Per una “cultura vocazionale”
Quando si affronta il tema “vocazione” e “vocazioni” è inevitabile gettare uno sguardo sul contesto sociale e culturale in cui le vocazioni si sviluppano. La vocazione del cristiano – il nucleo più misterioso e più personale dell’uomo, ove solo la grazia ha il suo libero accesso e la parola definitiva – nel suo sbocciare e nella sua maturazione deve, infatti, inevitabilmente fare i conti con le dinamiche culturali entro le quali si manifesta.
Ogni educatore è oggi più che mai consapevole di tutto questo. E, considerati i notevoli riflessi che la cultura contemporanea – con i suoi presupposti relativistici e immanentistici che largamente la condizionano – ha oggi sul naturale sviluppo della vocazione cristiana, in particolare sulla maturazione delle vocazioni di speciale consacrazione tra le giovani generazioni, non è difficile imbattersi in educatori che, oltre avvertire la naturale fatica della “semina” e della “pesca” di evangelica memoria, trovano anche qualche difficoltà ad orientarsi.
Il presente numero di ‘Vocazioni’ – mentre si propone di offrire agli educatori alla fede, naturali educatori vocazionali, alcuni strumenti di lettura della cultura contemporanea e alcune indicazioni di mediazione culturale per la proposta vocazionale nella comunità cristiana – intende dar voce e approfondire l’invito rivolto dal S. Padre nel suo ultimo Messaggio per la Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni: “È necessario promuovere una cultura vocazionale”.
Il S. Padre specifica così la sua proposta: “Si tratta di una cultura che permetta all’uomo moderno di ritrovare se stesso, riappropriandosi dei valori superiori d’amore, d’amicizia, di preghiera e di contemplazione”.
Il S. Padre elenca anche e chiama per nome quegli “atteggiamenti vocazionali di fondo, i quali danno vita ad un’autentica cultura vocazionale: la formazione delle coscienze, la sensibilità ai valori spirituali e morali, la promozione e la difesa degli ideali della fratellanza umana, della sacralità della vita, della solidarietà sociale”.
In queste pagine che introducono alla lettura del presente numero di Vocazioni – tematizzato sul rapporto “Vocazione, cultura e vocazioni” mi permetto offrire qualche riflessione su tali “atteggiamenti vocazionali” ricordati dal S. Padre.
La formazione delle coscienze
“La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo dove egli si trova solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità propria”[1].
Questa definizione di “coscienza” che ci offre il Vaticano II, ci conduce subito a pensare come Dio e Dio solo è l’unico e permanente educatore della coscienza dell’uomo.
“Nell’intimo della coscienza – afferma ancora la Gaudium et Spes – l’uomo scopre una legge che non è lui a darsi, ma alla quale invece deve obbedire… L’uomo ha in realtà una legge scritta da Dio dentro il suo cuore; obbedire è la dignità stessa dell’uomo”.
Formare le coscienze significa dunque educare ad obbedire solo ed essenzialmente a tale legge, che è la voce dello Spirito: “la coscienza morale del cristiano, vive dunque e si educa attraverso l’ascolto della voce dello Spirito, che parla nel suo intimo, e nello stesso tempo attraverso l’ascolto della voce del medesimo Spirito, che parla nella Chiesa”[2].
Formare le coscienze significa dunque educare l’uomo, in particolare le giovani generazioni raggiunte nell’intelligenza e nel cuore da numerosi e diversificati messaggi culturali, ad entrare in se stesso, imparare a fare silenzio, e a restare solo, perché Dio e la persona s’incontrino e dialoghino: “È infatti grazie alla coscienza che l’uomo ‘entra in se stesso’, scendendo in quel ‘luogo interiore’ che la Bibbia chiama ‘cuore’. E per entrare in sé l’uomo deve avere il coraggio di restare solo… La coscienza si dà proprio quando l’uomo ‘si trova solo’: perché questa solitudine crea la possibilità di un ascolto e si riempie della presenza di Dio, che parla al cuore di ciascuno. Per questo il Concilio definisce la coscienza un ‘sacrario’. quasi un tempio spirituale nel quale s’incontrano e dialogano Dio e l’uomo”[3].
Formare le coscienze, quindi educare ai grandi valori morali e antropologici che scaturiscono dalla fede cristiana – “il primato e la centralità della persona, il carattere sacro e inviolabile della vita umana in ogni istante della sua esistenza, il ruolo e la stabilità della famiglia fondata sul matrimonio, la libertà e i diritti inviolabili degli uomini e dei popoli, la solidarietà e la giustizia sociale a livello mondiale”[4]– significa educare le giovani generazioni a vivere tali valori con coerenza anzitutto nella propria coscienza e nel comportamento personale, secondo l’ambito delle proprie responsabilità e della propria condizione di vita.
La formazione delle coscienze, compito specifico e insostituibile degli educatori alla fede, è quindi un servizio educativo prezioso in vista di un’autentica cultura vocazionale, perché aiuta soprattutto le giovani generazioni a scoprire il proprio valore e a metterlo a frutto per il bene di tutti: “io chiedo a tutti coloro che si occupano di educazione di aiutare in nome di Dio i giovani a scoprire il proprio valore, a scoprire anzitutto la bellezza di essere se stessi, di avere il gusto della propria identità: chiedo che anzitutto si rispetti, si riscopra, come ha fatto Gesù, la perla preziosa, quella profonda dignità che è nel cuore di ciascuno, che non si offusca mai, che non viene mai meno”[5].
La sensibilità ai valori spirituali e morali
Il sistema culturale in cui viviamo se da un lato presenta precisi valori spirituali e morali dall’altro propone valori ambigui e pseudovalori.
Se la nostalgia per una nuova qualità della vita – che fa riferimento ai cosiddetti “nuovi valori” – sembra contrassegnare fortemente i nostri tempi, non possiamo non riconoscere come in realtà questi nuovi valori trovano difficoltà ad affermarsi e a crescere.
“Accanto al rispetto della vita in tutta la sua parabola umana c’è la disinvolta cultura della morte. Accanto al bisogno di un lavoro, quale diritto umano irrinunciabile, sembra nascere la logica del profitto, escludente ed impietoso, delle leggi economiche. Accanto al crescere di una nuova coscienza ecologica, giustamente allarmata, sembra affermarsi un modello di vita capace di cedere sui fronti delle sue presunte conquiste. Accanto alla crescente profezia della pace s’innesta il virus nascosto o palese della violenza, che sembra umiliare ogni pedagogia di pace. I nuovi valori, il più delle volte, sembrano dunque dei germi che pre-annunciano una stagione nuova, ma spuntano con fatica nel sottobosco di una cultura avversa”[6].
I “nuovi valori” si trovano dunque, soprattutto nell’esperienza quotidiana delle giovani generazioni, tra affermazione e negazione. Il superamento di questa situazione sta nel salto di qualità, richiesto a tutti i livelli dell’impegno educativo, uscendo anzitutto da una falsa neutralità che da qualche anno sta strisciando nel sistema educativo dell’occidente “quasi che l’insegnare non comporti opzioni di valori… Non siamo forse colpevoli del passaggio dall’idea di libertà alla tolleranza, dalla tolleranza al permissivismo, e quindi colpevoli dell’incapacità pratica di educare?[7].
Oggi più che mai tocca agli educatori illuminare e proporre contenuti precisi, perché ideali e valori presenti in modo germinale nella cultura contemporanea – quali l’ideale la sacralità della vita, della solidarietà e fratellanza umana – prendano reale consistenza nel mondo contraddittorio della coscienza giovanile e vengano a nutrire l’humus di un’autentica cultura vocazionale.
Lungo la storia il magistero della chiesa ha sempre tenuto alto e fermo l’ideale della sacralità della vita. Giovanni Paolo II, in un tempo in cui la vita umana ha subito attacchi indiscriminati da ogni parte, con spirito profetico e senza sosta si è battuto perché la vita umana fosse rispettata, difesa e promossa in tutte le sue fasi e in ogni sua condizione. “La vita è sacra e dono di Dio”.
Potremmo riassumere in queste espressioni l’instancabile Messaggio di Giovanni Paolo II, così articolato: il diritto alla vita, il diritto quindi di trasmetterla e il dovere di proteggerla; la preziosità e il rispetto della vita; la responsabilità nei confronti della vita e per la qualità della vita ecc.
Anche gli orientamenti pastorali dell’Episcopato italiano per gli anni ‘90 “Evangelizzazione e Testimonianza della Carità” puntualizzano che “la tutela e la promozione del diritto di ciascuno a vivere, dal concepimento al termine dell’esistenza terrena, e in condizioni di reale dignità personale e sociale, è un valore irrinunciabile”[8].
Le giovani generazioni da parte loro sono molto sensibili al dono della vita fisica e manifestano una certa disponibilità verso il prossimo. È opportuno però educare le giovani generazioni ad aprirsi a una visione globale e armonica della vita, tenendo conto dei diversi livelli del vivere e dei loro rapporti: “c’è anzitutto la vita biologica, il fatto cioè, di possedere un corpo; … su questo supporto c’è poi la vita psichica, la vita di chi si apre alla relazione con le cose e le persone; … questa vita è alla base della vita relazionale vera e propria, di chi entra in contatto con le persone mediante il linguaggio, l’affetto, il dono di sé, l’amore; … come quarto e supremo livello c’è la vita divina, il partecipare al vivere stesso di Dio, che ci viene dall’alto e corona il dono originario della creazione, corona tutti i livelli precedenti”[9].
Aprire e coltivare nei giovani quest’atteggiamento vocazionale di fondo – della sacralità della vita, per cui “la vita è dono totalmente gratuito e non esiste altro modo per vivere degno dell’uomo, al di fuori della prospettiva del dono di sé”[10] – significa gettare le fondamenta di un autentica cultura vocazionale: “questa cultura della vocazione è alla base della cultura della vita nuova, che è vita di gratitudine e di gratuità, di fiducia e di responsabilità; in radice, essa è cultura del desiderio di Dio, che dà la forza di apprezzare l’uomo per se stesso, e di rivendicarne incessantemente la dignità di fronte a tutto ciò che può opprimerlo nel corpo e nello spirito”[11].
Lo stesso ideale di solidarietà e di fratellanza umana presente nelle giovani generazioni, rappresenta un valore fondamentale per la fondazione di una cultura vocazionale, soprattutto se purificato da alcune ambiguità considerato che il diffuso ideale di solidarietà e fratellanza umana può confondersi con un vago sentimentalismo o con qualche buona opera che tranquillizzi la coscienza.
“La solidarietà non è un sentimento di vaga compassione o di superficiale interenimento per i mali di tante persone, vicine o lontane. Al contrario è determinazione ferma e perseverante d’impegnarsi per il bene di tutti e di ciascuno, perché tutti siamo veramente responsabili di tutti… La solidarietà ci aiuta a vedere l’altro -persone, popolo o nazione – non come uno strumento qualsiasi… Sono così esclusi lo sfruttamento, l’oppressione, l’annientamento degli altri… La solidarietà è indubbiamente una virtù cristiana… Alla luce della fede, la solidarietà tende a superare se stessa, a rivestire le dimensioni specificamente cristiane della gratuità totale, del perdono e della riconciliazione”[12].
A ben pensare solidarietà è il “farsi prossimo” evangelico, come traduzione pratica del senso di appartenenza ad un’unica comunità civile, superando ogni forma d’individualismo e di privatizzazione della coscienza. Coltivare tali ideali o “atteggiamenti vocazionali” di fondo – come li chiama Giovanni Paolo II – significa partecipare a costruire una “cultura dello spirito”, della cui necessità è segno inalienabile la stessa inquietudine e ricerca giovanile.
Tale “cultura dello spirito” giunge a pienezza nella misura in cui si educano “i giovani a un’interiorità autentica e matura, alimentata dalla familiarità con Dio nella preghiera personale, dallo spirito di sacrificio e da una rigorosa formazione intellettuale, alla luce di principi dottrinali e morali della fede”[13].
In definitiva una cultura che sia davvero una “cultura vocazionale”, ovvero una cultura che porti a pienezza la maturazione della vita umana, deve condurre l’uomo stesso a scoprire che solo Cristo può dirgli la verità sulla sua vita: “è necessario, pertanto promuovere una cultura vocazionale che sappia riconoscere ed accogliere quell’aspirazione profonda dell’uomo che lo porti a scoprire che Cristo, il quale è penetrato in modo unico e irripetibile nel mistero dell’uomo (Redemptor hominis, 8), svela pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione (Gaudium et Spes, 22)”[14].
Note
[1] Gaudium et Spes, 16.
[2] CEI, Comunione, comunità e disciplina ecclesiale, n. 43.
[3] CEI, idem, n. 40.
[4] CEI, Evangelizzazione e testimonianza della carità, n. 41.
[5] C.M. Martini, Non temiamo la storia, Centro Ambrosiano – Edizioni Piemme, 1992, p. 169-170.
[6] E. Masseroni, Giovani e chiesa tra presente e futuro, Lettera pastorale, Mondovì 1989, p. 46.
[7] C.M. Martini, Non temiamo la storia, Centro Ambrosiano – Edizioni Piemme, 1992, p. 152-155.
[8] CEI, Evangelizzazione e testimonianza della carità, n. 45.
[9] C.M. Martini, idem, p. 62-63.
[10] Giovanni Paolo II, Messaggio per la XXX Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni, 2 Maggio 1993.
[11] Giovanni Paolo II, idem.
[12] Giovanni Paolo II, Sollecitudo Rei Socialis, n. 38, 39, 40.
[13] CEI, Evangelizzazione e Testimonianza della Carità, n. 46.
[14] Giovanni Paolo II, Messaggio per la XXX Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni, 2 Maggio 1993.