N.03
Maggio/Giugno 1992

Essere coppia, essere famiglia per un servizio educativo – vocazionale nella comunità parrocchiale

Trentamila coppie di sposi cristiani riuniti in oltre cinquemila gruppi, una presenza diffusa in tutti i continenti, una “regola” e un metodo di ascesi in coppia e da condividere comunitariamente: sono le Equipes Nôtre-Dame (END), presenti anche in Italia con 350 gruppi di cui fanno parte 2000 coppie.

Si tratta di un Movimento cattolico, specificatamente incentrato sulla spiritualità di coppia, e quindi sul vissuto di una fede che, dal sacramento del matrimonio, si apre alla famiglia, alla società, alla comunità ecclesiale.

Le END nacquero in Francia nel 1939, per l’intuizione e l’opera di un sacerdote (Henri Caffarel) e di quattro coppie di sposi che iniziarono ad incontrarsi per condurre insieme una ricerca di spiritualità sul matrimonio cristiano. Cominciò così un’esperienza, per molti aspetti profetica, che anticipava di diversi anni ciò che successivamente sarebbe maturato nella chiesa in tema di teologia del matrimonio.

Il cammino fatto dalle END fino ad oggi ha sviluppato sempre più questa intuizione originaria approfondendo proprio la coppia quale soggetto sacramentale e teologico chiamato ad un caratteristico progetto di fede, ad una ascesi e ad una evangelizzazione che, dall’ambito del matrimonio, raggiunge, in un reciproco e fecondo rapporto, la comunità ecclesiale e il mondo intero.

Concludendo questa necessaria quanto sommaria presentazione, diremo – per entrare, fra l’altro, in tema – che scopo delle Equipes Nôtre-Dame è in primo luogo la formazione degli sposi. Pertanto le END non possono definirsi un Movimento di azione, poiché niente propongono come attività e progetti concreti. Ma sta di fatto che da certe maturazioni formative, nascono, inevitabilmente degli attivi, delle coppie impegnate nelle realtà più diverse.

 

 

Un amore di relazione, un servizio alla vocazione

Così, dalla consapevolezza che l’amore di coppia non è un amore che vive solo in sé e per sé, ma che va ad inscriversi in un tempo e in uno spazio sociale, storico, ben precisi (quelli di tutti i giorni) scaturisce il servizio della coppia nella chiesa, nella società, e anche il servizio educativo – vocazionale alla comunità parrocchiale.

Già il segno della coppia che si sforza di testimoniare come amore e fedeltà si motivino nella fede, rappresenta, a nostro avviso, una presenza educativa in senso vocazionale, poiché mostra l’azione di Dio (la vocazione) in quelle due persone.

La nostra esperienza personale e quella di tanti altri nostri amici, ci ha ormai ampiamente confermato nell’idea che è molto importante un impegno svolto proprio come coppia all’interno della realtà ecclesiale. D’altra parte la coppia e la famiglia, nonostante il modificarsi dei loro modelli sociali, continuano ad essere quel microcosmo dove, nel bene e nel male, fanno “sponda” le tante cose della vicenda umana. Ciò significa che il matrimonio, la famiglia, quando sono luogo di Dio, sono anche il luogo dove Dio si mostra possibile, solidale, dentro i giorni feriali dell’uomo. E pertanto, come dicevamo prima, se vocazione è una risposta che rende visibile Dio, la famiglia cristiana presente nella parrocchia, testimonia (con la propria vocazione) questo Dio in relazione con l’uomo, che si incontra, giustappunto, nelle cose della vita.

Sempre rifacendosi alla nostra esperienza, abbiamo ripetutamente constatato che in “realtà di base” come quella della parrocchia, sono quanto mai necessarie presenze che, al di là del prete (inevitabile “professionista” della vocazione) sollevino, con la loro testimonianza, almeno il quesito di come la fede possa essere una cosa fortemente intrecciata con la vita. Ebbene, la metodologia END, con il suo continuo ancoraggio al vissuto della coppia, forma indubbiamente, in chi la pratica, una mentalità e un modo di essere che aiutano a rendere esplicito, visibile, questo nesso fra esistenza e fede. E quando negli sposi, concretamente inseriti nella parrocchia, appare lo sforzo riscontrabile in tanti gesti (di servizio, di accoglienza, di ospitalità, di fecondità le più diverse) a rendere operante nel loro amore e nella loro storia l’amore di Cristo, si esplicita, di conseguenza, un segno: che Dio è vita, che Dio è relazione, comunione d’amore.

Senza voler misconoscere le difficoltà, le gradualità di maturazione che un matrimonio cristiano implica, è pur vero che fra i sacramenti è forse quello che possiede il segno maggiore di concretezza, di realtà umana: due persone intere, corpo, cuore, mente, che desiderano ri-conoscersi reciprocamente, e che esprimono questo riconoscimento attraverso una scambievole sollecitudine, solidarietà, accoglienza, tenerezza, corporeità, ospitalità l’uno dell’altro. E tutto ciò avviene (ci si sforza di farlo avvenire) in un radicale rapporto con Cristo. La comunione di un uomo e di una donna si inserisce, così, in quella promessa di compimento portata da Cristo verso la pienezza dell’amore. Ma tale inserimento non avviene limitandosi a celebrare ritualmente il matrimonio, quanto nella capacità progettante di “risposarsi” ogni giorno, in ogni stagione del nostro amore, proprio a dimostrare che nell’amore di Cristo siamo disposti a giocarci tutta la vita, poiché è un amore fedele, grande, invincibile; che è nato prima del nostro e dal quale il nostro discende.

Se questa sintesi teologica del matrimonio, riesce, attraverso gli sposi, ad incarnarsi, a farsi vedere, allora è anche possibile “dimostrare” che Dio chiama, converte, trasforma, chiede risposte. Di conseguenza sarà possibile educare ad una mentalità di Dio, sempre più in termini di fede, e sempre meno in termini di “religione” (problema, questo, anche di natura pastorale, che si pone frequentemente nella stessa parrocchia).

Ci pare, dunque, che, all’interno della comunità ecclesiale, la coppia sia soggetto educativo alla vocazione, quando in essa si realizzano fatti e parole che, riducendo lo scarto fra la realtà infinita di Dio e la finita realtà umana, manifestano Dio, rimanendo in Lui.

 

 

La famiglia come “superamento” della famiglia

La prima fecondità e apertura che la coppia esercita è quella della famiglia: con i figli propri, quelli adottati, presi in affidamento, con l’ospitalità dei propri anziani, e, per graduali e successive aperture, di quanti chiedono accoglienza.

Un ulteriore segno di servizio educativo-vocazionale, nasce, dunque, nella testimonianza della cosiddetta “famiglia aperta”. Già la parrocchia ci offre ripetute occasioni per attuare questa apertura che è fonte di evangelizzazione della famiglia e di quanti entrano in rapporto con essa perché insegna che l’amore familiare non può “bastarsi”, non può – pena il suo deterioramento – chiudersi in se stesso, in un egoismo di gruppo, magari mascherato di perbenismo e di “sani principi”.

Quel brano di Vangelo (Mt 12, 46-50) in cui Gesù pronuncia la frase, per certi aspetti inquietante: “Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?”, interpella anche il nostro modo di essere famiglia. Ovverosia la famiglia deve essere uno spazio di affetti, di relazioni, di scelte concrete, dove ci si educa anche al “superamento” della famiglia; dove, cioè, in termini evangelici, si comprende che è il Regno di Dio a motivare il nostro stare insieme, il nostro volerci bene, il nostro uscire dalla famiglia.

Se tale è il presupposto, la famiglia educa se stessa e gli altri a farsi mettere in discussione dalla Parola, a dialogare, a saper ascoltare, a sperimentare l’accoglienza dell’altro nelle sue peculiarità e diversità (si pensi, ad esempio, a quando i figli fanno scelte diverse da quelle dei genitori anche in rapporto alla fede).

Famiglia “aperta” per saper vivere in grande le piccole cose, per dare al quotidiano il respiro dell’universalità, per offrire una visione del mondo, per essere con la nostra storia dentro la storia, per conoscere per amare l’umanità, per saper leggere i segni dei tempi, per saper discernere lo Spirito che “soffia dove vuole”. Famiglia “aperta” che cerca di riconoscere la presenza del mistero di Dio nell’esperienza umana, anche per saper denunciare e criticare quanto vi si oppone; per farsi carico degli altri e della complessità della storia, per camminare insieme a tutti, per fare del presente una lettura profetica. Sarà in questo modo che la famiglia testimonierà come il tempo dell’amore non si dia mai per scontato, ma sia un tempo aperto dove le stagioni della tenerezza, dei conflitti, del dono, degli egoismi, delle fedeltà e delle infedeltà, sono segni che rivelano continuamente le orme di Dio nei nostri passi. Ecco che dentro le pagine spiegazzate dei nostri giorni risuoneranno le parole di Paolo quando scrive: “Nessuno di noi vive perse stesso. Se noi viviamo, viviamo per il Signore, se moriamo, moriamo per il Signore”.

 

 

“Essere” e “fare” servizio educativo – vocazionale

A conclusione diremo (almeno per quanto riguarda la nostra esperienza) che la coppia cristiana e la famiglia che essa genera, più che chiamati a fare sono principalmente chiamati ad essere. Se nella parrocchia è visibile questa presenza di coppie e di famiglie, già così nasce un servizio. Ma, ovviamente, la visibilità richiede anche impegni concreti nella catechesi, nella liturgia, nell’azione caritativa…, in modo che la famiglia possa raccontare, annunciare la “notizia” di Cristo nella propria vita. Visibilità, inoltre, che significa aprire fisicamente la porta di casa, non di meno per far capire che il luogo della “buona notizia” non è solo la chiesa-edificio con i suoi annessi, ma sono anche e soprattutto le persone che in quella specifica porzione di territorio e di umanità vivono l’esperienza della morte e della risurrezione di Gesù, e mettono in comune con gli altri quanto quell’esperienza ha significato per loro.

Dalla fragilità e dalla concretezza dei propri giorni, la famiglia ripete in questo modo quelle commoventi parole che si leggono nella prima lettera di Giovanni: “La vita si è manifestata e noi l’abbiamo veduta. Siamo i suoi testimoni e perciò ve ne parliamo… Perciò parliamo anche a voi di ciò che abbiamo visto e udito; così sarete uniti a noi nella comunione che abbiamo con il Padre e con Gesù Cristo suo Figlio” (1 Gv 1, 2-3).

Da questo annuncio vissuto, riscontrabile nei fatti, scaturisce un servizio alla vocazione. Chi è partecipe e coinvolto da questo annuncio (fatto da persona a persona) potrà chiedersi, così, se sia pronto a rispondere della speranza che è in lui.