N.05
Settembre/Ottobre 1992

La dimensione mariana nella vita secondo lo Spirito

In un bel discorso dell’anno santo del 1975 (30 maggio) Paolo VI ha detto: “Rendiamoci conto che Maria è presente nella nostra vita, è presente nel mistero di Cristo e nel mistero della Chiesa, è presente in questa attualità del mistero di Cristo che siamo noi, che è la storia umana. Risalta l’uso preciso del verbo: essere presente. Maria è una presenza attiva nella Chiesa e in quella forma singolare di Chiesa che è ogni persona credente in Cristo: “Tota Ecclesia in singulis” secondo l’insegnamento di S. Agostino. Ciò vale in particolare per chi accentua nella propria esistenza il mistero della vocazione di speciale consacrazione; chiamati da Cristo, si cammina dietro e verso di Lui avendo come “figura” e “modello” Maria: “La beata Vergine Maria continua a ‘precedere’ il popolo di Dio. La sua eccezionale peregrinazione della fede rappresenta un costante punto di riferimento per la Chiesa, per i singoli e le comunità, per i popoli e le nazioni e, in un certo senso, per l’umanità intera[1].

Esiste certamente una dimensione mariana, una particolare caratterizzazione mariana del cammino spirituale di una persona che intende maturare nella sua vocazione di speciale consacrazione: quali ne sono gli aspetti significativi? Vorremmo rispondere alla domanda con un certo sforzo di precisione teologica per evitare i trabocchetti di una “devozione” che spesso degenera in devozionalismo; a Maria si deve molto di più di una “devozione” essendo la sua “una presenza attuale e esemplare”.

Giova riprendere, sia pure in forma assai sobria e per accenni, alcuni tratti caratteristici della “figura” di Maria non solo per indicarli quali esempi da imitare ma per coglierne anche la presente efficacia nella vita cristiana vocazionale; ha detto bene Cromazio di Aquileia: “Non si può parlare della Chiesa se non vi è presente Maria”. In altre parole: Maria ha una parte eminente ed efficace nella maturazione spirituale della Chiesa e, in essa, di ogni persona (cfr. LG 65).

 

 

La dimensione carismatica della vocazione

Maria è una creatura del tutto spirituale; essa è il “tempio di Dio” e “l’arca dell’alleanza”. Tutto quello che si è compiuto in Maria è dovuto storicamente all’azione dello Spirito Santo ed è avvenuto nello Spirito Santo. Non è fuori tema affermare che la presenza attuale di Maria nella vita di una persona segnata dalla vocazione attua in essa, in modo misterioso, l’azione dello Spirito Santo così che la vita stessa diventa spirituale, carismatica.

Il riferimento alle due metafore bibliche “tempio di Dio” è “arca dell’alleanza” consente di annotare che Maria è innanzitutto il luogo dove lo Spirito prende dimora (e con lui vengono ad abitare il Padre e il Figlio) mediante la fede; con l’apertura meravigliosa della sua fede, Maria ha dilatato al massimo lo spazio spirituale del suo cuore, del suo intimo, e il Vivente è entrato in lei con pienezza inaudita, in modo nuovo e meraviglioso. Ed anche che l’esistenza di Maria è tutta un fatto spirituale; la sua stessa maternità divina prima che un fatto fisico è un fatto spirituale: prius concepit mente quam corpore, dicono i Padri[2].

Occorre pertanto introdurre nella propria vita una dimensione, una caratterizzazione spiccatamente carismatica. C’è qui un appello all’interiorità che ben conosciamo; ma ci sembra che ci sia qualcosa di più: c’è l’imperativo per ogni esperienza vocazionale a edificarsi “in tempio santo” e in “arca dell’alleanza”, cioè a essere luogo riempito dallo Spirito per offrire al mondo la presenza di Cristo. È questa la specifica dimensione e la funzione di ogni vocazione di speciale consacrazione: essere, a propria misura e nella Chiesa, “sacramento” del Salvatore, segno prima ancora che strumento dell’incontro con Dio.

La carismaticità, dunque, non allude a presunte libertà o a un porsi fuori delle regole del vivere nella Chiesa; richiama piuttosto al mistero che adombra la nostra esistenza e richiede di fare spazio allo Spirito del Signore che agisce. Si tratta di arrivare a un superamento di ogni soggettività esasperata, di ogni forma di protagonismo, per dare risalto a chi ha l’iniziativa e il compimento; ricorda S. Ambrogio che “Maria è il tempio di Dio, non è il Dio del tempio”; di lei la Chiesa dice sempre che è “umile e povera. In questa luce è da vivificare la virtù dell’obbedienza che è anzitutto e soprattutto obbedienza nella fede, anche quando riveste le umili forme dell’obbedienza disciplinare al Vescovo o al Superiore.

 

 

Vocazione come ministero e umile servizio

Maria è strumento di salvezza; lo è stata nella sua vita temporale, lo è ora nella Chiesa e nei cristiani. Nella liturgia mariana assume un posto ampio e ricorrente il tema di Maria come strumento di salvezza, come “una mano con cui Dio offre il suo dono. Si sa che è un tema delicato, anche in ambito ecumenico; sorge il timore che si voglia offuscare il solo Mediatore tra Dio e gli uomini, cioè Gesù Cristo. Il Vaticano II puntualizza: l’unica mediazione di Cristo è un punto irrinunciabile ma essa non esclude, anzi suscita nelle creature una varia partecipazione e quella di Maria è al primo posto (cfr. LG 62). Maria è la “generosa socia inseparabile da Cristo; come a Betlemme è sempre lei che lo offre a ogni credente come Salvatore; è la Madre della “divina grazia”. Commenta ed esplica San Tommaso: “È già gran cosa per un santo qualsiasi accumulare in sé tanta grazia da bastare per la salvezza di molti (è il caso per esempio di fondatori di ordini religiosi). Ma se ci fosse qualcuno che ne avesse tanta da bastare per la salvezza degli uomini di tutto il mondo, allora avremmo il massimo: ora questo si verifica in Cristo e nella beata Vergine[3].

Non c’è da lasciarsi prendere dall’entusiasmo, piuttosto c’è da lasciar crescere il senso della responsabilità. In Maria Dio si è scelto un punto in cui Dio da appuntamento all’uomo per salvarlo; oggi tale punto è anche la Chiesa e, in essa, chi sente più di altri che la propria esistenza è un dono che si fa dono, una grazia così abbondante che ridonda su tutti, “un vaso pieno che traboccando colma gli altri”. In forza dell’ordinazione e, nella propria misura, della consacrazione religiosa, si diventa strumento di carità: questo costituisce la struttura basilare di ogni maturità spirituale per chi è chiamato.

In questa prospettiva le virtù tradizionali della umiltà, del sacrificio di sé, della povertà acquistano nuovo spessore e si mostrano come gli ingredienti – ci si passi la parola – senza i quali non c’è sostanza. Non si tratta, dunque, di abbellimenti ma di ciò che appartiene al “mistero”, alla volontà del Signore. Si diventa preti o religiosi/se non per amare di meno ma per amare di più cioè per dare vita e salvezza, senza misura e senza confini.

 

 

 

 

Note

[1] Giovanni Paolo II, Redemptoris mater, n. 6.

[2] Cfr. in proposito Paolo VI, Marialis cultus, nn. 26-27.

[3] S. Tommaso D’Aquino, Opuscola theologica, II, Marietti, p. 240.