Condizioni celebrative e fecondità vocazionale della liturgia
Anziché accostare con taglio pastorale l’argomento in oggetto, ho preferito percorrere e mettere in evidenza i valori e le dimensioni che la celebrazione liturgica già contiene ed esprime in ordine al discorso vocazionale: occorre dar “Voce” e spessore celebrativo ad essi. In tal modo il momento della preghiera ecclesiale costituirà l’humus pastorale e di Grazia capace di provocare vocazionalmente le nuove generazioni.
Il contesto di ogni vocazione
Se da un lato la vocazione è Grazia e dono della assoluta e libera iniziativa di Dio, dall’altro essa comporta nell’uomo un atteggiamento di ascolto e di apertura alla comunione con Dio: quest’ultimo si realizza nella preghiera. Ora, la celebrazione liturgica, proprio perché celebrazione del mistero del Signore morto e risorto, è innanzi tutto proclamazione della salvezza come grazia e, per ,questo, dono da domandare nella preghiera. Nella Chiesa è lo Spirito Santo che prega e la sua preghiera non resta mai senza esito. Ed è sempre lo stesso Spirito che suscita doni e vocazioni per proseguire l’opera che il Cristo ha iniziato e che ora è affidata alla Chiesa, secondo il mandato del Signore. Ed è in un contesto celebrativo (Atti, 13,2) che Barnaba e Saulo sono scelti dal Signore per l’opera alla quale li ha chiamati.
La Chiesa che si riunisce per celebrare e pregare richiama e realizza innanzi tutto il contesto fondamentale di ogni vocazione: la preghiera (Mt 9,38; Lc 10,2). La chiamata viene da Dio e la si percepisce solo se c’è comunicazione con Dio.
Conoscere e amare ciò che si celebra
Dal momento che la liturgia è celebrazione di un evento – Gesù Cristo, morto e risorto – non vi può essere piena partecipazione ad essa senza conoscenza, condivisione e amore per il Signore. E questo ci lascia intravedere una condizione previa al momento celebrativo: l’annuncio che apre il cuore all’incontro con il Signore. In molte occasioni però oggi è la stessa celebrazione che può diventare un forte momento di annuncio, capace di interrogare e di toccare il cuore dei presenti, che spesso sono anche identificabili con i cristiani “della soglia”. C’è una sapiente “regia” della celebrazione (la fede-partecipazione di colui che presiede e dei presenti, lo stile, la valorizzazione della forza comunicativa dei riti-simboli…) capace di lasciare intravedere la bellezza di Dio, del suo Vangelo e della sua chiamata.
Rendere grazie per la chiamata
Raggiunto e toccato dalla Parola l’uomo si apre all’adorazione, al rendimento di grazie e alla supplica. E la celebrazione è il luogo permanente e privilegiato del rendimento di grazie nella Chiesa. Esemplare in proposito è l’atteggiamento di Paolo che ringrazia Dio per la chiamata ricevuta: “Rendo grazie… a Gesù Cristo, Signore nostro, perché mi ha giudicato degno di fede chiamandomi al ministero, io che ero un bestemmiatore, un persecutore e un violento” (1 Tm 1,12-13). Ancora: Paolo in tutte le sue lettere ringrazia Dio per la fede dei chiamati, per il ricordo di coloro che aveva convertito (Rm 1,8; 1Cor 1,4; Ef 1,16; Col 1,3 ss, 1 Ts 1,2-3).
In ogni celebrazione il cristiano è condotto a fissare lo sguardo su Colui che lo ha chiamato: Dio guarda, sceglie, chiama in modo personale… e, partendo da questa realtà incontrovertibile, si è invitati ad alzare gli occhi e il cuore in perenne rendimento di grazie.
È questo punto fermo della vita di ogni credente l’orizzonte da cui guardare la vicenda terrena e le stesse difficoltà.
Consolidare la chiamata: l’assiduità con la Parola
Nella liturgia di ordinazione si ricordano le parole di Paolo: “Dio che ha iniziato in te la sua opera, la porti fino a compimento”. È certamente di Dio il potere di rinsaldare, consolidare e confermare la chiamata (Rm 16,25): per questo occorre pregare e domandare la grazia della costanza, fedeltà e perseveranza.
Ma è soprattutto la Parola di Dio che ha questo potere: quando Paolo a Mileto saluta i presbiteri di Efeso dice: “Ed ora vi affido al Signore e alla Parola della sua grazia che ha il potere di edificare e di concedere l’eredità con tutti i santi” (At 20,32).
Ora la Parola realizza nella liturgia il momento vertice della sua sacramentalità: la Liturgia della Parola, infatti, non è un momento didattico e decorativo dell’azione liturgica, ma è un evento sacramentale, perché è Lui – il Signore – che parla, quando nella Chiesa si proclama la Scrittura. Questa fede nello spessore sacramentale della Parola è significativamente conservata e celebrata dalla tradizione liturgica. Al “Libro” sono riservati segni di onore come per le specie consacrate: l’incensazione, le candele accese, il bacio, l’acclamazione “Lode a te, o Cristo!”.
La celebrazione liturgica infatti non è paragonabile ad una “lezione” di sacra Scrittura: essa ci restituisce la Parola viva che oggi interpella la Chiesa e il singolo credente. Non siamo cioè di fronte all’insegnamento di un maestro di filosofia, ma alla presenza di Cristo che chiama, che invita ad aprirgli le porte della propria esistenza per viverla in comunione con Lui e in dipendenza dalla sua Parola.
San Gregorio Magno esprime con profonda convinzione la fede nella presenza di Cristo che parla: “In scripturis eius, quasi os eius intuemur” È, in fondo, l’“oggi” risuonato nella sinagoga di Nazaret (Lc 4,21) che diventa, nella celebrazione liturgica, l’“oggi” vivo ed efficace per la Chiesa. La Parola, infatti, è giudizio di salvezza per chi crede, giudizio di condanna per chi rifiuta consapevolmente la luce e preferisce le opere delle tenebre. Perciò quando leggiamo e ascoltiamo proclamare la Parola di Dio, dobbiamo renderci conto che l’azione non è nostra: anche se siamo noi ad aprire il libro o ad andare là dove si legge, è Dio che ci viene incontro.
È questo in fondo uno dei grandi recuperi e sottolineature fatti dalla Costituzione sulla sacra Liturgia “Sacrosanctum Concilium” del Vaticano II: “Per realizzare un’opera così grande, Cristo è presente nella sua parola, giacché è lui che parla quando nella Chiesa si legge la sacra Scrittura”. Nella Costituzione dogmatica sulla divina rivelazione arriva poi a dire che “la Chiesa ha sempre venerato le divine scritture come ha fatto per il corpo stesso del Signore, non mancando mai, soprattutto nella sacra liturgia, di nutrirsi del pane di vita dalla mensa sia della Parola di Dio che del Corpo di Cristo” (n. 21).
Le conseguenze di quanto sopra abbiamo detto sono evidenti. Per una “vera” celebrazione sono indispensabili la familiarità con la parola di Dio e l’attitudine all’ascolto. L’ascolto è la sola giustificazione dell’azione liturgica, che proclama la Parola e attesta la presenta di Colui che parla.
Ma l’ascolto, oltre che diventare risposta vissuta, ha una seconda caratteristica: è un ascolto nella Chiesa. Ci sono cioè parole di Dio che nessuna persona è in grado di compiere, nessun credente può incarnare nell’azione, se non si unisce agli altri e se non sceglie di attuarle insieme.
Il mondo non può far risplendere l’immagine divina, se questa è iscritta solo nel segreto dei cuori. Mosè fu chiamato da solo nel deserto dell’Horeb, ma Dio non concluse l’alleanza solo con lui, neppure quando egli rappresentava tutto Israele. Questa alleanza fu convalidata da Dio soltanto quando il popolo intero disse: “Quanto il Signore ha ordinato, noi lo faremo e lo ascolteremo!” (Es 24,7), anche se essa era già stata conclusa con Abramo: perché Abramo era uno e Israele era popolo.
Assiduità dunque con la Parola che in fondo è assiduità con il Signore: e questo significa conoscerlo con una conoscenza d’amore.
“Ricordare” la vocazione
La celebrazione è “memoriale” del Cristo che si è offerto al Padre per gli uomini: essa mette dinanzi agli occhi della Chiesa la perenne fedeltà di Dio in Cristo, la sua “Ora” per la quale è venuto e vissuto. Dentro questa fedeltà la liturgia “ricorda” la nostra chiamata, la nostra ora quando Dio è passato e ci ha segnato con il dono del suo amore filiale.
Ci sono “memoriali” da valorizzare nella vita personale e comunitaria: la data del Battesimo, della Confermazione, della Prima Eucaristia, dell’Ordinazione, del Matrimonio. E anche dovesse venire il tempo della crisi, della difficoltà, Dio resta fedele.
Concludo con un detto dei padri del deserto molto significativo, che bene può riassumere la vocazione come grazia e fedeltà: “Chiese un discepolo ad Abba Pambo: Abba, quando Dio ti ha chiamato? Numerose, innumerevoli le chiamate del Signore: Dio mi ha chiamato per nome quando mi ha creato, mi ha chiamato col nome di suo Figlio quando mi ha battezzato, mi ha chiamato ancora quando mi ha spinto nel deserto, e da allora ogni mattino mi richiama con un nome che io non riesco ancora a comprendere. Ma è scritto su una pietruzza bianca e quando mi chiamerà con la morte lo riconoscerò”.