N.05
Settembre/Ottobre 1992

Cammino nello spirito e maturazione vocazionale: un itinerario di conversione

Secondo la parola di Gesù riportata nel Vangelo di Luca: “Non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori alla conversione” (Lc 5,32), la chiamata al discepolato è immediatamente una chiamata alla conversione. Così appare dall’aggiunta lucana “alla conversione” rispetto ai paralleli sinottici (Mt 9,13; Mc 2,17). La vocazione è dunque una chiamata alla conversione ed è poi l’azione dello Spirito che personalizza in ciascuno le esigenze evangeliche della conversione. Ma il movimento umano e spirituale della conversione – e della vocazione – è una dinamica in cui lo Spirito di Dio si unisce al nostro spirito al fine – direbbe Paolo – di testimoniare che noi siamo figli di Dio (cfr. Rm 8,16), che la figliolanza con Dio è la nostra identità profonda: ciò che siamo e ciò che dobbiamo divenire.

 

 

La conoscenza di sé

L’iter della conversio ad Deum può essere veritiero, autentico solo se accompagnato, preparato da un movimento di reversio in sé. Si tratta di rientrare in se stessi pensando, riflettendo, interrogandosi (Chi sono? Dove vado? Da dove vengo? Che cosa faccio?) per giungere a una presa di coscienza di chi si è in realtà. È il difficile cammino della conoscenza di sé, cammino che esige attenzione e vigilanza per consentire che la nostra intima e profonda verità si sveli a noi. È il cammino in cui è essenziale sapersi vedere realisticamente, accettando di guardare in faccia alle proprie negatività, debolezze, fragilità. Scoprire le proprie deficienze, i propri limiti (morali, intellettuali, affettivi…), scoprire insomma la propria feribilità è necessario perché venga abbattuto quell’“io” ideale che ci si costruisce, su cui si proiettano i propri desiderata e in base al quale si sogna magari una determinata vocazione… Quell’io che non è reale ma immaginario, è l’immagine di sé inculcata dall’educazione, dall’ambiente, dalla famiglia… o che comunque si è assunto o ci si è forgiati come ideale e doverosa realizzazione di sé. Pena, il proprio fallimento umanospirituale. Un io che, avendo tutta la sua consistenza in quanto immagine, è un idolo, fosse pure rivestito di santità, e dunque è vuoto e nulla, ma ha tutta la potenza di fascino propria dell’idolo in quanto nasconde in sé una promessa. Ma una promessa illusoria perché rende credibile la realizzazione di un “io” non reale, inesistente, e porta a spendere energie nel suo perseguimento. 

La percezione invece della propria debolezza, della propria fallibilità, del negativo che è in sé conduce alla presa di coscienza di una enigmaticità che è in noi e che non può essere rimossa, nascosta a se stessi, ma deve essere assunta per farne uno spazio aperto alla grazia, il luogo della nostra feribilità in cui i gemiti del nostro spirito si uniscono ai gemiti inesprimibili dello Spirito in noi (cfr. Rm 8,26). Fine del movimento di reversio in sé è l’adesione alla realtà, la conoscenza reale di sé, perché è a quel particolare essere, con quei doni e con quei limiti, che il Signore rivolge la sua personalissima chiamata. Si tratta insomma, anzitutto, di prendere sul serio la propria creaturalità. E in questo cammino, in verità mai concluso definitivamente e che richiede la sinergia delle facoltà umane di volontà e intelligenza con l’azione dello Spirito, che al soggetto vengono svelate più in profondità le dimensioni del proprio carattere, della propria affettività, della propria sessualità. Dimensioni traversate da fragilità e feribilità ma chiamate a relazionarsi con il Signore che chiama alla sua sequela. Chiamate a ordinarsi a lui.

 

 

La Parola di Dio

Ma proprio a motivo di questa finalità la conoscenza cristiana di sé non può ridursi a un momento psicologico di introspezione, ma deve sempre trovare nella Scrittura, nell’Evangelo la luce orientatrice della Parola di Dio che è lampada per i passi dell’uomo (cfr. Sl 119,105). Infatti, il suo ascolto nella fede accompagna la discesa dello Spirito sull’orante, Spirito che guida alla pienezza della verità, cioè alla conoscenza vissuta e praticata di Gesù quale via, verità e vita per me. E la Parola di Dio, precipuamente quella contenuta negli Evangeli, che oggettivizza il cammino vocazionale orientandolo all’amore per il Signore e motivandolo con l’amore per il Signore. Ed è la Parola di Dio che plasma la conversione come processo, tendenza di unificazione: unificazione dalle molte parole alla Parola, dai molti “sé” percepiti come realizzazioni possibili della propria identità all’“io personale”, dalla dissipazione nell’esteriorità alla vita interiore, dalla perenne e sempre ulteriore ricerca di novità allo scavo nel profondo a partire da ciò che è essenziale… Unificazione nell’amore prioritario per il Signore.

Questa conoscenza di sé, orientata e illuminata dalla frequentazione della Parola di Dio che dona la conoscenza di Gesù Cristo, il Signore, può allora diventare percezione di un appello profondo che sale dall’intimo, appello che chiama a uscire da sé per coinvolgersi nell’avventura della sequela radicale del Signore. Avventura che si presenta come itinerario spirituale di conversione. È questo duplice movimento che produce nella persona la maturità di chi, liberamente, sceglie di compiere delle rinunce per amore!

 

 

La lotta spirituale

Avendo assodato che la vita, la propria vita, ha un senso e merita di essere vissuta, si tratta ormai di mostrare che vale la pena di vivere e di morire per il Signore. Chiamato dal Signore e guidato dal suo Spirito il credente è trascinato in una sequela in cui è sostenuto anzitutto dalla Parola di Dio e dalla fede nell’amore misericordioso di Dio per lui. Sequela che esige lotta contro gli idoli, assunzione delle armi della lotta spirituale per combattere e vincere i pensieri, le suggestioni attraverso cui si infiltrano le tentazioni nell’animo umano. È solo questa lotta spirituale (fatta di vigilanza, sobrietà, discernimento dei pensieri, attenzione al tempo, adesione alla realtà, preghiera…) che consente di reggere quel cammino mai pienamente compiuto di conversione che è la vocazione. E ci sarebbe da chiedersi se non è proprio l’ignoranza di questa arte, la sufficienza verso ciò che la tradizione spirituale chiama “vita interiore” o “vita nello Spirito”, il misconoscimento della costitutività ed essenzialità di questa dimensione per la vita cristiana che ha favorito o almeno non impedito molte defezioni e abbandoni della vocazione e del ministero!

Nella vita cristiana si tratta di andare a fondo, non oltre, e questo non tanto per via di introspezione psicologica in vista di un miglioramento di qualche cosa di sé, ma nell’oggettività dell’ascolto della Parola di Dio che viene interiorizzata nel credente dallo Spirito. Dice Gesù a più riprese nel quarto Vangelo: “Lo Spirito sarà in voi… vi insegnerà e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto… egli prenderà del mio e ve l’annunzierà…”. L’azione dello Spirito fa del credente la dimora del Padre e del Figlio. È allora che il credente trova la stabilità teologale: trova radici grazie alle quali nutre una speranza. Il radicamento nella fede del Cristo in lui, nella carità del Cristo che l’ha amato e ha dato se stesso per lui (cfr. Gal 2,20); e la speranza del Regno, della gloria, di cui è caparra proprio l’inabitazione del Cristo nel credente: “Cristo in voi, speranza della gloria” (Col 1,27).

Questo il movimento spirituale della vocazione come conversione che tende a lasciare spazio all’opera di trasfigurazione delle nostre povere vite nella vita del Figlio stesso di Dio.