Famiglia e vocazione nei primi passi di fanciulli e ragazzi
Proprio su queste medesime pagine (n. 3/1992) avemmo modo di scrivere, circa un anno fa, che vocazione è una risposta di vita che rende visibile Dio, e, nondimeno, potremmo aggiungere oggi, vocazione è un modo di intendere e di vivere la vita stessa.
Su tale (apparentemente ovvia) consapevolezza, vanno a fondarsi tutte quelle azioni, ma soprattutto quegli stili di vita che trovano nella famiglia il luogo più adatto per formare nei figli una “mentalità vocazionale”.
Biologia della vita e vita oltre la biologia
Certo è che il cuore del “problema vocazionale” è nel modo con cui si educa alla vita. È, infatti, fondamentale che noi genitori esprimiamo un modo di vivere attraverso il quale, pur senza grandi enunciazioni, si dimostri, comunque, che la vita non è nostra proprietà: non siamo noi i “possessori” della nostra esistenza e di quella altrui; non sono nostri i beni e le ricchezze della terra… Se, diversamente, mostriamo una “bramosia del possesso”, neghiamo la vita intesa come dono, ne travisiamo, quindi, il suo senso profondo, rendiamo muta ogni capacità di dire grazie di fronte a quanto gratuitamente ci è stato dato.
Tutto ciò non significa “vivere di meno”. Si tratta, piuttosto, di non confondere certo esasperato vitalismo fine a se stesso, con la vera vita. In termini educativi la cosa non è semplice. Bisogna, infatti, far capire che la fase biologica della vita è stupenda, ma non è tutto, poiché, giustappunto, è solo una fase della Vita totale; così come la morte non è l’estuario della fine, ma il passaggio verso la pienezza.
Di queste certezze di fede, il vissuto dei giorni chiederà, dunque, delle esemplificazioni, delle conferme, che diverranno, così, fatti educativi, tanto quanto più riusciranno a far coincidere la vita con i principi.
Pensiamo, ad esempio, a tutte quelle occasioni che la famiglia ha per mostrarsi aperta ai problemi degli altri, per farsi accogliente, ospitale, generosa, pronta a condividere… E pensiamo, per gli altri versi, a come la famiglia possa vivere solo in funzione di se stessa, chiusa sui propri interessi, in quel microcosmo che restringe tutti gli orizzonti sulla linea del “privato”.
È chiaro, dunque, che una iniziazione vocazionale richiede un humus formato da quelle piccole/grandi cose quali: l’attenzione a chi è altro-da-me, la disponibilità a condividere e a confrontarsi oltre se stessi, l’interesse verso le vicende sociali, un cuore e una intelligenza aperti alla mondialità, la capacità di meravigliarsi di fronte alla natura e a quanto genio e creatività dell’uomo riescono ad esprimere…
La nostra esperienza ci ha insegnato che per crescere, in famiglia, con questo abito mentale, non sono, poi, richieste grandi scelte, ma solo lo sforzo minimo di tenere socchiusa la porta di casa, così che i nostri discorsi, i problemi, le decisioni, i conflitti, le scoperte, le sofferenze, le gioie, possono essere “informati” e possono “informare” quanto e chi sta fuori dalla porta di casa nostra.
Crediamo sia importante comportarsi in maniera tale che la nostra esistenza non venga ritenuta come un fatto “privato”, bensì come una storia che sa rapportarsi agli altri, al contesto storico e sociale in cui vive, nella consapevolezza che la vita “si riceve” e che, proprio per questa ragione, a nostra volta si dona.
La cultura dell’indifferenza
Non siamo certo così ingenui, però, da non accorgersi che quello spiraglio della porta di casa lasciata socchiusa, ci mette anche in comunicazione con una realtà in crisi, permeata da una sorta di “cultura dell’indifferenza”. Ovvero da un modo di vivere tutto “scorciato” sulla quotidianità, su ambiti ristretti, poiché oltre noi sembrerebbe non esistere più nulla (ideali, ideologie, religione, mistero, utopie…). La stessa proposta cristiana risulterebbe superata (e non a caso si parla di mondo post-cristiano) dal fatto che l’uomo ha raggiunto ormai la sua “autonomia” e la pienezza del suo “potere” nei confronti della vita, relativizzando, così, tutto ciò che potrebbe costituire “problema” e che si pone al di fuori dell’esperienza umana.
La famiglia – più o meno consapevolmente – resta influenzata da questo tipo di cultura con la quale è inevitabile il confronto (basti ascoltare certi discorsi dei figli…!). Pertanto l’educazione cristiana richiede, oggi, una pre-evangelizzazione che aiuti, innanzitutto, ad aprirsi a quanto sta “oltre noi”, per potersi rendere ricettivi al dono della fede, per dare veramente una interpretazione trascendentale dell’esistenza.
In tal senso la famiglia può essere quello spazio educativo dove si apprende il valore della gratuità, il senso dei propri limiti, la disponibilità a lasciarsi sorprendere da quanto è fuori dalla sfera razionale. Ed anche a questo proposito, saranno educativi quei segni che scaturiscono dal vissuto, cioè le piccole dimostrazioni di quanto l’altro sia necessario, e, quindi, dell’incompiutezza che ciascuno di noi porta in sé, e, ancora, del valore di una povertà evangelica che rende ricchi di tutto, ma possessori di niente.
Ecco, allora, la pre-evangelizzazione che può portare a riconoscere Dio protagonista della nostra vita; che può fare della nostra casa il “posto di tappa” da dove (genitori e figli) partiamo insieme alla ricerca del significato profondo dell’esistenza, alla ricerca di Dio, poiché nulla è posseduto da parte nostra, tutto è da raggiungere completamente, e la stessa strada che si profila dinanzi a noi ci è data come dono.
Parola e parole
Se è cosa utile una catechesi vocazionale implicitamente contenuta nel modo di vivere, è altrettanto necessaria una esplicita catechesi che abitui a confrontarsi con la Parola di Dio. Bisogna, cioè, far sì che l’ascolto della Parola trovi in famiglia un modo naturale per essere proposto. È, infatti, la Parola che chiama, che discerne, che interpella, che invita a leggere la nostra vita come parola dell’amore di Dio verso noi e verso tutta la vicenda umana.
La tavola di casa può vederci seduti per “spezzare” quella Parola che non è soltanto racconto di una esperienza di fede trascorsa, ma anche “cronaca” dei nostri giorni, “filigrana” del libro della nostra vita.
Nella Parola c’è un canale privilegiato che “sintonizza” sulle chiamate di Dio. Quel Libro spalanca le pagine della nostra vita, ne decifra il senso ultimo, legge la nostra storia personale e del mondo, dissolve egoismi, dissigilla sopite generosità, raggiunge il cuore dei progetti umani.
Un’iniziazione vocazionale non potrà prescindere da questo ascolto che ci abitua a mettere in relazione Parola e vita. Si pensi, al proposito, a Maria di Nazareth: colei che accolse la Parola, la contemplò, la rese carne e storia, divenendo Essa stessa Parola di Dio.
Gesù, una persona
L’iniziazione cristiana ha poi la sua naturale centralità sulla figura di Gesù, poiché è Lui la persona che con la sua vita ci ha rivelato l’amore di Dio, ci ha “attirati” e coinvolti in quell’amore.
Per educare al dono di sé è necessario far conoscere Cristo, cioè la “misura” reale e concreta dell’amore di Dio manifestato agli uomini: “Egli ha dato la sua vita per noi; quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli” (1 Gv 3,16).
Con tutta l’opportuna gradualità e attraverso quella pre-evangelizzazione di cui parlavamo prima, sarà pur indispensabile condurre i nostri figli verso la consapevolezza che la salvezza dell’uomo non consiste in altra cosa se non nell’amore. È sulla via dell’amore che giungiamo all’autenticità della nostra esistenza, ed è quindi l’amore l’elemento costruttivo fondamentale della personalità del cristiano.
Sarà fondamentale far capire che l’amore è molto di più di una semplice norma etica, poiché è il dono della salvezza. Questo, pertanto, dovrebbe essere il messaggio: nell’amore di Dio Padre che manda il suo sole sui giusti e sugli ingiusti, ogni persona si propone al mio amore sulla linea stessa dell’amore di Dio, cioè del dono e della gratuità.
Chiamati all’amore
Allora – come diverse volte abbiamo avuto modo di dire ai nostri figli – in quale modo il Dio-Amore può continuare a manifestarsi nella storia umana? Attraverso la nostra disponibilità nel mettersi a servizio di quell’Amore che, nella morte e nella risurrezione di Cristo, raggiunge e motiva tutte le speranze degli uomini.
Per credere in Dio non è sufficiente ritenere vero che Lui è Amore, ma occorre anche rispondere, aprire la nostra esistenza al dono dell’amore, e, quindi, agire secondo quella logica: “Nessuno ha amore più grande di chi dà la sua vita per i suoi amici” (Gv 15,13).
E se i figli rifiutano questi messaggi…? Non crediamo che i livelli del rifiuto siano facilmente quantificabili. Resterà, comunque, attraverso la nostra testimonianza, un grande segno: quello che mostra una vocazione all’amore il cui dono non è in proporzione a quanto gli altri (in questo caso i figli) siano “uguali” a noi, ma basato esclusivamente sulla ragione che gli altri “esigono” il nostro bene solo per il fatto che esistono.
Operare in famiglia per un avvio vocazionale dei figli, vuol dire, in definitiva, creare quei “segnali indicatori”, quelle occasioni umane, tutti quei “tramite” che rimandino a un Dio accanto e avanti a noi. In altre parole, dimostrare con affermazioni vissute che Dio non solo è, ma accade nella nostra vita.