Consapevolezza, testimonianza e responsabilità vocazionale nella formazione del seminarista
Il nostro titolo potrebbe far pensare a un dato scontato che, invece, a una riflessione un po’ seria, tale non appare; chi entra in seminario “ha la vocazione”, così si dice, e deve semmai stare attento a non perderla, ma ciò non equivale a dire che di fatto la vocazione stessa sia elemento costitutivo dei contenuti formativi o della formazione stessa. Specie se ci poniamo in una prospettiva antropologica, ovvero, considerando il problema dal punto di vista della coscienza dell’individuo, o della sua consapevolezza e disponibilità a porsi costantemente nell’atteggiamento e nella logica di chi è “chiamato”, chiamato da una “voce” pur sempre misteriosa per un compito pur sempre da discernere.
L’impressione, oggi, è che la dimensione vocazionale (DV), in quanto tale, sia costitutiva solo o prevalentemente del momento del discernimento iniziale culminante nell’ingresso in seminario o delle fasi strategiche della decisione (inizio della teologia o ammissione agli ordini o momenti particolari di crisi), e sia destinata progressivamente a diluirsi fino, quasi, a estinguersi col tempo (a partire dall’ordinazione sacerdotale, quando ormai non vi sono più dubbi, teoricamente, sul cammino vocazionale) e l’età (cfr. la famosa sindrome dell’“inerzia post-decisionale”). Come se uno potesse sentirsi “chiamato” o avvertisse il bisogno d’interrogarsi sulla sua vocazione solo all’inizio della carriera o in certi momenti privilegiati. DV o vocazione non significa semplicemente cammino di ricerca che s’esaurisce una volta che s’è raggiunta la certezza.
Altra impressione, e questa riguarderebbe più i formatori, è che la dimensione vocazionale tocchi solo o prevalentemente dei contenuti nozionali, siano essi teologici o spirituali (vedi, ad esempio, i vari corsi sulla vocazione nella Bibbia o sulla teologia della vocazione), non sempre forse debitamente correlati con il vissuto del singolo né tali da armonizzarsiorganizzarsi, nella mente e nel cuore del giovane, in dimensione esistenziale, in modo d’essere, d’interrogarsi, d’interpretare il presente e scrutare il futuro.
Anche per questo, cioè per evitare un’interpretazione riduttiva del problema in termini di nozioni contenutistiche o di fenomeno relativo solo agli anni della prima formazione, proporrei di parlare di DV costitutiva, in quanto tale, della formazione iniziale e permanente.
Natura della dimensione vocazionale
Cos’è infatti dimensione vocazionale?
Privilegiando il nostro punto di vista, quello – come detto – antropologico, potremmo dire che la dimensione vocazionale è prima di tutto un modo d’essere e definire se stessi, qualcosa che non è di per sé legato alla vocazione di speciale consacrazione, ma al fatto ancor più primordiale e universale dell’esistenza, che la implica per natura sua. La DV è dimensione normale e costante del vivere e tanto più del vivere credente. Chi finisce di sentirsi chiamato e non percepisce più alcun appello, in qualsivoglia direzione, rinuncia di fatto alla vita e si lascia lentamente morire. Così pure, a livello pastorale-ecclesiale, come dice l’esortazione postsinodale, “la DV è connaturale ed essenziale alla pastorale della chiesa. La ragione sta nel fatto che la vocazione definisce, in un certo senso, l’essere profondo della chiesa, prima ancora che il suo operare”[1].
Dimensione vocazionale e senso d’identità
In termini più precisi: la DV è connessa col senso d’auto-identità. Ne è componente costitutiva, o elemento autenticante. Il senso, infatti, dell’identità personale è dato dal rapporto esistente tra io attuale (quel che il soggetto è) e io ideale (quel che il soggetto stesso sente di dover essere). Evidentemente ci deve essere uno scarto tra questi due elementi strutturali, che non possono essere né confusamente sovrapposti, mancherebbe in tal caso una tensione benefica verso obiettivi da realizzare, né eccessivamente distanziati, tanto da frustrare la naturale tendenza umana di crescita. È importante, invece, che la distanza sia ottimale, ossia realistica e perseguibile. Più in particolare, è ottimale quella distanza tra io attuale e io ideale che, da un lato, è percorribile e accessibile, dall’altro salva la natura del valore ideale – vocazionale che è di per sé mai completamente raggiungibile; da una parte, dunque, è tale da esercitare una forte attrazione che provoca il soggetto a camminare e gustare-conoscere sempre più la sua vocazione, dall’altra ne rileva progressivamente l’esigenze ed esercita una sempre maggior provocazione sull’individuo.
La distanza ottimale, e in fondo la tensione vocazionale, si definisce in un rapporto di equilibrio dinamico all’interno di queste coppie di opposti: accessibile-irraggiungibile, attraente-esigente, già decifrato-ancora da decifrare. Ma è fondamentale ricordare che si tratta d’un rapporto e d’un equilibrio non statici, ma progressivi e mobili; più m’accosto al valore vocazionale, più avverto quanto ne sono lontano (quasi esso stesso s’allontanasse); più lo gusto, più mi costa (perché ne percepisco nuovi aspetti e nuove richieste); più mi ci riconosco, più mi sento provocato a trascendermi (e a camminare ancora).
La DV, perciò, è come uno stato di tensione continua, o addirittura di crisi dell’io, che deve costantemente riorganizzarsi; ma si tratta d’una tensione salutare e d’una crisi normale. Se non ci fossero andrebbero provocate. Sono segno di salute psichica e spirituale, e segreto d’un corretto processo d’autoidentificazione, perché indicano un movimento contemporaneo di tutto lo psichismo verso la piena realizzazione dell’individuo: cuore-mente-volontà che scoprono assieme e progressivamente l’ideale vocazionale, ciò che egli deve diventare nella verità-bellezza-bontà[2]. In un processo che non potrà che durare tutta la vita, garantendo al soggetto uno stato di perenne freschezza-giovanilità (la formazione permanente è la miglior cura per mantenersi giovani e… “vivere” a lungo).
Dimensione vocazionale debole
A questo punto potremmo chiederci se questo è quanto davvero avviene nella dinamica della formazione iniziale e permanente.
Abbiamo accennato prima ad alcune impressioni circa una certa interpretazione piuttosto riduttiva della DV; in linea con quelle osservazioni potremmo ora fare una sorta di costatazione; la DV è spesso debole nei nostri giovani.
È forse una componente della odierna crisi vocazionale che proviene, come ben sappiamo, da una fondamentale crisi della capacità decisionale giovanile. Ebbene, sembra che alcuni, o molti, seminaristi e chierici, una volta raggiunta – come accennavamo più sopra – una determinata certezza vocazionale, non avvertano più alcuna tensione vocazionale, entrando in quello stato un po’ apatico-anemico che è la sindrome dell’inerzia post-decisionale. Fan la fatica di scegliere una volta e poi mai più. Si pongono fuori di quel rapporto vitale tra io attuale e io ideale che è garanzia di crescita, provocazione a scoprire la novità dell’ideale vocazionale e desiderio efficace di realizzarlo.
Hanno sentito una volta l’appello vocazionale con tutta la sua forza d’urto, poi sempre meno. Forse schiavi d’una concezione statico-passiva della vocazione, come qualcosa pensato da Dio e da lui nascosto in qualche parte, si sentono appagati dal fatto d’aver trovato e messo al sicuro, forse sotterra, il tesoro. Sono perciò “fedeli” alla vocazione stessa, non rischiano di perderla, ma rischiano di non sceglierla ogni giorno e non comprenderla in pienezza, di non coglierne l’esigenze sempre nuove ma neppure la bellezza sempre inedita, di non imparare mai a desiderare i desideri di Dio, d’aver paura di buttarsi nel futuro o di fare qualcosa che vada un po’ oltre il proprio io attuale o ciò che l’individuo è sicuro di saper fare. Che è come un sottile tradimento.
Giovani senza crisi, forse, ma anche senza passione…
Cultura della vocazione
È necessario, allora, favorire e promuovere una vera e propria cultura della vocazione nelle nostre case di formazione. Potrà sembrare paradossale, ma è necessario se vogliamo che la DV sia davvero costitutiva della formazione. Cultura nel senso pieno del termine, che porti a vivere quella distanza ottimale tra IA e II che diviene poi tensione vocazionale.
Cultura che sottolinei questi punti, tra gli altri.
– La vocazione è dono, dono squisito del Padre creatore, che “chiama” l’uomo a essere secondo un preciso progetto. È dunque espressione della premura del Padre, che vuole la realizzazione della creatura più di quanto ella stessa non la voglia. Atteggiamento autenticante la vocazione e la personalità del chiamato è, di conseguenza, la gratitudine per colui che non solo mi ha creato ma mi ha anche svelato la via della piena realizzazione, l’unico che può dirmi la verità della mia esistenza. E se l’iniziativa è sempre di Dio, lo spazio spirituale del cuore dei chiamati, come ben dice il documento post-sinodale, “è per una gratitudine ammirata e commossa, per una fiducia e una speranza incrollabili”[3].
– La vocazione è rivelazione dell’identità del singolo, è il nome che Dio ha pronunciato una volta e mai più ripetuto, che rende inconfondibile e positiva l’identità del chiamato. Costui deve dunque percepire la centralità dell’evento vocazionale per quanto riguarda la scoperta definitiva del proprio io; la vocazione non è qualcosa di esterno all’io o di successivamente aggiunto, egli non sta scegliendo semplicemente cosa fare nel futuro, ma sta scoprendo chi è e chi è chiamato a essere. Nella realizzazione dell’ideale vocazionale è nascosto il segreto della sua personale realizzazione, il segreto della sua felicità.
– La vocazione è dono che viene dall’alto, e dunque è anche mistero, in certo senso, qualcosa che non potrà mai essere pienamente scoperto. È quanto mai importante che il giovane mantenga ben vivo in sé questo senso del mistero del proprio io ideale, chiamato a esser conforme all’immagine del Figlio. Tensione vocazionale vuol dire anche questo: esser protesi verso la scoperta di qualcosa che non sarà mai pienamente svelato, inesauribile nella sua ricchezza di senso, e pure indispensabile da conoscere e da vivere per esser pienamente se stessi. Inoltre, se è dono che viene dall’alto, non potrà mai identificarsi con l’io attuale, con ciò che l’individuo già sa di sé e ritiene di saper fare; ma sarà sempre qualcosa che eccede le sue potenzialità naturali e che esige il coraggio di correre un certo rischio…
– È infatti iniziativa di Dio, che progetta l’uomo secondo i suoi propri desideri divini e non certamente secondo quelli dell’uomo, e che sollecita ed esalta al massimo grado la libertà umana: “nella vocazione risplendono insieme l’amore gratuito di Dio e l’esaltazione più alta possibile della libertà dell’uomo; quella dell’adesione alla chiamata di Dio e dell’affidamento a lui”[4]. DV significa dunque anche educazione alla libertà e della libertà ovvero alla libertà come metodo e come contenuto: alla libertà come capacità di desiderare i desideri di Dio, alla grande, non solo per essere quel che Dio vuole-desidera che si sia, ma per desiderare-amare il progetto di Dio su di sé. Non basta che il chierico faccia la volontà di Dio o adempia il progetto vocazionale divino su di sé, ma è necessario che sia attratto da tale desiderio-progetto divino. In concreto che sia libero affettivamente di amare il suo io ideale. Se lo sceglie senza amarlo sta già cominciando a tradirlo. In tal senso dice ancora il documento pontificio sulla formazione sacerdotale “la libertà… è essenziale alla vocazione, una libertà che nella risposta positiva si qualifica come adesione personale profonda, come donazione d’amore, o meglio come ri-donazione al Donatore che è Dio che chiama, come oblazione”[5]. Se l’“adesione personale profonda” riguarda la formazione alla libertà come modalità o metodo, la “donazione d’amore” riguarda la libertà come contenuto.
– La vocazione è dono per gli altri, non è mai in funzione del soggetto, ma si apre sempre a beneficio del prossimo. Il dono vocazionale genera sempre responsabilità, è dato per gli altri e realizza il chiamato nella misura in cui lo fa uscire da se stesso. Se non è inteso come missione non vi sarà alcuna autorealizzazione, ma solo un aborto vocazionale. O quando l’identità e la missione vengono intese come semplice processo d’autoperfezionamento morale o di conseguimento di obiettivi personali (carriera, successo, ecc.), l’individuo è ancora ben lontano da un corretto senso d’identità, non ha ancora scoperto il suo io né la sua vocazione. O si dispone a viverla solo per sé, e dunque contro di sé.
– La vocazione è un dono da vivere con gli altri, con quelli che condividono il medesimo progetto di vita. Essendo “idea” divina, nessuno può presumere di comprenderlo da solo o di realizzarlo pienamente in tutta la sua ricchezza. Si sviluppa allora un forte vincolo tra coloro che sentono di portare l’identico “nome”, l’un per l’altro diventa dono prezioso e presenza indispensabile. Nasce così la comunità presbiterale o religiosa, entro cui ognuno si fa interprete in modo originale del medesimo dono, e il dono stesso “vive” ed è visibile nella testimonianza concorde di tutti. Ma nasce anche così il desiderio e la disponibilità a farsi accompagnare lungo il cammino da un fratello maggiore, nasce la docibilitas nei confronti della guida oggi e di quelle mediazioni che oggi e domani aiutano a scoprire ancora il progetto vocazionale.
– Infine, è un dono che diviene sequela, specificandosi sempre più come un modo particolare di seguire Cristo e imitarlo. Ogni vocazione è una sequela specifica di Cristo, e nasce dall’aver provato il fascino della sua persona. Vivere la DV vuol dire continuare a sperimentare questo misterioso fascino e l’attrazione per la sua parola di vita eterna. Tutto ciò, ed è importante sottolinearlo, fa parte degli aspetti antropologici, prima ancora che spirituali.
Testimonianza vocazionale
Tale punto è strettissimamente collegato al precedente. La cultura della vocazione, o la DV personale, dovrebbe sfociare normalmente nel dovere della testimonianza della vocazione stessa. La testimonianza è la misura, dice la qualità della DV del singolo; mostra, più in particolare, quanto uno senta godibile la sua vocazione, quanto ne sia personalmente attratto, quanto l’avverta come qualcosa di vero-bello-buono per sé e anche per gli altri (e siamo dunque ancora all’interno del rapporto tra libertà affettiva e vocazione).
In genere i nostri seminaristi e chierici sono disponibili a testimoniare la propria vocazione, magari durante la “giornata vocazionale” o “proseminario”, più raramente di propria spontanea iniziativa; alcuni non lo fanno tanto volentieri o sembrano vergognarsi di dire la loro esperienza, o ripetono la solita storiella edificante e un po’ narcisista o fan discorsi troppo dotti o troppo astratti per esser creduti o risultare avvincenti, o non san che dire né riescono a provocare, o si sentono “usati” per la propaganda vocazionale o vivono la testimonianza come qualcosa d’esterno alla loro vita o di facoltativo, o – strano a dirsi – non sanno “parlar giovane” ai giovani, e preferiscono rifugiarsi in linguaggi ripetitivi e un po’ scontati, magari copiati pure, che danno l’impressione, a chi ascolta, del già sentito e visto[6]…
A parer mio vi sono due prospettive da tener presenti in ordine alla formazione alla testimonianza. Si tratta di formare “alla” testimonianza della propria vocazione e di scoprire e fare scoprire la testimonianza come momento in sé formativo.
Formazione alla testimonianza della propria vocazione
È probabilmente un aspetto già curato, tradizionalmente curato nelle nostre case di formazione. Il presbitero è maestro della fede, ma oggi, in modo particolare, si riscopre sempre più il registro della confessio fidei, intesa come confessione della propria esperienza di Dio, quale modello comunicativo di chi vuol trasmettere-comunicare il dono che viene dall’alto.
Di questa formazione sottolineerei prevalentemente questi aspetti. Anzitutto si tratta di formare alla coscienza del dono, del dono ricevuto da Dio che chiede per natura sua d’esser condiviso. È importante, ancora una volta, che il giovane sappia contemplare con gratitudine quanto ha ricevuto, perché sappia condividerlo con gratuità; è importante che in tempi di ritorno d’uno strano intimismo ed egoismo spirituale, che sfocia a volte in una altrettanto strana concupiscenza nelle cose della Spirito, i nostri giovani siano oggi formati a quel senso di responsabilità che è parte costitutiva dell’identità del presbitero, uomo-per-gli-altri, discepolo di Cristo da lui inviato per edificare la comunità. Da più parti si registra oggi un certo offuscamento del senso della missione, della passione dell’annuncio. In tal senso la formazione alla coscienza del dono è educazione ad una libertà responsabile, alla libertà di chi sa riconoscere e apprezzare il dono, e di chi – soprattutto – se ne sente responsabile.
È un dovere l’annuncio, non un optional, dovere che spetta naturalmente ai giovani, “primi e immediati apostoli dei giovani” stessi[7].
Più in particolare tale testimonianza non deve essere interpretata, credo, solo e prevalentemente come semplice racconto auto-esperienziale, ma deve mirare a creare soprattutto quella cultura della vocazione a tutt’oggi ancora assente e pure indispensabile. Cultura che dovrebbe fare al tempo stesso da obiettivo e da collante di tutte le iniziative vocazionali, cultura senza la quale tutta una certa pastorale giovanile-vocazionale, con tutta la fatica che comporta, testimonianze comprese, rischia d’esser vana. Anche il nostro chierico va dunque formato a fare animazione vocazionale, e testimonianze, “intelligenti”, che vadano nella direzione giusta e giustamente provocante, che tocchino certi punti centrali a cui nessuno dovrebbe esser insensibile. Qui possiamo solo brevemente accennare a qualcuno di questi punti: la vocazione come chiamata che riguarda tutti, non solo qualche “eroe”; come progetto che può essere svelato solo da colui che ha parole di vita eterna e che unico può svelare l’uomo all’uomo[8]; vocazione come ideale di vita che nasce dall’amore e porta all’amore e realizza al massimo grado l’umano, poiché l’orienta su Dio, la più alta vetta del desiderare umano. Soprattutto una testimonianza intelligente è quella che sa presentare la vocazione non come un appello… “ai puri e ai forti”, ovvero come un discorso per persone speciali, per gli aspiranti “eroi”, ma come la scoperta della logica o della verità contenuta nel senso stesso dell’esistenza: se la vita è dono totalmente gratuito, non esiste altro modo di vivere degno dell’uomo al di fuori della prospettiva del dono di sé. Questa è verità per tutti, ed è molto più convincente e vincolante quanto è proposto come obiettivo “minimo” per tutti, rispetto a qualcosa che può esser proposto solo a persone speciali. La cultura della vocazione è rigorosamente costruita su una catechesi essenziale della vita, proprio per questo è rivolta alla massa. Ciò che è elitario raramente è evangelico…
Anche così facendo, o così testimoniando, il giovane chierico s’abitua e impara ad essere l’uomo di tutti e il presbitero immerso nella comunità, senza sminuire la portata dell’annuncio, al contrario, proponendolo al cammino d’ognuno.
La testimonianza come momento in se stesso formativo
Questa sottolineatura rappresenta probabilmente un aspetto ancora da approfondire, non tanto in teoria, quanto nell’articolazione formativa. Ormai da tempo si va dicendo che il presbitero si forma attraverso e all’interno del suo ministero[9]. Resta da specificare come condurre a questa particolare sensibilità e unità di vita e, in particolare nel nostro caso, come collegare questa verità alla testimonianza della propria vocazione.
Qui diamo solo qualche suggestione che approfondisce e pure giustifica questo nesso. Partiamo da un principio: la vocazione, come la fede, si fortifica e cresce quando la si propone e dona agli altri. Nei motivi che sorreggono tale affermazione possiamo anche cogliere alcune prospettive formative.
Anzitutto la fatica di tradurre in parole semplici e facili la propria esperienza di Dio o il proprio ideale vocazionale è inevitabilmente fatica salutare, poiché costringe in qualche modo a scrutare ed approfondire tutto ciò, a domandarsi quanto questo sia radicato nella persona e sia motivo di appagamento esistenziale. Probabilmente quest’ascesi fa anche emergere e scoprire motivazioni meno autentiche e da purificare. Ma in ogni caso il dover dire e spiegare agli altri una certa realtà personale costringe comunque a trovare forme diverse, più semplici e più vicine alla persona di chi ascolta, per esprimere quella stessa realtà. È un’opera di traduzione, di semplificazione, di esemplificazione che costa fatica, ma che è inevitabilmente formativa perché obbliga colui che parla e annuncia una buona novella a comprenderla in profondità, a coglierne l’essenza intima, quel nucleo centrale che ne contiene e svela il valore originale e originante. È solo a partire dalla scoperta personale di questo nucleo vitale che può poi nascere un progetto d’annuncio. Rigorosamente parlando, solo ciò che è “personale” può divenire messaggio o proposta fatta ad altri.
Questo è particolarmente vero per un annuncio come quello vocazionale, legato alla espressione di quanto è divenuto ragione della propria vita e della propria scelta. Si tratta non solo di spiegare e render credibile, ma di mostrare la bellezza intima d’un certo ideale. E proprio questo è formativo, sia per la fatica nera che costringe a fare o per quel che lascia scoprire di sé, sia perché il dono che viene dall’alto, come abbiamo ricordato più sopra, è per gli altri, e dunque lo si capisce e gusta solo quando è rispettato in questa sua tensione eterodiretta, solo quando lo si mette a disposizione degli altri, perché anche altri lo conoscano, lo trovino significativo e ne possano esser beati.
In altre parole, il seminarista deve capire che ciò che non sa tradurre in linguaggio accessibile a tutti o che tiene pudicamente per sé vuol dire che non è profondamente radicato nella sua mente cuore volontà, ovvero, non ne è abbastanza convinto, e tenendoselo per sé, lo comprende e gusta sempre meno.
Ciò significa che più il messaggio vocazionale è trasmesso in ambienti diversi e difficili che provocano ed esigono una certa “traduzione”, meglio è, ovvero, la ricaduta sul soggetto è ancor più efficace dal punto di vista della sua formazione.
Ecco perché è necessario non solo sollecitare i nostri giovani a rendere ragione della speranza che è in loro, ma – e forse soprattutto – mostrare la valenza educativa della testimonianza della propria vocazione. Chi impara questa dura fatica impara già a vivere il proprio apostolato come luogo e strumento di santificazione.
Note
[1] Giovanni Palolo II, Pastores dabo vobis, n. 34.
[2] Cfr. Cencini A., Il prete: identità personale e ruolo pastorale. Approccio psicologico, in AA.VV., Il prete nella chiesa oggi, Bologna 1992, pp. 24-25.
[3] Giovanni Paolo II, Pastores dabo vobis, n. 36.
[4] Ibidem
[5] Ibidem, cfr. anche 44.
[6] In tal senso avrebbe forse giovato un accenno esplicito ai seminaristi e chierici quale naturali testimoni della vocazione presbiterale nel paragrafo 41 della Pastores dabo vobis ove si parla dei responsabili delle vocazioni sacerdotali.
[7] Apostolicam Actuositatem, 12; cfr. Sviluppi della Pastorale delle vocazioni nelle Chiese particolari, 43.
[8] Cfr. Gaudium et Spes, 22.
[9] Cfr. Giovanni Paolo II, Pastores dabo vobis, nn. 24-26; cfr. anche G. Colombo, Fare la verità del ministero nella carità pastorale, in “La Rivista del Clero italiano”, 4/1989/329.