N.05
Settembre/Ottobre 1993

La crescita vocazionale dei fanciulli e dei ragazzi nella comunità cristiana

Prima di affrontare il tema proposto, può essere utile analizzare la cura che in genere una comunità cristiana riserva ai fanciulli e ai ragazzi: a questi discepoli del Signore, che hanno una singolare esemplarità per i discepoli del Regno, e che, tuttavia, muovono i loro primi passi liberi, cioè consapevoli e responsabili.

La parola di Dio e la dimensione ecclesiale della vocazione cristiana dei loro genitori urgono una incessante evangelizzazione della missione educativa degli sposi e dei genitori stessi, e perciò della capacità di “discernimento vocazionale” nei confronti dei bambini. La dimensione adulta della fede contempla la capacità di consegnare ai piccoli “le ragioni della speranza” (la “ragionevolezza” della fede) e perciò i primi passi personali dei bambini sulla strada della Sequela. Senza questa “incessante evangelizzazione” degli adulti non è pensabile un itinerario educativo alla Sequela dei bambini e perciò impensabile una crescita e una identità vocazionale.

Questa cura evangelizzatrice degli adulti, e degli sposi e dei genitori in particolare, risulta essere uno dei capitoli più faticosi della cura pastorale delle nostre comunità. La fatica poi risulta di fatto insuperabile e insuperata perché spesso si adagia su rassegnate inadempienze e scoraggiate conclusioni. L’itinerario educativo dei bambini alla fede di discepoli, e di conseguenza la crescita della loro identità vocazionale, esigono il coraggio di progetti precisi circa l’evangelizzazione degli adulti: progetti che non siano sempre “sperimentali”, ma già “sperimentati” nella esperienza di altre comunità e della tradizione della Chiesa (basterebbe pensare ai suggerimenti contenuti nella Dei Verbum, e sono già passati 30 anni!).

Questo capitolo della cura pastorale di una comunità cristiana, che si attua attraverso il ministero dei coniugi e dei genitori cristiani, fa da fondamento e sarà solo integrato dal progetto della iniziazione cristiana. Se si tiene conto, poi, della sempre più diffusa eterogeneità nei confronti della fede cristiana degli sposi e dei genitori (“povertà” della fede o fede “demotivata” o solo devozionalismo o addirittura non-fede), diventa quanto mai urgente e impegnativo per le nostre comunità “evangelizzare” sposi e genitori cristiani circa la dimensione ecclesiale (e non solo “domestica”) della loro vocazione di “padri” e di “madri”: per tutti i “figli” della comunità intera che “non dalla loro volontà né da carne e da sangue”, ma da Dio sono stati generati. La cura pastorale (di “padri” e di “madri”) di una comunità cristiana inizia con la vita. I suoi bambini non sono “figli” che accoglie, conosce e benedice al primo incontro di catechismo in preparazione alla Messa di prima Comunione; sono figli che essa accoglie e benedice con il Battesimo e impara a conoscere come comunità delle famiglie dei cristiani che si prendono cura di questi bambini anche attraverso ogni atto dell’amore e del servizio coniugale.

In questo campo la cura pastorale della comunità cristiana ha obiettivi precisi e ben identificati nell’itinerario educativo cristiano: la grazia-dono della “paternità-maternità” di Dio, la figliolanza adottiva, l’affidamento, la confidenza, la fiducia, la lode, il ringraziamento, ecc. Ma ha pure obiettivi precisi e ben identificati nell’itinerario educativo alla consapevolezza vocazionale: figlio “non come tutti”, responsabilità e gratitudine nei confronti dei doni, solidarietà e condivisione, servizio, ecc.

Poi viene il giorno in cui la comunità cristiana convoca le famiglie dei suoi fanciulli e ragazzi per condividere con loro il compito e l’impegno dell’accesso di questi bambini alla vita e alla missione della comunità stessa. Per un “automatismo pastorale” iniziano gli incontri di catechismo, che unici o quasi scandiranno i passi dell’avvicinarsi dei bambini e dei ragazzi ai Sacramenti della iniziazione cristiana. E non ci pare che questa possa essere l’unica né la prima cura della comunità cristiana per la “maturazione” nella fede e la crescita della consapevolezza vocazionale di questi suoi figli. Registriamo un fatto che ogni anno ci costa amarezze e delusioni: con la Cresima tanti ragazzi si allontanano definitivamente dalla Chiesa, dalla loro comunità e tanti forse anche dalla fede. Questo progetto pastorale perciò non regge più. Alla fine la scarsa consapevolezza vocazionale della vita, in generale, ma anche la scarsa considerazione di tanti nostri ragazzi e giovani di una possibile vocazione di speciale consacrazione dipendono da questa ristretta e ridotta esperienza della Sequela, provata come una lezione da imparare e come riti da eseguire. La possibilità di una crescita vocazionale (come consapevolezza e come responsabilità, ma anche come libertà) nei ragazzi affidati alle nostre comunità sta nell’accompagnarli in esperienze dove la comunità cristiana si sbilancia con loro con segni ed esperienze che aprano il cuore e la vita di questi bambini a comprendere e a gustare ogni dimensione della paternità di Dio, della salvezza ottenuta per noi da Gesù, della vita nuova possibile quando si accoglie il Regno che è dei poveri, dei miti, dei misericordiosi, dei costruttori di pace… Quanti giovani hanno ricordo della loro comunità cristiana soltanto come catechismo della prima Comunione e della Cresima.

Un itinerario educativo che miri alla crescita della consapevolezza vocazionale nei nostri ragazzi chiede alcune attenzioni.

Il primo impatto di un bambino con la sua comunità cristiana deve essere l’impatto appunto con una comunità. Per non essere retorici, questa dimensione della comunità è proponibile anche attraverso “comunità di mediazione” (il gruppo dell’Oratorio, il gruppo dell’ACR, alcuni momenti mirati nella stessa comunità). Non mitizziamo il “gruppo”, ma non possiamo nemmeno eliminarlo: ce lo impediscono ragionevoli motivazioni pedagogiche. Nella organicità di una vita comunitaria, senza enfasi, ma realistica (quale anche tanti Movimenti e Associazioni garantiscono) il ragazzo, pur non essendo l’unico né il più “bello”, si sentirà però protagonista della sua vita: uno che conta anche per chi è più grande di lui. Non credo che sia possibile offrire al ragazzo questa vivacità di un ambito comunitario se ci si limita alla “lezione del catechismo”, al compito da fare a casa e alla paginetta da studiare a memoria; io credo che ogni ragazzo debba passare dalla sua “comunità” alla famiglia, a casa sua sempre con un dono: con qualcosa, cioè, che lo faccia sempre contento di essere parte di quella, di questa comunità. Mi diceva un adolescente: “Io mi sento schiavo quando non so dare senso alla mia vita”. L’esperienza della accoglienza in una comunità deve generare nei nostri ragazzi la coscienza di essere “liberi”, di sapere cioè che cosa possono fare della loro vita. L’esperienza in una comunità come questa educa il ragazzo a sentirsi protagonista responsabile di una storia nella quale ci sono altri protagonisti responsabili con lui. Questo vuol dire crescere sapendo di avere un “posto”.

Una comunità capace di far crescere nella consapevolezza vocazionale i suoi ragazzi è una “comunità ministeriale”. Immediatamente questo rilievo non sembrerebbe mirato a quell’obbiettivo. In verità, una comunità che sa generare ministeri destinati al servizio nella liturgia, nella catechesi, nella carità, nella festa… e che sa mediare questi ministeri anche a favore dei suoi ragazzi, è una comunità che sa educarli al valore della missione, come capacità di risposta personale (responsabilità) a una chiamata che è di ogni discepolo, anche di chi è più grande dei ragazzi. Una comunità strutturata ministerialmente è il “luogo pastorale” migliore per un itinerario educativo dei suoi ragazzi verso la maturità della fede e la consapevolezza vocazionale.

Una comunità strutturata ministerialmente è il luogo educativo più efficace per educare i ragazzi alla gioia di appartenere a questa comunità. Non si tratta quindi di moltiplicare le cose da fare, ma di individuare i momenti più adatti e le persone più capaci per comunicare ai ragazzi la gioia consapevole di essere parte di una comunità che vive: la gioia di ricevere da questa comunità ogni dono che viene dall’amore di Dio e perciò di essere amati da Dio e dalla comunità stessa, che, in suo nome, trasmette i doni della salvezza. I ragazzi si sentiranno di questa comunità non come una loro proprietà, ma come ciò che (coloro che) ha plasmato la loro carne e il loro sangue per essere testimoni dell’amore del Padre ad altri: senza nascondere la “fierezza” di essere stati generati alla fede ed educati alla consapevolezza vocazionale e alla missione da questa che è una comunità da essi amata.

Una comunità capace di educare alla consapevolezza vocazionale è una comunità che sa offrire abbondantemente ai suoi ragazzi esperienze di paternità, di maternità, di fraternità, di figliolanza. Un’altra volta giova superare l’ansia che questi ragazzi facciano un certo tempo di catechismo, arrivino in certe date ad alcuni adempimenti…. e soprattutto giova evitare che quest’ansia invada i loro genitori e la loro famiglia. Tutto (preghiera, liturgia, catechesi, vita di gruppo) deve diventare per i ragazzi il luogo in cui la loro coscienza di “diventare grandi” cresce accanto a quella di “figli” come loro, di “fratelli” con loro, guidati da “padri” e da “madri” che sanno coniugare per loro tutta la tenerezza e la forza dell’amore di Dio. Ancora una volta, alla pastorale non mancano supporti teologici sufficientemente provati: le manca spesso il clima giusto, l’ambiente adatto, le persone preparate…

Anche questo compito pastorale delle nostre comunità, dunque, si realizza non solo in un clima giusto (si tratta di ragazzi!), ma anche con le persone giuste. Nelle nostre comunità si è fatto un lungo cammino in questi ultimi 25 anni nel campo del ministero catechistico. Non altrettanto mi pare sia stato fatto nel campo del più ampio ministero educativo delle nostre comunità a favore dei fanciulli e dei ragazzi. Nonostante tutto… tutto quello che si scrive e che si dice, in tante nostre parrocchie l’iniziazione cristiana dei piccoli si riduce all’incontro settimanale di catechismo. A queste condizioni è difficile parlare di crescita vocazionale.

Il problema della pastorale vocazionale, della pastorale educativa che sa educare alla consapevolezza vocazionale, inizierà a trovare qualche soluzione convincente quando riusciremo a preparare non solo catechisti, ma “educatori di comunità”, capaci di “narrare” la loro storia ai ragazzi, condividendo con loro esperienze che sanno “dare anima” a ogni desiderio, bisogno, attesa della vita di ogni ragazzo delle nostre città. Non è un’“anima” qualsiasi, ma un’“anima evangelica”: lo Spirito Santo del Signore che è la legge per avere tutti una vita bella come la vita di Gesù.