N.05
Settembre/Ottobre 1992

Itinerario per una vita secondo lo Spirito in vista della maturazione vocazionale

Per vivere in pienezza, per giungere cioè alla pienezza vocazionale, bisogna seguire i desideri dello Spirito (cfr. Rm 8,6). Ma per cogliere i desideri di una persona, bisogna andarle nel cuore, muoversi in lei sentendosi di casa; occorre intimità, confidenza, reciproca trasparenza.

Condizione fondamentale di un cammino nello Spirito è educare i giovani ad avere confidenza nello Spirito. Fallisce altrimenti ogni fatica. Aver confidenza significa entrare in un rapporto personale, porsi cuore a cuore. “Le orecchie del mio cuore, Signore, sono davanti a Te, dice S. Agostino (Conf. 1,5).

Dunque un itinerario per una vita che voglia maturare va cercato nelle indicazioni dello Spirito; e tale maturazione non può essere altro che maturazione vocazionale, perché l’uomo vive davvero solo se vive vocazionalmente. Ogni itinerario di vita è sempre in ordine al progetto di Dio sull’uomo. Ed è questo disegno di Dio che lo costituisce in una identità ben precisa. L’io, questa suprema realtà umana, baricentro di tutta la realtà terrena, è sempre un io vocato. Egli sgorga tale dal Mistero dell’Essere, dal segreto della amorosa Volontà Creatrice.

La vocazione è la stella mattutina; essa nasce con l’aurora della vita e dall’aurora della vita bisogna educare l’uomo ad essere fedele alla sua stella mattutina che sicuramente apparirà. Nessuna risposta vocazionale si può improvvisare, vivere è vivere vocazionalmente. E tanti drammi dei giovani d’oggi ce lo comprovano.

Ma solo lo Spirito conosce il disegno di Dio sull’uomo, su ogni singolo uomo, perché Egli abita Dio e abita l’uomo. È Lui infatti che intercede con insistenza per l’uomo,… perché il disegno di Dio si realizzi in lui (cfr. Rm. 8, 26-27).

 

 

Quali sono le indicazioni dello Spirito?

Quali le tappe del cammino che Egli ci propone?

Attraverso lo Spirito, che è Spirito di Verità, l’uomo ha bisogno di cogliersi prima di tutto come riflesso del Volto di Dio, immagine dunque di Dio.

Vorrei qui suggerire per tutti gli educatori, gli accompagnatori, uno splendido brano delle Confessioni di Agostino. Egli parla di coloro che, incapaci ancora di una vita profonda, godono di cose esteriori ricavandone solo sensazioni di vuoto e stati dolorosi di inedia. Per giunta, egli dice, sono incapaci di porci la domanda decisiva, risolutiva: Chi ci mostrerà i veri beni? Lo dobbiamo dire noi a loro – egli afferma con forza – rivelando loro, dal cuore della nostra esperienza personale, che noi siamo immagine di Dio: Lo diremo noi a loro, ed essi ci ascoltino: Sul nostro volto si riflette la luce del Tuo Volto, Signore… Noi diventiamo luce in Te, noi che una volta eravamo tenebre. Vedessero almeno con lo sguardo interiore l’Eterno che io avevo già gustato! Fremevo per non poterlo mostrare anche a loro! Volgessero almeno a me il cuore che essi volgono ai beni visibili, lontani da Te, e mi dicessero: “Chi ci mostrerà dove sono i veri beni?” Là, infatti, dove… avevo ucciso ciò che c’era in me di vecchio, dove avevo cominciato a pensare alla mia rinascita sperando in Te, là Tu mi avevi manifestato la prima volta la tua dolcezza e avevi dato gioia al mio cuore (S. Agostino Conf. 9,4).

Credo questo sia fondamentale per iniziare con lena e speranza un autentico cammino nello Spirito.

I giovani hanno bisogno di recuperare dentro di sé prima di tutto l’immagine di bellezza che il Creatore ha impresso in essi e che in essi affiora come nostalgia struggente di armonia, di purezza, di equilibrio.

“Sei Tu, Signore, che susciti in lui (nell’uomo) questo desiderio perché Tu ci hai fatti per Te e il nostro cuore non ha pace finché non riposa in Te” (S. Agostino Conf. 1,1).

Alla creatura rimane il bisogno di volgersi a Colui da cui fu creata, di vivere sempre più vicino alla fonte della vita e di “vedere nella sua luce la luce così da esserne perfezionata, illuminata e resa felice (S. Agostino, Conf. 13,4).

Se non viene saziata questa fame, questa sete radicale, l’uomo non potrà mai essere veramente se stesso e tutte le tappe ulteriori del suo cammino risulteranno fragili, senza fondamenta. La consistenza dell’uomo non può mai poggiare su qualcosa che è fuori di lui, antropologicamente estraneo a lui, né tanto meno su realizzazioni estrinseche alla sua natura più profonda.

Il progresso scientifico da una parte, l’urgenza di bisogni concreti della società degli uomini dall’altra, hanno indotto l’uomo a valutarsi, a misurarsi sulla base di un criterio efficientista. I dinamismi vitali sono diventati dinamismi funzionali; le interrelazioni personali, interrelazioni strumentali; e nelle mani di pochi, furbi e potenti, l’uomo da fine è diventato mezzo.

L’uomo non va più a pescare l’immagine autentica di sé nel Suo Creatore, come il bambino nel padre e nella madre, ma la cerca nella sua efficienza, nella sua funzione. E la frustrazione è fatale. “Sono uno sventurato! – dice Paolo – Chi mi libererà… (Rm 7,24).

Prima di tutto dunque, penso sia da proporre un cammino di ritorno alle proprie origini. Il che significa cercarsi nel proprio cuore, lì andare in cerca della autenticità della propria immagine, lì dove lo Spirito ha disegnato l’Immagine Esemplare del Primogenito: “Redi in te ipsum – dice Agostino – in interiore homine, habitat veritas (La Vera Religione 39,72).

Tutti gli insuccessi nell’ambito formativo, mi sembra siano determinati da mancati cammini di interiorità. Per itinerari diversi da questo, non si incontrano l’uomo e il suo cuore; e il cuore è l’unico spazio dove si svolge la sua vera vita, il luogo della sua vera esperienza umano-religiosa, dove l’istante presente rivela il “Dominum transeuntem (S. Agostino, Discorsi 88,14,13), il Signore che passa e chiama; perché Egli, col suo passare, per così dire, sbriciola la sua chiamata in ogni attimo fuggente dell’esistenza umana.

 

 

Un impatto duro e inevitabile

Certo, l’impatto dei giovani con la realtà e con l’esperienza della propria fragilità, è inevitabile e duro. Paure, impotenza, angosce, condizionamenti personali, sociali, culturali, sono ostacoli alla sua serenità, pur necessaria come alimentatrice di speranza e liberatrice delle energie interiori che aiutano l’uomo ad affrontare coraggiosamente “il combattimento cristiano”. Penso allora che sia molto importante, per il conseguimento di una serena maturità cristiana e vocazionale, illuminare e approfondire in tutti i suoi aspetti la grazia battesimale, la realtà determinante del nostro Battesimo. Ho visto aprirsi cammini di luce, di rinnovata vitalità interiore, in tutti i giovani che prendono coscienza di questo immenso dono.

Paolo VI così scrive nell’Enciclica “Ecclesiam Suam”: “Bisogna ridare al fatto d’aver ricevuto il Battesimo… tutta la sua importanza: specialmente nella cosciente valutazione che il Battesimo deve avere della sua elevazione,… alla fortuna, vogliamo dire, alla grazia e al gaudio dell’inabitazione dello Spirito Santo, alla vocazione d’una vita nuova… L’aver ricevuto il Battesimo… deve marcare profondamente e felicemente la coscienza… deve essere davvero considerato… una ‘illuminazione’ che facendo cadere su di lui il raggio vivificante della verità divina, gli apre il cielo, gli rischiara la vita terrena… (n. 18).

Colui che vive coerentemente il suo Battesimo vive dunque in stato di discernimento; il Battesimo vissuto è un discernimento in atto. Ed è facile comprendere quanto ciò sia importante sul sentiero della scelta e della maturazione vocazionale.

L’uomo che diviene consapevole del suo essere “figlio” si dispone a un atteggiamento confidente che lo apre a qualsiasi proposta divina e lo abilita a ogni genere di risposta; lo attira finalmente alla comunione intima e inebriante con il Fratello Cristo, il Figlio amatissimo del Padre.

Il giovane soprattutto ha bisogno di sentirsi amato. Egli ha in se stesso un cumulo di energie, di aspirazioni a donarsi, a spendersi, che attendono solo di essere liberate. L’egoismo lo mina alla radice, lo soffoca, lo imprigiona. Dare la vita è la sua libertà, la sua maturità vocazionale. Come in Gesù. Il cammino battesimale diventa allora cammino vocazionale. Sono convinta che se non si parte di qui, vengono a mancare i fondamenti, le ragioni stesse dell’esistenza e tanto più di una esistenza vocata.

 

 

L’indispensabile appartenenza ecclesiale

Il giovane, attraverso la consapevolezza di essere abitato da Dio, di possedere con lui tutto l’equipaggiamento per vivere la sua esistenza e crescere nell’amore, passa finalmente dalla paura alla filialità, dall’egoismo al dono di sé.

Certo quanto andiamo dicendo esige di essere incarnato già in figure, in persone che ne dimostrino la possibilità concreta ed entusiasta. In realtà, i giovani sentono il desiderio di proposte chiare e forti, ma spesso si appiattiscono e deviano per mancanza di modelli propositivi che catalizzino le loro energie e motivino in modo deciso e generoso la loro esistenza. È la situazione dei giovani di oggi.

Un luogo, però, un ambito, un grembo è necessario nel quale tutto questo peso d’amore possa crescere, alimentarsi ed espandersi, consumarsi.

È significativo e interessante vedere con quanto entusiasmo i giovani sappiano dedicare le loro fatiche, spendere il loro tempo non appena viene loro aperto il senso della Chiesa, così come l’ha voluta Gesù, spazio d’amore, grembo di vita nuova, dono di fraternità universale. Allora la vita battesimale prende quota in orizzonti di libertà e di dedizione.

Io credo impossibile far maturare una scelta vocazionale senza la consapevolezza di una appartenenza – per così dire – ontologica alla Chiesa, a questo tipo di Chiesa che in Cristo genera, salva, educa l’uomo. È “humus” e “habitat” e i giovani di questo hanno bisogno per fare esperienza di quell’amore oblativo, che accenderà poi tutte le scelte. Quanto sarebbe da dire a questo proposito!

 

 

Immersi in preghiera, unico nutrimento della fede

Naturalmente proporre ai giovani un itinerario di questo genere è provocarli alla fede. Questo cammino in salita si fa se c’è la fede, una fede viva. Nella vita assolutamente tutto si gioca sulla fede. È sulla fede che si può investire l’esistenza a fondo perduto, nella gratuità dell’amore. È la fede che fa l’uomo sicuro di sé anche quando si impegna per tutta la vita, “a rischio”. È la fede l’interprete lucida e serena della sua storia d’uomo.

Questo tipo di fede si nutre di preghiera e nutre la preghiera che in tal modo non è più un momento parallelo o fuori dell’esistenza, ma diventa addirittura un modo di vivere, l’unico modo di vivere vocazionalmente, ossia “i desideri dello Spirito”, perché è un “vivere consultando” lo Spirito. Tale preghiera è così gemella della vera fede, l’accompagna, si nasconde nel suo respiro e innalza tutti i giorni dell’uomo al cospetto del Signore della vita.

Educati a questa fede e a questa preghiera, i giovani saranno uomini, cristiani adulti, capaci di compromettersi fino in fondo, in un dinamismo costante di speranza e di amore nella vicenda di Cristo. E non c’è grado di maturazione superiore a questo: “Non sono più io che vivo, Cristo vive in me” (Gal 2,20). 

È questa la perfetta statura della “sequela”.