Meditazione culturale e pastorale vocazionale
“Nell’epoca del secolarismo la mediazione culturale cristiana è possibile oppure la rottura è tanto radicale che ogni mediazione è destinata all’insuccesso? La domanda diventa più incalzante quando si riflette che la nostra epoca di ‘crisi della ragione’ che apre la porta a una forte ventata di irrazionalismo è un ‘epoca che rifugge dalla ‘fatica del pensare’ e, soprattutto, è un’epoca in cui il non senso e il nichilismo hanno diritto di cittadinanza e trovano larga udienza. Ora se la mediazione culturale cristiana fa ricorso alla ragione e alla ricerca di senso è possibile, in un’epoca di irrazionalismo e di nichilismo?”[1]
Abbiamo iniziato con una lunga citazione ed un profondo interrogativo. E, proprio dalla capacità di porsi interrogativi, mi pare si debba partire per affrontare questo nodo.
La fatica del pensare
Tacciamo spesso i giovani di fiacchezza, di appiattimento, di ottundimento della dimensione ideale dell’esistenza, ma – chiediamoci – come il nostro mondo ecclesiale li provoca? Quali strumenti fornisce loro perché entrino nella profondità del loro vissuto e ne assumano in pienezza tutte le dimensioni?
Spesso giochiamo anche noi al ribasso, mercificando in piccoli progetti spirituali o riducendo a caldi gruppi securizzanti l’inarrivabile novità della Parola evangelica.
In una interessante relazione tenuta ad un convegno della FUCI una decina di anni fa, A. Monticone ebbe a dire: “Il metodo critico è, a mio giudizio, fondamento per le scelte del cristiano. Quali sono le caratteristiche del metodo critico? La ricerca libera, instancabile, generosa… È una scelta che va direttamente dentro le cose, la cultura, la vita”[2].
Riprendo questa sottolineatura e questa proposta. Mi pare oggi ancora più urgente. La nostra cultura, infatti, si è andata facendo sempre più superficiale passando dall’essere, all’avere, all’apparire. Se la pastorale vocazionale vuole farsi compagnia dei e per i ragazzi e i giovani, deve porsi in questa logica dinamica e provocatoria. Deve avere il senso della storia, della sua complessità e conflittualità, facendosi carico di quanto essa sta trascinando sulle rive della nostra cultura: frammenti di desideri che attendono compiutezza. In altri termini: bisogna stimolare la ricerca. “Credo che nessuno di noi voglia vivere la propria esistenza e vicenda senza rendersene conto; vivere senza sapersi vivo… Chi non ricerca non vive, anche se crede di vivere”[3].
Aiutare i giovani a maturare questa consapevolezza è indirizzarli sulla via di un’autocoscienza radicale del proprio essere persone con una struttura umana profondamente rinnovata dal dono della fede. Ciò significa, per la pastorale in genere e per la pastorale vocazionale a fortiori, privilegiare la via della formazione della coscienza. Formazione ampia, aperta, dialogica; formazione che dia piste di lancio per confrontarsi con situazioni sempre nuove, spesso conflittuali e pluralistiche, e che rifiuti perciò la sicurezza dei prontuari di comportamento.
Nella logica dell’Incarnazione
Queste affermazioni mi pare trovino il loro humus teologico nella positività che l’incarnazione ha scritto dentro la vicenda umana. Facendosi “mediazione e mediatore” Cristo ha avvicinato quei due poli così estremi che sono Dio e l’uomo, li ha resi dialoganti nella sua stessa persona. Così il Dio-Uomo si è consegnato alla nostra storia e l’incarnazione, come fatto permanente, diventa la via proposta ai cristiani: via di mediazione.
Se, dunque, la Parola si è consegnata alle parole è necessario costruire un nuovo vocabolario per ridire Cristo oggi, tenendo conto di quel Nome che il Padre ci ha rivelato, ma anche di quell’orizzonte di attese in cui deve essere pronunciato. Solo parlando di Cristo con parole di oggi potremo stimolare i giovani a seguirlo sine glossa.
Se vogliamo mutuare un itinerario pedagogico da queste affermazioni potremmo rifarci a quanto Paolo VI scrisse del dialogo, cioè quella fisionomia che assume la mediazione culturale cristiana vissuta da ogni persona e dalla comunità tutta. Scrive al n. 5 dell’Ecclesiam suam: “Il dialogo di salvezza fu aperto spontaneamente dall’azione divina… partì dalla carità… non si commisurò ai meriti di coloro a cui era rivolto… non obbligò fisicamente nessuno… fu una formidabile domanda d’amore”.
Questi appaiono i tratti per una formazione della coscienza atta a suscitare vocazioni per la chiesa di oggi. Vocazioni che sappiano cioè:
– prendere l’iniziativa, perché sono state abilitate a guardare in avanti, a guardare su ampi orizzonti;
– agire con tenerezza, perché è il movimento stesso che ha spinto Dio a chinarsi su di noi;
– stimolare la libertà, proponendo una fede non dogmatica e calata dall’alto, ma vitalmente compromessa con la nostra fragilità e tuttavia forte della forza dello Spirito che, solo, sa guidare alla verità tutta intera.
Per un nuovo volte della Chiesa
In questo cammino di educazione della coscienza verso l’acquisizione di una capacità di mediazione i giovani non devono essere oggetto, ma soggetti di questo dialogo. Cioè non si deve dir loro che dovranno prendere l’iniziativa, agire con tenerezza, stimolare la libertà di quanti incontreranno… ma, fin dall’inizio, offrire loro questa stessa esperienza, viverla con loro, quotidianamente e ferialmente. Forse a livello di utopia direi che un tale processo formativo deve sapersi dare obiettivi intermedi, ma dovrebbe portare tutta la comunità ad assumersi la responsabilità di suscitare ed educare nel proprio seno nuove vocazioni totalmente consacrate alla nuova evangelizzazione, capaci di dialogo interculturale.
Per questo insisterei sulla necessità di sostenere la “fatica di pensare” con una diffusa, capillare formazione teologica (e non sembri parola troppo alta, si tratta di favorire il pensare cristiano in modo critico, consapevole, maturo) non per riempire i quadri di una sguarnita classe di insegnanti di religione o di catechisti, ma perché il maggior numero possibile di credenti possa dare a se stesso e al mondo ragione della propria speranza. Così la crescita di “qualità” costituirà un prerequisito fecondo perché lo Spirito possa esprimersi nella varietà dei carismi.
La comunità dei credenti assumerà sempre più la dinamica del discernimento comunitario come via imprescindibile per orientare le proprie scelte secondo il progetto di Dio, e in questo habitat renderà possibile la formazione di autentiche vocazioni che sappiano mettere in relazione il presente con la memoria e, come Mosè, picchiare la roccia solida del passato per farne sgorgare fiumi di futuro.
Note
[1] La Civiltà Cattolica, Q. 3160, 20 febbraio 1982, pp. 259-260.
[2] A. MONTICONE, Coscienza laicale e scelta religiosa oggi, in: G. TONINI, La mediazione culturale, AVE 1985, pp. 265-266.
[3] A. MONTICONE, 1.c. p. 266.