Comunità cristiana e vocazione presbiterale
La crisi delle vocazioni non va semplicemente registrata sulla base di dati statistici: va letta alla luce della fede. “La crisi di vocazioni – ha detto in questi giorni ai seminaristi torinesi mons. Giuseppe Pautasso, per venti anni rettore del seminario maggiore di Rivoli, celebrando i sessanta anni di Messa – può aiutarci a riscoprire il significato essenziale del ministero sacerdotale: che cosa del suo ‘proprio’ viene a mancare alle comunità e, quindi, come sia necessario operare perché non vengano a mancare preti in quanto tali. In epoca di abbondanza si finisce per chiedere di tutto al prete fino a non capire perché ‘deve’ essere tra noi secondo la sua ‘originalità’”.
Comunità cristiana e ministero ordinato
Tutta l’azione educativa della comunità (catechesi, omelie, confessionale e direzione spirituale, vita associativa…) va condotta attorno alla convinzione teologica ed esperienziale che “senza sacerdoti la Chiesa non potrebbe vivere quella fondamentale obbedienza che è al cuore stesso della sua esistenza e della sua missione nella storia… ossia il comando di annunciare il Vangelo e di rinnovare ogni giorno il sacrificio del suo corpo dato e del suo sangue versato per la vita del mondo”[1].
Troppe comunità aspettano altro dal prete, marginalizzando la prospettiva richiamata da Giovanni Paolo II nel documento citato. Non illudiamo le comunità con attese incomplete, marginali ecc. (preti assistenti sociali, sportivi, animatori di tempo libero…): non aiuteranno la ricerca e la proposta di autentiche vocazioni presbiterali. L’immagine di Chiesa che è sottesa ad una comunità condiziona le proposte vocazionali al sacerdozio ministeriale.
Preti per comunità vocazionali
Il presbitero nel ministero, a qualunque età, deve sentirsi chiamato a contribuire al realizzarsi della “Chiesa sacramento” come prospettato dalla Lumen Gentium e precisamente: segno e strumento in Cristo dell’intima unione degli uomini con Dio e dell’unità del genere umano. L’ecclesiologia condiziona le proposte e le ricerche vocazionali. La crisi delle vocazioni stimoli sovente nei sacerdoti (esami di coscienza, ritiri, esercizi spirituali, formazione permanente…) la verifica attorno al cap. II “Mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato” e al cap. III “Lo Spirito del Signore è sopra di me” della esortazione pontificia Pastores dabo vobis. Il prete non tema di presentarsi alla comunità come costantemente in ricerca di questa “essenzialità”; chieda preghiera, suggerimenti; accetti “revisioni di vita” costruttive e le viva con quella parte del Popolo di Dio che sente il bisogno di verificare anche per sé la fedeltà vocazionale.
La tematica vocazionale in generale e quella più specifica, presbiterale, non sia lasciata emergere solo nei momenti affannosi della comunità (trasferimento di un prete, sua malattia o morte…) o nelle occasionali giornate vocazionali: faccia parte dell’ordinario cammino educativo del Popolo di Dio.
Più in particolare
Il presbitero, senza ostentazione, si presenti come persona per la quale la “dimensione religiosa” è componente essenziale della sua esperienza, non momento occasionale. Si veda (e perciò si auto-coltivi con tutti i mezzi spirituali) in lui la costante ricerca di conoscere Gesù, la Chiesa, i santi “modelli”. Coltivi la “sfumatura dell’amicizia con Cristo” e mostri che la pienezza del costante cammino di conversione non consiste solo nell’abbandono del peccato ma nella ricerca della conformità totale a Gesù Cristo ed ai “sentimenti” che furono in Lui[2]. Un prete bluff non provoca interrogativi vocazionali nella sua comunità. La verifica su chi è un prete per la comunità è data sulla sua abbordabilità circa “tematiche religiose” (non solo culturali, ma vitali), dal “clima” evangelico della sua predicazione e del suo ministero nei colloqui di confessore, direttore spirituale, consigliere.
– La comunità, si esamini spesso se è “traiettoria di Cristo” nella storia e nel territorio; se è “cattolica” nel senso di evangelizzatrice e missionaria verso tutti e non solo conservatrice di se stessa. Una comunità priva di “missionarietà” diffusa non stimola l’individuazione di vocazioni presbiterali: il prete vero si definisce per la sua ansia missionaria. Dunque costruirsi insieme secondo tale prospettiva.
– La vita liturgica della comunità superi la mentalità secondo cui bastano momenti di culto o adempimenti di precetti. Solo nella misura in cui sarà convinta che la dimensione liturgico-sacramentale è altrettanto importante quanto quella caritativo-solidale potrà “osare” autentiche proposte vocazionali-presbiterali. I testi conciliari sulla liturgia, i “principi e norme” dei vari libri liturgici derivati dal Vaticano II, i documenti della CEI su “Evangelizzazione e Sacramenti” ecc. mettono bene in evidenza sia il compito del “ministro” che il suo tipico servizio alla comunità. Ispirare ad essi la quotidiana esperienza della comunità. Quanto si conosce il significato della quotidiana “liturgia delle Ore” cui il prete è impegnato? Chi conosce la centralità dell’Eucaristia (mai fatto privato del prete e meno che meno solo per la sua devozione)? Chi percepisce appieno il valore essenziale della Penitenza e dei suoi “cammini” guidati dal pastore?
– L’azione caritativa ha nel presbitero non solo il suggeritore o il proponente dei “casi” che si affacciano alla comunità: è il permanente formatore di essa con la Parola di Dio, i sacramenti, la formazione alla corresponsabilità. La carità pastorale[3] è ben più di uno stile socio-assistenziale o socio-sanitario. Tutta la comunità vi è tenuta: in essa il prete ha una funzione qualificante educativo/sacramentale. Anche i “volontariati” e tutte le esperienze di “operatori pastorali” vanno vissute nell’ottica della “carità pastorale”. Perché non diventare stimolatori e servi, come presbiteri, di questa carità evangelica? Perché non proporre esplicitamente e spesso ai “volontari”, ai “catechisti”, agli “animatori ed operatori pastorali” la possibilità di un ministero presbiterale che totalizzi il dono della vita nell’ottica della “carità pastorale”?
Lo stesso discorso va fatto con coraggio a tutti coloro che fanno parte di esperienze associative, di movimenti, gruppi ecc. che vogliono essere presenza nella Chiesa e servizio ecclesiale e civile. Perché non arricchirsi con l’individuazione di possibili vocazioni presbiterali ma non solo per se stessi, bensì per la Chiesa locale o per quella universale? Va chiesto loro dal vescovo o dai preti, ma vanno stimolati ad auto-interrogarsi su questo! Troppo comodo ricercare “il meglio” dei preti per sé come assistenti e consulenti spirituali senza mai prospettarsi di far dono alla Chiesa non solo di vocazioni laicali ma anche presbiterali.
Quando i rapporti divengono proposta
La proposta vocazionale presbiterale può maturare anche tramite l’assiduo contatto fra le comunità nel loro insieme o per categorie, soprattutto giovanili, con i seminari diocesani o con le iniziative vocazionali varie (Uffici e centri diocesani…). Il seminario offra “ospitalità” alle iniziative parrocchiali, soprattutto per i ragazzi e i giovani (ritiri, incontri…): ne nascerà uno scambio di conoscenza e di amicizia tra le persone. Superiori e docenti dei seminari si mantengano nella completa disponibilità con le varie comunità: non solo come “predicatori”, ma anche educatori giovanili che partecipano ai campi estivi ed invernali, ai weekend ecc.
Si eviti soprattutto che il seminario compaia all’orizzonte solo per le “giornate”: se ne programmi la “presenza” (dalle occasioni di preghiera a quelle di riflessione) in modo da convincere che ogni giorno è “giornata per le vocazioni”.
Chierichetti, gruppi “Samuele”, A.C.R. e settori adolescenziali e giovani dello scoutismo e di altre associazioni giovanili vengano aiutati ad essere in contatto con superiori e seminaristi tramite specifici e sistematici incontri.
Particolare importanza, per l’immagine che lasciano e per la prospettiva di dialogo e di amicizia che possono suscitare, va riservata nelle comunità ai seminaristi designati per un servizio di fine settimana. Ne sia ben definito il loro ruolo in maniera che non siano assorbiti da supplenze liturgiche od oratoriane: abbiano la possibilità di scambio interpersonale con i giovani ed i ragazzi.
L’oratorio sia impostato non solo come “ricreatorio” ma come ambito per la proposta vocazionale esplicita. L’assistente-prete sia messo in condizione di poter dialogare individualmente con le persone singole, per creare e seguire momenti di preghiera, per mostrare il valore del tempo per riflessioni religiose.
La comunità sia chiamata a verificare tutta questa prospettiva nel consiglio pastorale parrocchiale. Saranno essenziali, soprattutto dove esistono piccole comunità parrocchiali o nei Comuni dove ci sono più parrocchie, iniziative vocazionali coordinate e affidate esplicitamente ad un sacerdote con un gruppo di laici e la presenza non soltanto burocratica di addetti al seminario e all’ufficio diocesano vocazioni.
La centralità della famiglia
Poiché è ormai acquisito il concetto di “parrocchia, famiglia di famiglie” si rendano coscienti i nuclei familiari della loro responsabilità vocazionale in forza degli stessi doni sacramentali ricevuti nella celebrazione nuziale.
La famiglia è la prima educatrice religiosa – e perciò anche vocazionale – dei figli. Si faccia maturare tale convinzione nelle occasioni formative per le coppie (e anche nelle “preparazioni” al matrimonio). Possono molto aiutare alcuni passi della “Pastores dabo vobis”: famiglia come inizio dell’itinerario vocazionale (n. 82); famiglia cristiana soggetto responsabile delle vocazioni sacerdotali (n. 41); famiglia del candidato al sacerdozio (nn. 68 e 79).
A proposito delle famiglie dei seminaristi – a mano a mano che il figlio si avvicina all’ordinazione sacerdotale – il prete responsabile delle comunità approfondisca il suo vincolo con esse incontrandole spesso; pregando con loro e con altre coppie di esse amiche, compresenti nel quartiere o nel condominio, valorizzandone la testimonianza semplice e concreta anche negli incontri con i genitori.
Note
[1] Giovanni Paolo II, Pastores dabo vobis n. 1.
[2] Ibidem n. 46-47.
[3] Ibidem n. 23.