La significatività dei consacrati nella vita della comunità cristiana
Durante il corso di ecclesiologia ho domandato ad una catechista quale aspetto della Chiesa ritenesse più importante. Ha risposto: “Mi piace questa Chiesa che sta vicina alla gente e si fa carico dei problemi umani”.
Il Vaticano II ha proposto proprio questa ecclesiologia: ha considerato la Chiesa sacramento della nuova umanità; ha inaugurato pertanto un rapporto originale, più evangelico, con il mondo, conseguentemente nella evangelizzazione ha scelto la via dell’uomo. In quest’orizzonte si colloca la vita consacrata e la sua profezia. Su questa scia si pone il Sinodo ‘94 del quale, nel proporre alcune considerazioni, vorrei indicare qualche prospettiva. Mi soffermo su tre ambiti dai quali, forse, può emergere in modo più eloquente la significatività della vita consacrata intesa anche come compito: un modo evangelico di essere nella storia, un cammino di identità in Cristo, una nuova opportunità di annuncio del Vangelo.
Quale profezia?
I consacrati dovrebbero essere profeti nella storia interpretandola dal punto di vista di Dio. Siamo in tempo di transizione culturale; si parla di crisi e in qualche modo la si intende con tinte apocalittiche come crollo, disastro, desolazione. È una prospettiva atea, tipica della gente senza speranza. Solo gli increduli pensano che il destino umano affonda nel non senso, i credenti sono consapevoli che Dio è presente nella storia, opera, fa cose nuove, “la sua destra non si è accorciata”: Egli è l’Altissimo, il Trascendente e il Vicinissimo, il Dio di tenerezza e di misericordia.
Il nostro ottimismo è teologico, non è stupidità o ignoranza dei problemi. Ha la sua sorgente in Gesù il quale ci avverte che quando vedremo terremoti, pestilenze, guerre, fame, persino l’anticristo, non è la fine perché la fine non è il disastro ma il trionfo dell’amore che salva. “Quando tali cose cominceranno a venire alzatevi e levate la testa perché la vostra liberazione è vicina” (Lc 21,5- 28). Oggi, ci è offerta una nuova possibilità di esprimere il Vangelo. Il termine crisi non significa morte, ma piuttosto problema/possibilità, cioè una situazione problematica ove emergono nuove opportunità di evangelizzazione e sono seminati germi nuovi di vita. Nella storia, nonostante i nostri fallimenti e il nostro peccato, Dio è presente e operante, ci spinge a vivere con fiducia, con speranza certa, con carità operosa. I consacrati nella sequela radicale di Gesù devono annunciare il Dio di Gesù che è sempre all’opera per la salvezza, è sempre accanto all’uomo proprio nella fragilità e drammaticità della storia. Portano tale annuncio con la logica di Dio, ossia attraverso la propria vita, facendosi spazio di rivelazione dell’agape divina perché essa è la sorgente dell’amore che fa nascere e fa rinascere. Un segno leggibile di questo modo di essere nella storia è la gioia, la quale apre la persona all’accoglienza, all’attesa, alla novità. Il cristiano non si spaventa della debolezza perché guarda la vita nel profondo non nella parata, nella facciata e vede che tutto è provvidenza. La tristezza è madre della tiepidezza, fa vedere tutto in modo catastrofico, logora le energie dello spirito paralizzandole. Fa arrestare alla protesta senza proposta. La gioia invece illumina la vita e rende il cuore sensibile a tutti i germi di vita, non pone alcun divieto di accesso, ma accoglie tutti facendosi prossimo a ogni bisognoso.
Quale identità?
La gioia introduce la riflessione sulla identità in Gesù Cristo, in quanto richiama la logica delle beatitudini che vivificano quotidianamente l’esistenza del consacrato. Il cammino nell’identità in Gesù si traduce in profezia dell’antropologia teologale, solidale e diaconale, ossia proclama che la persona umana affonda le sue radici in Dio, è fatta per la comunione e per il servizio. Dice tutto questo non in astratto, ma nel concreto tessuto della vita, non in modo neutro, ma al maschile e al femminile.
Essere uomini e donne secondo il Vangelo in una progressiva maturazione nella propria identità, incoraggiando i fratelli e le sorelle al cammino in una società che presenta lacerazioni, problemi, ambiguità, ma che appella un nuovo corso della storia, anela a una nuova civiltà, significa aprire la via dell’accoglienza della persona umana nella sua integralità aiutandola a crescere come soggetto solidale. È testimoniare la chiamata universale alla comunione. Il Creatore è uno nella comunione, non è solitudine/isolamento. Ha fatto l’uomo a sua immagine riproducendo in lui l’unità feconda dell’amore. L’ha creato maschio e femmina, capace cioè di amare testimoniando così l’antropologia uniduale. I consacrati oggi sono chiamati a essere profezia insieme in quanto uomini e donne in una reciprocità autentica che non accetta omologazioni e dipendenze, né antagonismi arrivistici e separatezze indifferenti.
Nella post-modernità è messo sotto giudizio il rapporto strumentalizzante e prepotente con la natura e si fa sempre più strada la prospettiva dell’ecologia. I consacrati sono chiamati a testimoniare un corretto rapporto con il mondo, con l’intera creazione accogliendo e prolungando una profezia evangelica che percorre la storia e che oggi risulta particolarmente leggibile. Un esempio eloquente è la vita di S. Francesco; in questa linea vanno pure molte attività che i consacrati svolgono contribuendo a costruire una nuova civiltà. I consacrati attraverso i consigli evangelici dovrebbero essere segni dell’armonia che presiede alla creazione. Questa, secondo il racconto della Genesi, è fatta in sei giorni, in una successione interessante: termina all’uomo che ne diventa il garante e il custode, ma, attraverso l’uomo, ritorna a Dio, va nel settimo giorno, nel culto autentico. Mi pare che i consacrati nella loro carne, nella dedizione assoluta al Regno, dovrebbero testimoniare che la persona umana vale più delle pecore, degli asini, dell’erba della terra, di tutte le cose create. Vale di più perché porta in sé l’immagine di Dio e ha inciso l’iscrizione l’ethos dell’amore che lo congiunge al suo Creatore e lo rapporta a tutti gli altri esseri creati. Il legame all’Assoluto non è quindi alienante, ma dà autenticità nel modo più profondo e radicale possibile. Colloca la persona umana, come Gesù, in due dimore inseparabili: presso il Padre e presso i fratelli.
Come Gesù nella sua preghiera e nel suo rapporto personalissimo con il Padre porta noi come suoi fratelli, così i consacrati sono davanti a Dio a vantaggio degli altri, si fanno carico di loro. Come Gesù nella sua missione pubblica rivela il Padre misericordioso e magnanimo, così i consacrati nel loro parlare, operare, farsi prossimi rivelano il Padre. L’ateismo, l’indifferenza religiosa, il moltiplicarsi delle sette non saranno causati pure dal fatto che alcuni cristiani, forse anche alcuni consacrati, sono insensibili al grido di dolore dei propri fratelli e quindi rivelano un Dio insensibile, indifferente, un surrogato, non il volto genuino del Dio di Gesù? L’operare di certi consacrati non è forse uno strafare di azienda, poco evangelico, per cui non rimanda a Dio amore che è sempre all’opera per salvare?
Quale annuncio?
Come consacrati abbiamo senso se testimoniamo il nome uni versale di Dio: amore, un nome da tutti comprensibile.
I consigli evangelici andrebbero riletti in questa prospettiva come segno della duplice dimora espressa al maschile e al femminile. Analogamente alle virtù teologali, vanno visti come un organismo unitario che profetizza chi è Dio e chi è la persona umana nell’universo. Nel contesto socio-culturale ed ecclesiale italiano, connotato da limiti ma anche da potenzialità di vita, i voti sono significativi se annunciano l’armonia dell’universo che attraverso l’uomo è condotta in alto nel Trascendente.
Mi piace vedere la castità evangelica come il polo organizzatore degli altri consigli in quanto più esplicitamente fa riferimento al dinamismo affettivo della persona e quindi all’ethos dell’amore. Essa spinge a riconsiderare il valore della corporeità e sessualità umane nel progetto di Dio e a ricomprendere il senso della rinuncia che ne consegue non come repressione, ma come realizzazione della chiamata all’amore incondizionato, totale ed universale. Di fronte alle varie forme di egocentrismo manifesta la consapevolezza della persona di avere Dio come interlocutore unico ed assoluto nell’amore e di dover rispettare negli altri questo radicale riferimento all’Eterno. Fa maturare nell’amore oblativo e universalistico, un amore esteso a tutti perché ha la sua sorgente in Dio che ama tutti a partire da coloro che la logica umana ritiene non amabili. È credibile, significativa, solo se esprime la carità come viva comunione con Dio e con i fratelli e come custodia del creato.
Attualmente può dare senso trascendente alla maternità sociale, ossia alla capacità di farsi carico degli altri, del prendersi cura, del far crescere ed alimentare la vita sulla terra, atteggiamenti che stanno maturando nella società italiana come possibilità di superamento della logica del profitto e dell’assistenzialismo. La maternità che scaturisce dalla castità è significativa se è vissuta nella gioia come esperienza di profonda riconciliazione con se stessi per servire gli altri con la tenera sollecitudine di Gesù Salvatore.
La povertà evangelica è l’utilizzazione dei beni secondo il carisma nella prospettiva del Regno a vantaggio dell’umanità. È un’espressione dell’amore. Paolo ci dice che se diamo tutti i nostri beni senza amore, nulla giova (1 Cor 13,3). È luogo di maturazione nell’agape, quindi ci conforma progressivamente a Gesù che si è fatto povero per arricchirci della sua povertà. Egli ci ha arricchito della sua capacità di offrire non solo i beni ma tutta la vita per la salvezza. È quindi una mistica e un servizio. Non è semplicemente risparmio, altrimenti l’avaro supererebbe il consacrato. Nel contesto attuale, in cui si sottolinea la prospettiva ecologica, il vivere del necessario è visto come possibilità di contribuire alla crescita della vita, come apporto alla costruzione di una nuova civiltà ove lo sfruttamento e la prepotenza sono sostituiti dal rispetto e dal corretto rapporto con il creato, dall’accoglienza e dall’oblatività, dal decentramento da sé per farsi carico degli altri, nella consapevolezza che la madre terra ha ricchezze sufficienti per sfamare ogni vivente. Chi accumula, conservando per sé più del necessario, impoverisce la vita sul pianeta.
L’autonomia, la soggettività, la responsabilità nella costruzione della storia sono valori molto apprezzati oggi. La persona umana è libera; nessuno la può ridurre in catene. In realtà si fa esperienza di tanta schiavitù, solo Dio rispetta fino in fondo la nostra libertà. In essa e nella sua capacità di organizzare e progettare la vita si radica il consiglio di obbedienza.
La nostra visione delle cose è cortissima, anzi dopo il peccato siamo tentati di concepire la libertà come arbitrio e di contrapporla a Dio e al suo disegno di salvezza. Abbiamo uno spirito di ribellione e di contraddizione che ci pesa come un fardello e ci rende difficile percepire esistenzialmente come costruttivo il rapporto tra libertà e obbedienza alla volontà di Dio. Difficilmente meditiamo sulla nostra creaturalità e sul nostro posto nell’universo. La rivelazione presenta la dignità del “servo”. Ogni uomo è servo, è dipendente in quanto creato, la sua grandezza è proporzionata alla grandezza di colui al quale serve: chi serve il danaro si svilisce nel mondo materiale; chi serve Dio, regna.
A livello antropologico l’obbedienza evangelica fa maturare nel senso della propria piccolezza creaturalità, nella coscienza di far parte di un progetto universale. Fa abbandonare gli atteggiamenti di orgoglio, di autosufficienza e di prepotenza come falsità e menzogna esistenziali; porta all’autenticità in quanto pone la persona nella possibilità di scoprire il valore della vita come vocazione e quindi come adempimento di un compito, come svolgimento di un progetto a vantaggio delle creature dell’universo. L’obbedienza evangelica pone i consacrati sulle tracce di Gesù che si è fatto obbediente fino alla morte eliminando la disobbedienza di Adamo. Con la sua vita, specie con il paradosso della sua Croce, proclama con chiarezza che la volontà di Dio per Lui, come per ogni persona umana, è che in ogni situazione, anche nella obbrobriosa morte frutto dell’odio umano, si riveli l’amore di Dio il quale è sempre fedele all’uomo anche quando questi si scaglia contro di Lui. Il Padre non ha voluto la morte di Croce del Figlio, questa è stata voluta dai nemici, ma ha inviato il Figlio perché manifestasse la sua misericordia senza limiti e senza pentimenti. Gesù ha vissuto questa obbedienza fino in fondo. Dietro di Lui i consacrati nell’obbedienza sono trasformati in figli di misericordia. L’obbedienza deve quindi suscitare non dipendenza e passività ma piuttosto la creatività imprevedibile dell’amore che cerca le opportunità per radicare la fecondità del proprio carisma nell’oggi a servizio dei fratelli.
I consacrati sono chiamati ad irradiare la gioia con la loro vita perché consapevoli che Dio è Amore: Egli non è solo prossimo a noi, ma ci avvolge con la sua misericordia senza limiti. Questo è l’annuncio che non può e non deve mancare all’umanità!