L’affettività nella maturazione vocazionale: una dimensione essenziale
Il recente “documento informativo” della Santa Sede “Sviluppi della pastorale vocazionale nelle Chiese particolari”, dopo aver elencato gli aspetti positivi di una crescita della pastorale vocazionale in varie parti del mondo, sottolinea anche alcuni atteggiamenti e comportamenti negativi: “stanchezza, indifferenza delega, scoraggiamento e pessimismo” accompagnati anche da “contro-testimonianze, abbandoni, crisi d’identità di sacerdoti e persone consacrate” (n. 27). Sono fatti noti. Tutti sappiamo che incidenza negativa abbiano sull’efficacia dell’evangelizzazione, sulla vita interna della Chiesa, e in particolare sulla pastorale delle vocazioni, che per sua natura ha bisogno di testimonianze coerenti e piene di gioia, di vite realizzate pienamente pur nella rinuncia a tanti beni del mondo. Dove sta la radice di questi problemi? Non abbiamo dubbi: pochissimo nella malafede o nell’infedeltà deliberata, moltissimo nell’immaturità umana e spirituale.
Il documento dice anche che i giovani hanno riscoperto alcuni valori importanti (n. 79), vivono però un tempo di transizione, ambivalente e contraddittorio (n. 71) e questo accentua la loro fragilità, l’instabilità emotiva, la paura di decidersi per scelte a lungo termine, il bisogno di rassicurazione, il timore di perdere la libertà di fare esperienze diverse… Anche qui la radice delle difficoltà sta nella maturità: quella spirituale, che porterebbe a fare grandi scelte vocazionali in un vero cammino di santità; e quella umana che se è capace di apertura ai grandi valori sostiene la prima, ma se è bloccata congela tutta la persona limitando la sua libertà di amare e di abbandonarsi senza riserve alla volontà del Padre.
Per un animatore vocazionale o per qualsiasi educatore adulto nella fede -che si senta responsabile quindi della vocazione degli altri – è questo un tema di grandissima importanza. È anche un tema di grande attualità: nei Seminari, nei noviziati, in tutti i centri di formazione questo tema viene sempre più considerato. Tutti i documenti della Chiesa sulla formazione hanno questa attenzione. Ne ha discusso il Sinodo dei Vescovi circa “Formazione dei presbiteri nelle circostanze attuali” (1990) che sarà ripreso dalla Conferenza Episcopale Italiana in una sua Assemblea generale sullo stesso tema.
Questo numero della Rivista vuole tentare un approfondimento dal punto di vista psicologico (A. Ronco), teologico ed esistenziale (A. Manenti) e pedagogico (P. Gianola). Si vogliono poi dare degli orientamenti pastorali concreti per favorire la maturità affettiva e quindi una piena e matura scelta vocazionale nel gruppo giovanile (A. Miglio), nella famiglia (G. Avanti), nella direzione spirituale (A. Cencini): luoghi privilegiati di crescita; non mancano due approfondimenti sulla relazione affettività – sessualità (C. Bresciani) e sulla maturità dell’educatore (P. Grignolo).
Per introdurre queste pagine, ci chiediamo: “È proprio così importante la maturità affettiva? Non basta la Grazia e l’azione continua dello Spirito? Non basta impegnarsi con tutta la buona volontà e con i mezzi della vita spirituale (Sacramenti, Parola, Preghiera, ecc.)? Non basta imparare bene la Scrittura, le scienze teologiche, ecc.?. Non basta. Anche se sono tutte cose necessarie, normalmente il Signore non cambia miracolosamente la personalità, quindi la persona chiamata ad una scelta di speciale consacrazione risponde in proporzione alla maturità umano-spirituale che si ritrova. Chiariamo alcuni aspetti.
La vocazione è opera di Dio…
È il Padre che prende l’iniziativa di amarci fin dall’eternità e di darci la vita affinché la viviamo solo per lui. È lui che ci “mette a parte”; ci consacra a sé per rendere il nostro essere capace di rispondere all’amore con l’amore.
Storicamente, in modi tanto diversi quanto sono varie le vicende umane, noi prendiamo coscienza di questa “predisposizione a rispondere”. Ma non tutto ci attira con la totalità dell’innamoramento: ciò avviene solo quando veniamo messi di fronte proprio a quei valori evangelici che riconosciamo come i più adatti a noi e quando cominciamo a praticarli. Se essi ci sono proposti con forza e chiarezza, se noi li interiorizziamo e pratichiamo, facendoli diventare vita della nostra vita, allora sorge una nuova relazione tra noi e il Signore Gesù Cristo: è “l’innamoramento”, comincia la vocazione nella storia della persona che si apre ad una nuova identità in Cristo.
Poi Egli diventa sempre più presente e importante quanto più lo seguiamo imitandolo concretamente nella povertà, nella castità, nell’obbedienza, nel servizio: prendiamo coscienza della nuova vocazione specifica e della missione concreta che abbiamo nella Chiesa. L’innamoramento comincia a lasciare il posto all’amore maturo, libero, attivo, responsabile. Le scelte definitive ne sono conseguenza: ormai si è segnati dall’appartenenza al Signore, si è persone nuove (“Cristo vive in me”!).
… ma è anche risposta umana: la lotta e le paure
Le cose non sono però così semplici. Questo dialogo di amore noi lo sperimentiamo già dall’inizio come sempre più esigente, fino a non sopportare che altri “amori” occupino una parte del nostro cuore. E nasce la lotta. Perché il cuore dell’uomo è diviso ed è inclinato anche all’egocentrismo (e al male), non solo al bene e all’amore di Dio. Anzi quanto più una vocazione è coinvolgente e radicale (come lo sono tutte le vocazioni di speciale consacrazione), quindi unificante nella conformazione a Cristo, tanto più si manifestano le resistenze: la tristezza per il timore di perdere gratificazioni e sostegni affettivi già sicuri (“le tane” e “i nidi”, Lc 9,58ss.), la voglia di fuggire o di rimandare la decisione, l’ansia che blocca di fronte ad una nuova vita, il tentativo di scendere a compromessi facendo mezze scelte che lascino sempre una porta aperta nell’eventualità che andasse male…
I momenti di entusiasmo, gli atti di affidamento al Signore, gli slanci dettati dal desiderio di assumere davvero la missione che egli propone, si alternano ai momenti di incertezza, di freddezza, persino di rabbia.
Siccome nella risposta alla vocazione non c’è nulla di istintivo o di biologico – costituzionale che ci determini, tutto è affidato alla nostra libertà. Ed essa non è assoluta: è sempre, almeno in parte, condizionata proprio da quelle paure, da quelle tristezze, da quei desideri egocentrici che impediscono l’abbandono assoluto alla volontà del Padre.
È dunque ciò che avviene nel nostro mondo emotivo, consciamente o inconsciamente, che ha un forte peso nel decidersi per la vocazione, nel viverla con efficacia (con una santità che contagia gli altri), nell’essere fedeli fino in fondo. Del resto è esperienza comune che le difficoltà a seguire il Signore nascono non tanto dal fatto che la sua volontà sia oscura (ci sono tanti mezzi ed occasioni per chiarirla), ma soprattutto dal fatto che il nostro cuore fa fatica a “lasciare tutto”.
Crescere nella libertà per crescere nell’amore
La maturità esistenziale ed affettiva ha allora un ruolo essenziale nella maturazione vocazionale in due sensi.
Da una parte abbiamo assolutamente bisogno di innamorarci del Signore, quindi di lasciare che tutte le forze e le tendenze positive che sentiamo, siano coinvolte a servizio della sua chiamata, per non correre il rischio di aderire solo con le idee (vocazione come scelta ideologica) o solo con le opere (vocazione come mestiere) e non anche con il cuore (vocazione come nuova identità in Cristo). Abbiamo bisogno che i nostri desideri di fratellanza, di amicizia, di collaborazione, di misericordia, di impegno costruttivo, di aiuto a chi ha bisogno, di reazione di fronte alle difficoltà, di autonomia, ecc. siano tutti a servizio dell’amore per il Signore: tutta la nostra personalità, mente, volontà e cuore sarà così strumento del Suo amore per i fratelli.
Dall’altra parte abbiamo bisogno di fare un discernimento continuo sui nostri atteggiamenti per individuare quelle tendenze emotive o quelle “manovre” che facciamo per gratificare solo noi stessi o per salvarci la faccia “dimenticando” che stiamo lavorando contro la nostra vocazione. Con alcune delle nostre “passioni” (quelle che ci spingerebbero ad essere orgogliosi, egoisti, sensuali, avari, ecc.) non abbiamo scelta: o le contrastiamo rinunciando a gratificarle, oppure diventano degli idoli che ci fanno loro adoratori, approfondendo la divisione del cuore umano e impedendo la risposta vocazionale o la fedeltà ad essa. È duro rinunciare ad una parte così forte e sentita di noi stessi, è una croce quotidiana, ma se diamo fiducia al Vangelo e alla Grazia, è l’unica via di realizzazione autentica di noi stessi. Più siamo liberi da queste attrazioni interiori (conscie ed inconsce) e più saremo disponibili ad amare Dio solo: certo, è un cammino e nessuno può illudersi di raggiungere la perfetta libertà e la perfetta carità, ma in questa crescita sta il senso della nostra vocazione.
“Elogio della follia”
È Paolo che per chiamare alla vita cristiana i Corinzi non ha promesso sicurezza e successo, né ha puntato sui miracoli o sulla sapienza umana, ma solo sulla “follia” della croce. La maturità vocazionale è tanto lontana dalla stoltezza umana (che comprende anche immaturità, infantilismi, difese, l’essere centrati su di sé magari senza accorgersene…), quanto è vicina alla follia di un Dio che si fa pover’uomo e si fa crocifiggere per salvare la vita ai suoi amici. Noi siamo chiamati a fare la stessa cosa: a perdere la vita in Lui, per ritrovarla pienamente realizzata secondo quella identità nuova che ci ha donato. Questa è follia per il mondo e per la nostra cultura oggi, ma è stoltezza di Dio, “più sapiente degli uomini”. In un altro senso è follia anche per noi, perché nessuno che abbia un po’ di coscienza di sé può sperare, per quanto si impegni, di essere totalmente “maturo in Cristo”; tanti limiti (inconsci, e anche qualcuno cosciente!) rimangono sempre…
Paolo però aggiunge: “Considerate la vostra vocazione, fratelli, non ci sono tra voi molti sapienti secondo la carne, non molti potenti, non molti nobili. Ma Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto… ciò che è debole… ciò che è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono, perché nessun uomo possa gloriarsi davanti a Dio”(cfr. 1Cor 1,26-31).
Possiamo dunque accettarci anche con dei limiti. Anzi, dobbiamo se vogliamo poterli vedere per contrastarli e cambiare quello che possiamo, aumentando lo spazio alla nostra libertà per amare. Nasconderli, credendoci a posto, o scoraggiarsi davanti a loro, ci bloccherebbe e basta. Come Maria, siamo chiamati ad ammirare la grande impresa che il Signore vuole portare a termine e la povertà degli “strumenti” di cui si serve. È nella logica del suo piano che, nonostante il nostro doveroso impegno, qualche limite resti e ci faccia da “spina nel fianco”: il suo Regno si affermerà ugualmente, noi non correremo il rischio di riempirci troppo della nostra gloria e di restarne fuori.