettività specifica nel religioso riguarda la sua relativa “solitudine” umana, che deriva dall’aver riservato la sua intimità più profonda al Signore.

Certo questo atteggiamento, quando è autentico, non diminuisce la sua capacità di amare i fratelli, ma anzi rende più generosa e fraterna la sua carità.

Tuttavia è possibile che questa “solitudine abitata da Dio” venga scambiata con una solitudine senza alcuna compagnia.

In alcuni religiosi si può trovare una specie di “sindrome dell’orfano”; ad essa vanno soggette piuttosto le persone che fin dall’infanzia hanno sofferto, per cause svariate, una mancanza di nutrimento affettivo. Da ciò rimane in tali persone un bisogno insaziabile di dimostrazioni di affetto che, sempre da capo, li assicurino che sono capaci e meritano stima e affetto. Si risentono di ogni attenzione riservata ad altri, perché si credono inferiori e discriminati.

Questo genere di solitudine è una continua tentazione di accentramento su di sé, è una fonte di sorda e costante infelicità e irritabilità.

Se questo atteggiamento è abbastanza diffuso, può costituire una controindicazione alla vita religiosa.

Vogliamo però concludere con una prospettiva di un’affettività serena e produttiva. È noto cosa significasse la parola “Allegria” per Don Bosco, tanto che San Domenico Savio diceva: “Noi facciamo consistere la santità nello stare molto allegri”. Naturalmente questo significava tenere il cuore fisso nel Signore, lavorare e vivere per Lui e confidare in Lui; significava essere attento al bene dei suoi compagni e dimenticare se stesso, i propri comodi e i propri sacrifici.

I santi seminano serenità attorno a loro: l’affettività non è una cosa solo nostra, che nasce e muore in noi, ma è un dono alla comunità, non solo evitiamo di appesantire l’ambiente col nostro umore, ma abbiamo il compito di diffondere attorno a noi la serenità e la speranza, splendore di un Bene che si supera.

 

 

 

 

Note

[1] Per ulteriori approfondimenti sul tema mi si consenta di suggerire i seguenti contributi: RONCO A., Introduzione alla Psicologia. I. Psicologia dinamica, LAS, Roma. 1980; I dinamismi psicologici nella crescita spirituale, in Vita Consacrata, 1977, 13, p. 145-158; Integrazione psichica e virtù: elementi di una psicologia delle virtù umane, in Seminarium, 1969, 3, p. 531-544; La decisione umana come fattore educativo, in Orientamenti Pedagogici, II (1964), p. 1221-1238; Psicoterapia dei religiosi e problemi di vocazione, in Informationes SCRIS; 8 (1982) 1-2, p. 99-109; SZENTMARTONI M., Maturità affettiva/Aspetti psicodinamici, in Orientamenti Pedagogici 1985, 32, p. 120-128.