Una interazione sempre più necessaria
Individuare e vivere la vocazione è un impegno “trasversale” a tutte le tappe e situazioni di una persona. È frutto di una esperienza educativa e della formazione permanente. Dio chiama ogni persona e tutte le esperienze educative cristiane sono tenute a porre il problema vocazionale ed a favorirne il cammino di discernimento e di sostegno realizzante.
Fondamentale esperienza educativa
La famiglia è una tra le fondamentali esperienze educative, anzi la prima: non solo in senso temporale (perché ogni persona fin dal suo concepimento e dal suo nascere è inserita in un nucleo familiare), ma anche nel senso di responsabilità strettamente legata alla generazione. Lo ha ricordato a più riprese il Concilio Vaticano II affermando che: “I genitori, poiché hanno trasmesso la vita ai figli, hanno l’obbligo gravissimo di educare la prole vanno pertanto considerati i primi e principali educatori dei figli”[1] e ammonendo che “questa loro funzione educativa è tanto importante che, se manca, può difficilmente essere supplita”[2]. La famiglia – sono ancora pensieri dello stesso documento conciliare – è “la prima scuola di virtù sociali” ed ecclesiali (mi permetto di aggiungere al testo conciliare). Scrive, infatti, il testo: “Nella famiglia i figli fanno anche la prima esperienza di una sana società umana e della Chiesa”.
I genitori sono “arricchiti della grazia e delle esigenze del matrimonio-sacramento”, dunque possono serenamente curare la proposta e lo sviluppo vocazionale dei figli. E non in maniera generica: ma presentando loro, e cogliendo tutte le occasioni propizie per farlo, le vocazioni fondamentali della vita civica ed ecclesiale: dunque anche il sacerdozio e la vita di speciale consacrazione (la vita “religiosa” per intenderci). Anche con qualche più particolareggiata attuazione: prete diocesano, missionario, vita religiosa attiva e contemplativa.
Una prospettiva non facoltativa
Una programmazione pastorale che voglia mettere in simbiosi la dimensione vocazionale e quella familiare è dunque tenuta a verificare se la pastorale familiare curi non solo le coppie in quanto tali (capitolo certamente fondamentale) ma se le apra, coerentemente al sacramento del matrimonio, all’accettazione dei figli e alla loro educazione in chiave vocazionale.
La stessa “preparazione dei fidanzati” al matrimonio è tenuta a sviluppare sia pure sommariamente (il che non vuol dire superficialmente) la vita sponsale come esperienza educativa permanente: gli sposi sono chiamati a “co-edificarsi” permanentemente (questo è il loro percorso di santità) e ad educare i figli verso le fondamentali possibilità di realizzazione nella Chiesa e nella società.
Mi sia permesso di chiedere se questa prospettiva, normale per una visione cristiana del matrimonio (si legga quanto scritto dai vescovi italiani in “Evangelizzazione e sacramento del matrimonio” nella III sezione “La vita e la missione della coppia e della famiglia cristiana nella Chiesa e nel mondo” e quanto ha detto più ampiamente ancora Giovanni Paolo II nella “Familiaris consortio” nel lungo capitolo “La partecipazione alla vita e alla missione della Chiesa” in particolare dove illustra “il modo proprio ed originale” della famiglia), venga presentata e coltivata. Soprattutto, poi se tale dimensione educativa della famiglia – lo ricorda Giovanni Paolo II nel documento appena citato – venga svolta “secondo una modalità comunitaria” (n. 50) cioè coinvolgendo sposo e sposa, figli e figlie. Ahimè, quanto siamo ancora lontani da questa prospettiva, financo in certe famiglie ben presenti, nell’azione pastorale, per altri interessi ecclesiali e civili!
Eppure, fuori di quest’essenziale prospettiva, non è possibile porre insieme, organicamente e permanentemente, persone e strutture che nelle curie e negli organigrammi ecclesiali portano il nome distinto di “Ufficio per la famiglia” e “Ufficio per le vocazioni”. Altrettanto va detto per “l’Ufficio per il mondo giovanile” (o espressioni similari). Non si tratta di stabilire a chi tocchi fare il primo passo verso tale organicità fondata su un motivo essenziale, la missione educativa: occorre alimentare concretamente tale convinzione in vista di un concreto raccordo. Nessuna soppressione di uffici ben diversi per compiti e servizi ecclesiali: ma compenetrazione di interessi, questo sì.
Una concreta interazione
Più concretamente? Nelle commissioni, consulte, giunte, segreterie ecc. (i termini comunionali ormai si sprecano) di entrambi gli uffici si preveda formalmente la presenza di almeno una famiglia (dico coppia effettiva non un “rappresentante” dei due!) con buona sensibilità vocazionale, vale a dire comprovata dalla testimonianza della vita vissuta e non solo teorizzata. Ad esse si dica la parola non marginalmente e le si consideri le prime capaci d’animazione vocazionale “da famiglia a famiglia”. Nulla si promuova (giornata mondiale di preghiera, giornata dei seminari, giornata della vita consacrata, sussidi vari: bollettini, manifesti, giornali, ecc.) senza aver fatto verificare se vi emerge la dimensione-vocazionale-familiare.
Un’attenzione particolare andrebbe poi riservata dall’ufficio per la pastorale familiare a quelle associazioni, movimenti e gruppi che, curando la “spiritualità” delle coppie e delle famiglie, rischiano di isolarle nei propri pur legittimi progressi interpersonali dimenticando la pari importanza della formazione vocazionale dei figli. Bisogna riconoscere che questa “apertura” si va, via via, registrando. Ma ecco una domanda/verifica: qual è la proporzione, in ordine di discorsi fatti tra proposte di volontariati vari, di affidamento e d’accoglienza, di attenzione alla scuola o ai mass-media o al tempo libero e quelli esplicitamente vocazionali particolareggiati? Perché non invitare periodicamente – magari tramite l’ufficio per la pastorale familiare – gli incaricati dell’Ufficio diocesano per le vocazioni al fine di ricavare approfondimenti, informazioni, ecc.?
Sarà pure opportuno che famiglie ed animatori vocazionali promuovano insieme incontri e visite nei seminari, nei luoghi di formazione: uno scambio di esperienze è più utile della fabbricazione di idee a tavolino. E, riguardo alla concretezza, è opportuno sottolineare l’incidenza formativa, e quindi vocazionale, dell’oratorio. Questa “istituzione” (“insieme” di persone, strutture, “opportunità” educative) è ovunque in ripresa. L’accoglienza che riserva ai giovani è spesso affidata anche a giovani coppie di sposi. Ancora una volta lo “snodo vocazionale” pone interrogativi e chiede risposte alla famiglia che, nell’oratorio, esercita una delle sue attività a favore della comunità ecclesiale. Non la si trascuri; anzi, nella formazione degli “animatori pastorali”, la si abbia insistentemente presente.
Il raccordo tra pastorale familiare e pastorale vocazionale ha ricevuto un ulteriore appoggio dalla recentissima Esortazione Apostolica postsinodale di Giovanni Paolo II. Ecco due citazioni significative, capaci di suscitare ulteriori spinte programmative: “Una responsabilità particolarissima è affidata alla famiglia cristiana che, in virtù del sacramento del matrimonio, partecipa in modo proprio e originale alla missione della chiesa, madre e maestra. Come hanno scritto i padri sinodali, la famiglia cristiana che è veramente ‘chiesa domestica’, ha sempre offerto e continua ad offrire le condizioni favorevoli per la nascita delle vocazioni. Poiché oggi l’immagine della famiglia cristiana è in pericolo, grande importanza deve essere attribuita alla pastorale familiare, così che le famiglie stesse, accogliendo generosamente il dono della vita umana, costituiscano come ‘il primo seminario’ (Optatam totius, 2) nel quale i figli possano acquisire dall’inizio il senso della pietà e della preghiera e dell’amore verso la chiesa”[3]. Ancora: “I genitori cristiani, come anche i fratelli e le sorelle e gli altri membri del nucleo familiare, non dovranno mai cercare di ricondurre il futuro presbitero negli angusti limiti di una logica troppo umana, se non mondana, pur sostenuta da sincero affetto (cfr. Mc 3,20-21.31-35). Animati essi stessi dal medesimo proposito di ‘compiere la volontà di Dio’ sapranno invece accompagnare il cammino formativo con la preghiera, il rispetto, il buon esempio delle virtù domestiche e l’aiuto spirituale e materiale, soprattutto nei momenti difficili. L’esperienza insegna che, in tanti casi, questo aiuto molteplice si è rivelato decisivo per il candidato al sacerdozio. Anche nel caso di genitori e familiari indifferenti o contrari alla scelta vocazionale, il confronto chiaro e sereno con la loro posizione e gli stimoli che ne derivano possono essere di grande aiuto, perché la vocazione sacerdotale maturi in modo più consapevole e ben determinato”[4].
A ben comprendere, se la pastorale familiare assumerà la prospettiva vocazionale, avrà tutto da guadagnare nella sua completezza. Sarà di appoggio alla famiglia perché realizzi la globalità della sua missione, in coerenza piena con il sacramento del matrimonio ed i suoi doni.
Note
[1] Gravissimum educationis, n. 3.
[2] Ivi.
[3] Pastores Dabo Vobis, n. 41.
[4] Ivi, n. 68.