Animatori di una cultura vocazionale
L’animatore non esiste senza rapporto esplicito con la cultura
Una delle tre attività formative che caratterizza l’animazione, per non ridurla come purtroppo spesso si fa a pura tecnica di vivacizzazione, è l’inculturazione o immersione attiva nella cultura dell’ambiente. Il mondo, la realtà in se stessa ci precedono, noi li incontriamo e diventano significativi per noi solo se sappiamo rappresentarceli, se con delle immagini li rendiamo vivi per noi. Il fiume scorre sempre con la ricchezza delle sue acque ancor prima e indipendentemente dalla nostra coscienza di esso; ma solo quando con un contenitore riusciamo a fermare un po’ di acqua e la portiamo a noi quel fiume esiste per noi. Così è di ogni realtà, del mondo, della vita, degli stessi fatti: essi esistono per noi solo se ne sappiamo fare una rappresentazione, un’immagine, un simbolo. La cultura è l’insieme di queste rappresentazioni che ci permettono di vivere e di venire a contatto col mondo. Se sono sempre gli altri a fornirci queste immagini, questa cultura, noi non saremo mai i soggetti responsabili e liberi della nostra esistenza. Il mondo dei mass media cerca di fornire a tutti le sue immagini e con queste ha in mano il rapporto delle persone con la realtà. Una vera educazione deve aiutare un giovane a farsi le sue rappresentazioni della realtà, a essere soggetto vivo di questa sorta di trasformazione del mondo. Cultura quindi non è sinonimo di cultura colta, di poesie, di definizioni scientifiche ma di capacità del soggetto di rappresentarsi la realtà, nel nostro caso di inscrivere con immagini nuove originali la vita di fede nella realtà di oggi.
L’animatore allora oltre che a essere un buon educatore, un buon socializzatore deve essere anche in grado di far crescere la capacità creativa del rapporto dell’uomo con tutta la realtà, di inventare nuovi modelli culturali, di innervare quelli presenti sul territorio. La realtà della vocazione cristiana e della vocazione di speciale consacrazione hanno allora bisogno per essere percepiti e realizzati di inscriversi dentro tutta la cultura, i modi di pensare, di intervenire, di comportarsi. C’è un mondo vitale, che ogni persona abita quotidianamente, in cui deve potersi collocare la concezione della vita come vocazione, in cui sia spontaneo pensare, esprimersi, rappresentarsi la vita come una risposta alla chiamata di Dio. Non può tutto questo essere lasciato solo ai momenti di preghiera, agli incontri di gruppo, a dialogo fra iniziati, ma deve essere dicibile nei rapporti quotidiani. Questo significa fare cultura vocazionale.
Le indicazioni di “Evangelizzazione e testimonianza della carità”
Il documento della Chiesa italiana “Evangelizzazione e testimonianza della carità”, che ha dato una svolta alla progettualità nella pastorale giovanile, dice che non si può dare educazione alla fede dei giovani senza una costitutiva risonanza vocazionale. Vale a dire che ogni atto di pastorale giovanile deve essere innervato di cultura vocazionale. Ciò significa che si deve sempre condurre una pastorale giovanile vocazionale, cioè in grado di porre il cammino di fede del giovane sempre nella prospettiva della risposta a una chiamata di Dio. In questa prospettiva assume importanza decisiva la presenza delle vocazioni di speciale consacrazione, sia nella attività, sia come orizzonte di vita proprio per far crescere ogni vocazione nel massimo di fedeltà a Dio e al compito dell’evangelizzazione del mondo.
Gli operatori di questa nuova pastorale non potranno allora “chiamarsi fuori” dall’impegno di far crescere una nuova cultura, di comporre in unità di proposta le scelte di vita, di tenere aperto al massimo lo spettro delle vocazioni che viene offerto all’adolescente nella sua crescita e nella sua impostazione di vita. Saranno sempre necessari degli animatori vocazionali specifici, che si qualificheranno maggiormente nell’arte dell’accompagnamento vocazionale e nel discernimento, ma sempre contando sulla presenza capillare di animatori di pastorale giovanile non solo vagamente sensibili al problema vocazionale, ma direttamente impegnati a far crescere la coscienza e a creare atteggiamenti che aiutino i giovani a rispondere al progetto di Dio in maniera personale e secondo una precisa prospettiva ecclesiale di vita.
Gli interventi dell’animatore per questo servizio specifico
Se la proposta vocazionale fa parte trasversalmente di ogni intervento educativo e diventa una dimensione normale della pastorale giovanile, è pur necessario che ci siano momenti specifici di proposta e di sensibilizzazione al problema.
Il linguaggio e le immagini
Il primo elemento che l’animatore deve riuscire a riesprimere in termini significativi è il modo stesso di proporre le vocazioni. Nell’immaginario dell’adolescente che vive in questi tempi un panico da manipolazione nei confronti dei mass media e di tutti quelli che gli vogliono insegnare a vivere, la parola vocazione è vista sempre e soltanto in termini strumentali o alla organizzazione o alla “sopravvivenza” di qualcosa che ha poco a che fare con la sua voglia di vivere e col suo rapporto con il Vangelo. I preti sono pochi e allora fanno la proposta a me, le suore stanno estinguendosi e quindi io devo fermare l’estinzione di questa congregazione. Il matrimonio è sempre un fallimento, allora occorre qualcuno che lo aggancia alla vita cristiana per salvarlo. Il mondo si riempie di religioni strane e poco pacifiche, allora fanno a me la proposta di diventare missionario. Questi o altri ragionamenti simili riducono nella mente delle persone le scelte della vita a pura strumentalità. Occorre allora trovare parole nuove per dire povertà, castità, obbedienza, matrimonio, missione. Non si tratta di nascondere la difficoltà o l’impopolarità di alcuni termini per ingannare la fantasia o per manipolare meglio le coscienze, ma di esprimere nella cultura della loro vita la ricchezza che la vocazione si porta dentro. È interessante per esempio la vicenda che la parola castità ha seguito in questi anni. Oggi è stata riscoperta a livello di opinione pubblica solo come difesa dall’AIDS. Non poteva essere invece riproposta in termini più positivi come la vera arte dell’amore, la vera attitudine a fare della propria vita un dono, l’offerta di una corporeità e di una interiorità al servizio di un amore globale, pieno e definitivo? La stessa sorte tocca alla povertà in un mondo alienato dall’avere e all’obbedienza in una cultura che fa della autorealizzazione, scavata anche a danno degli altri, in completa solitudine e autarchia, un circuito chiuso e senza sbocco nella ricerca della propria identità.
È una questione culturale, di modi di pensare, di sensazioni del proprio mondo, di comportamenti ideologici che occorre approfondire. L’animatore deve saper aiutare i giovani a transcodificare, cioè a ridire nel proprio vissuto, sulla piazza o sulle scalinate dei suoi circuiti di amicizia, il senso di ogni vocazione perché diventi un confronto, uno stimolo a convincersi ancora più radicalmente della bontà della scelta della sua vita. Nessun cristiano è un generico nella vita, ma sempre uno che risponde a una chiamata. Chi si sposa non lo fa perché qualche istinto insopprimibile lo condiziona, ma perché risponde a Dio in un progetto di vita. Oggi forse siamo più facilitati anche a cogliere il matrimonio come vocazione, proprio perché l’esasperazione della libertà sessuale ha fatto capire che per sposarsi occorre essere chiamati a donarsi completamente. Diventa ancor più chiaro come vocazione se questo essere chiamati riporta l’uomo al dialogo con un Dio persona.
Le modalità di proposta
La proposta vocazionale è spesso debole nei nostri modelli educativi perché si danno per scontate le figure che le incarnano. Per esempio crediamo che il prete sia ben definito nella vita dei giovani, che sia colto per quello che è nella vita della Chiesa e nella prospettiva evangelica. Da dove potrebbero arguire la vera collocazione del presbitero nella vita cristiana? Da quello che fa? Moltissime volte i preti fanno opera di supplenza. Da quello che contano nella loro vita? Spesso un adolescente si confida al prete, perché è stato abbandonato da tutti, genitori compresi. Dal ruolo educativo che essi svolgono? Molti ragazzi incontrano il prete solo all’ora di religione. È forse questo il ruolo che lo definisce meglio nella Chiesa? Si potrebbe continuare. Lo stesso si può dire della religiosa o della persona consacrata a Dio o in un convento o nella vita attiva. Spesso le suore sono collocate in un immaginario debitore più a esperienze deformanti che a modelli corretti ecclesiali. Il discorso diventa ancora più complicato se facciamo riferimento ai mass media dove queste figure ecclesiali vengono presentate sempre in termini strumentali o caricaturali o negativi. Lo stesso si può dire del missionario, della realtà del matrimonio. Ne nasce una conclusione: se è vero che non c’è conoscenza di queste realtà o per lo meno una conoscenza interpellante occorre aiutare i giovani a esperimentare questi doni di Dio. In una vita di gruppo lo strumento più adatto sono le unità didattiche, cioè sono quegli interventi progettuali fatti di obiettivi, di contenuti, di esperienze, di atteggiamenti che permettono di collocare all’interno di un percorso educativo e di fede tutte le vocazioni della chiesa. Ne guadagna la stessa vita di fede dei giovani che imparano a mettersi in dialogo con queste figure in maniera corretta e nello stesso tempo di fronte a una conoscenza concreta la vita di ciascuno si può sentire interpellata e le scelte possono di conseguenza essere fatte ispirati da modelli veri.
I testimoni
La cultura vocazionale si concretizza non solo attraverso idee, ma anche nel confronto con testimoni. I modi di rappresentare la realtà più significativi e influenti sono le stesse vite di persone che colorano di sé il mondo. Sappiamo quanto sia chiarificante per la ricerca della propria identità il confrontarsi con chi si sogna di essere o con chi ha definito con chiarezza a sé e agli altri chi essere. Solo che spesso i testimoni sono presentati nella carrellata classica delle giornate vocazionali. Il primo elemento di chiarezza al riguardo è che l’educazione alla fede sia sempre fatta da tutte le componenti della vita cristiana e quindi da tutte le vocazioni. La “carrellata” di testimoni deve avvenire nella quotidianità degli interventi educativi. L’animatore infatti non è più pensabile come l’esperto e unico responsabile della riunione di gruppo, ma come colui che fa convergere in sistema tutte le potenzialità educative sui giovani, colui che sa vincere quel deleterio sequestro biologico sui giovani, quasi che sia solo lui a educarli e permetta agli altri solo qualche comparsa, per far convergere tutta la comunità con i suoi molteplici volti nel progetto educativo. Ancora una volta è una nuova cultura formativa che l’animatore deve acquisire, in cui le diverse vocazioni hanno il loro posto.