N.06
Novembre/Dicembre 1992

La preghiera dei sofferenti per le vocazioni

Per la semplice ragione che il Creatore bacia in fronte ciascuna persona, chiamandola per nome, le vocazioni, come le forme di preghiera e di sofferenza, sono incalcolabili. A ben pensare, classificazioni e categorie sono semplici complicazioni della ricerca umana, che s’addicono ai passaggi storici. In diverse parti del Mondo ho incontrato fratelli e sorelle portatori di difficoltà fisiche, psichiche o sociali. Ho conosciuto persone di svariate età, con forme di sofferenza spesso innocente e talvolta inconsapevole, per lo più irreversibili, insieme a uomini e donne felici di consumare la sovrabbondanza del loro cuore, e fors’anche l’intera vita, nel tentativo di lenire le pene, d’alleviarne la bruciante solitudine.

Quand’ancora si diventava maggiorenni a ventun’anni, diciassettenne, sono fuggito di casa per farmi frate. Trascorso un abbondante quarantennio, sono costretto a pensare vera la mia vocazione; malgrado il patire che m’è costata, certo non intendo cambiarla. Tuttavia sofferenza e vocazione per me restano rebus nel cuore di Dio. Su queste frontiere il mio tentativo di ragionare si perde nel mistero del Venerdi Santo, scendono le tenebre pomeridiane del Calvario, anticipo di ombre e luci sulla stessa Alba pasquale, dove c’è ben poco da capire ed è facile illudersi di saper spiegare. Conviene inginocchiarsi e adorare.

Il grido profetico del Crocifisso morente contiene un barlume per il soffrire delle creature, un richiamo che rischiara di significato religioso ogni limite umano, personale o comunitario che sia. A loro volta, le vocazioni (particolarmente quelle dette di speciale consacrazione), nel medesimo grido trovano la possibilità di riscoprire il senso del loro dover essere richiamo della trascendenza divina, segno e dono d’Amore per gli autosufficienti del popolo di Dio, a qualsiasi categoria appartengano.

Sofferenti, suore preti e frati, più coscienti o meno, piacenti o nolenti, in comunione giocano la loro esistenza sul mistero di Dio; una questione di non facile lettura, dove i primi dispongono d’un sicuro vantaggio sui secondi: appartengono già al Regno, mentre i consacrati, per averne l’accesso, dovranno ancora faticare parecchio dovendo impossessarsi della povertà evangelica, assolutamente necessaria per la credibilità della loro testimonianza.

Nel disegno di Dio, umanamente parlando, la sofferenza (come ogni male) è sempre da combattere. Nondimeno, oltre questo tentativo, mai completo, mai esaurito, v’è una zona prevista ed inevitabile, sulla quale le creature non hanno potere, dove non è ammesso il sistema della delega, non tanto perché manchino i necessari riscontri, quanto piuttosto perché tale spazio coinvolge la finitezza delle creature insieme all’infinito di Dio.

Nel dipanarsi storico dell’economia della salvezza, gli uomini hanno bisogno di prendere coscienza della propria miseria. Solo allora il patire può diventare preghiera, poiché l’Onnipotente la rende tale. Ringraziamo Dio se poi vi sono sofferenti dalla fede tanto eroica da desiderare ardentemente la propria Pasqua, da portare la propria croce in pace, sino a trasformarla in preghiera, in adorazione, a vantaggio dei limiti umani dei consacrati.

Personalmente ho conosciuto alcuni di questi testimoni d’eccezione. Una cosa tuttavia è certa: i malati, i portatori di handicap, compresi quelli che non riescono a pregare, non sono gli altri. Il loro soffrire è parte del nostro itinerario, del nostro destino compromesso. Il loro penare è reso immortale da Gesù Salvatore e fratello d’ogni uomo. Noi, i fortunati, dobbiamo pregare con i sofferenti, perché solo allora la Misericordia divina, superatrice d’ogni egoismo, anche spirituale, compenetra l’intera umanità. Nulla ha potere sul cuore di Dio Padre provvidente quanto la preghiera del povero e del sofferente: è moneta di prim’ordine, tesoro dall’efficacia garantita, anche quando nelle sue apparenze umane sembra andare a vuoto.

Umberto, grand’invalido dalla nascita, morto appena ventenne di leucemia, benediceva Dio nella propria esistenza crocifissa, offrendola per Antonio, un consacrato dagli elevati incarichi ecclesiali, che si riconosceva in stato di sterilità apostolica. Mio tramite, egli aveva affidato la propria missione all’invalido, che l’assunse completa e a tempo pieno. La vita del consacrato divenne rapidamente fruttifica, al punto che, insistente, Antonio voleva incontrare Umberto per esprimergli riconoscenza. L’invalido rifiutò tale proposta: “Mi saluti quel suo amico, e gli dica che può contare sulla, mia croce e sulla Messa, che ogni giorno offro secondo le sue intenzioni. Aggiunga però, senza mezzi termini, che intendo evitare regali e il rischio di complimenti perditempo. Lavori sodo e in pace, che in quanto allo spartire i meriti avremo tutto il tempo opportuno…”.

Per loro natura, tanto la sofferenza quanto la consacrazione al seguito di Cristo, comportano preghiera, solitudine, aridità, e fors’anche spazi e tempi difficili, inesprimibili, nonostante il fatto che poi, quotidianamente, ogni uomo si ritrovi costretto a fare i conti con il proprio innato bisogno di pace e di gioia sensibile.

La profezia cristiana non concede soste, non ammette vacanze e tanto meno consente inversioni di marce. Solo nella fedeltà generosa ai sentieri di Dio, i testimoni oranti, tanto quelli chiamati alla sofferenza, quanto quelli chiamati ai variegati ministeri di speciale consacrazione, si ritrovano investiti di luce e di forza interiore, e pertanto capaci di rendere attuali i paradossi evangelici. Chiunque incroci questi uomini sul proprio cammino terreno, con stupore, è costretto a prendere coscienza ch’essi anticipano riflessi d’eternità.