N.05
Settembre/Ottobre 1993

L’identificazione vocazionale nei fanciulli e nei ragazzi oggi

 

Alcune premesse

Nel contesto sociale e culturale come quello odierno tanto lontano e spesso ostile alla realtà della “vocazione” parlare di “identificazione vocazionale” nei fanciulli e nei ragazzi può suscitare per lo meno perplessità se non addirittura rifiuto. Chi osserva la condizione giovanile attuale, infatti, si pone subito alcuni interrogativi in proposito. Si domanda innanzitutto come possa esserci sviluppo di progetti vocazionali seri e consistenti in un contesto di diffusa “a-progettualità” giovanile e in una cultura che esalta il piacere del momento e la ricerca esasperata di affermazione di sé. Siamo in un tempo in cui la progettualità personale trova una pesante barriera sociale e culturale che le impedisce di esprimersi. Ci si interroga inoltre sulla stessa possibilità di attuazione di una identificazione vocazionale, soprattutto se si pensa alla crisi dei modelli di riferimento e alla sempre più scarsa incidenza e significatività degli adulti nella formazione dell’identità giovanile.

Il problema si presenta senza dubbio complesso, ma non per questo meno attuale e coinvolgente soprattutto per chi lavora con i giovani e fa dell’educazione una scelta di vita. Appunto perché le provocazioni della cultura di oggi sono tali da incidere sui modelli e progetti di vita specie dei giovani merita tutto il nostro interesse approfondire la conoscenza di quei dinamismi che possono facilitare lo sviluppo del progetto-vocazione. Prima di addentrarsi nel tema però occorre fare alcune premesse indispensabili.

 

– L’attenzione alla dimensione vocazionale nel progetto globale di educazione alla fede, sottolineata ampiamente nei contributi precedenti, appare sempre più come l’espressione più qualificante di una Pastorale Giovanile autentica, come la punta di diamante di un cammino di crescita, sia sul piano della fede che sul piano umano. La raggiunta capacità di orientarsi nella vita, di fare delle scelte fondanti costituisce difatti uno degli indicatori per valutare la maturità e l’unità della persona, mentre il dinamismo di scoperta della propria vocazione completa la definizione di sé e dà orientamento e fisionomia all’identità. La vocazione del resto è una realtà dinamica e storica, si inserisce cioè nel processo evolutivo e maturativo della personalità, si sviluppa e si consolida nel tempo e in un contesto umano e relazionale.

 

– La vocazione, da un punto di vista dinamico ed evolutivo, procede di pari passo con la formazione dell’identità personale e con tutte le vicissitudini e i conflitti che tale crescita comporta. Il progetto vocazionale si costruisce in connessione con la definizione di sé e il progetto di sé che il preadolescente e l’adolescente di oggi elabora con sempre più grande fatica. In età giovanile la vocazione può dipendere dalle identificazioni con persone, comunità, ambienti e proposte di vita che diventano modelli di riferimento per giungere ad assumere una scelta di vita che sia coerente con il proprio progetto di vita.

 

– L’appello gratuito e misterioso di Dio avviene normalmente attraverso delle mediazioni, sia individuali che comunitarie e sociali, sicché la vocazione rimane soggetta ai diversi condizionamenti personali psicologici o socio-culturali ed evolve in relazione alle sfide o agli appelli dell’ambiente di vita, della storia o della cultura in cui si vive. Prima di affrontare più direttamente il tema dell’identificazione vocazionale nei fanciulli e nei ragazzi di oggi, ci chiediamo quale è il significato del processo di identificazione in funzione dell’identità personale e nella prospettiva del progetto-vocazione e poi lo consideriamo nel confronto con i riferimenti identificativi “vissuti” nell’incontro quotidiano all’interno della comunità cristiana.

 

 

 

Il processo di identificazione nella costruzione del progetto vocazionale

L’identificazione nel difficile percorso che conduce all’identità è un dinamismo necessario, anche se transitorio e ambivalente. Essa assume un valore centrale nella strutturazione della personalità che si organizza e si differenzia proprio mediante successive “identificazioni” che dall’infanzia, alla fanciullezza, alla preadolescenza e adolescenza si alternano e si superano.

L’identità è una sintesi di tutte le identificazioni infantili e comincia laddove termina l’utilità dell’identificazione[1]. Ma cosa intendiamo per identificazione? Al di là delle numerose e svariate definizioni non sempre convergenti possiamo dire che l’identificazione è quel processo che spinge la persona ad aderire e a far propri i valori e i progetti di qualcuno (o qualcosa) in quanto diventa punto di riferimento affettivo e decisionale[2]. Ne risulta così un’assimilazione al modo di pensare e di agire del “modello”, che tende a rendere l’Io simile al modello stesso o almeno ad alcune caratteristiche e qualità di esso. In tal senso entrano in gioco altri dinamismi psicologici, come l’introiezione e l’imitazione, che portano la persona a interiorizzare l’immagine dell’altro e ad assimilarne i valori. Il bisogno di assomigliare a qualcuno e la tendenza ad assimilarsi ad un modello diventa quasi un passaggio obbligato per riconoscersi come persona autonoma e quindi per auto-definirsi. Il “modello”, quale oggetto di identificazione, offre così un supporto rassicurante ai tentativi di identificarsi con se stessi e una rilevante spinta imitativa piena di fascino e davvero seducente.

Dal punto di vista evolutivo il processo di identificazione polarizza le energie, le esperienze e il vissuto della personalità dapprima intorno ai modelli genitoriali in cui ci si riconosce come anticipazione di una propria possibile identità futura (identificazione parentale); poi attorno a modelli sociali e paritetici come proiezione e immagine ideale di sé (identificazione sociale); e infine attorno all’Io come esigenza di auto-scoperta e di progressiva auto-definizione (identificazione personale o auto-identificazione).

Il significato dell’identificazione in funzione dell’identità personale è quello di essere uno stimolo al superamento della situazione attuale del soggetto e quindi un fattore integrato e plasmatore della personalità. Infatti, il bambino, assimilandosi a un modello o a un adulto per lui significativo, elabora una nuova rappresentazione di se stesso comprendente le caratteristiche positive e desiderabili dell’altro. “Tale è il paradosso dell’identificazione – scrive Tap – divenendo quest’altro che non è, il bambino diventa se stesso”[3]. Coltivando l’immagine di quell’altro che desidera diventare egli pone le premesse per costruire un ideale di sé e in qualche modo prepara un progetto di vita che domani in termini ideali potrà diventare il suo progetto vocazionale.

Questo processo dinamico, che si radica nelle motivazioni profonde del comportamento, è presente in maniera embrionale e prevalentemente inconscia nell’infanzia e della fanciullezza, ma si rivela particolarmente attivo nel periodo della preadolescenza e adolescenza, quando cioè, prendendo le distanze dal mondo infantile e dalle identificazioni precedenti il ragazzo è in grado di auto-progettarsi in maniera autonoma e personale[4]. È lecito perciò domandarsi quanto siano da ritenere valide e consistenti le identificazioni vocazionali nell’età della fanciullezza. Gli studi fatti in questo campo fanno emergere che le identificazioni con i genitori nell’infanzia, basate su legami di tipo emotivo, già nella fanciullezza subiscono delle trasformazioni e perdono quella dimensione di dipendenza che le caratterizza, giungendo ad un livello più realistico. L’ingresso nella scuola, attraverso il contatto con altri adulti e coetanei, segna l’inizio di un nuovo modo di rapportarsi con i genitori, non più basato sul legame affettivo e sulla stima quali persone “significative”. Il bambino cioè vede i genitori come lavoratori, come coloro che “sanno le cose e sanno come farle”[5], come i rappresentanti della società in cui dovrà inserirsi nel futuro. Si ha cioè un’identificazione ai loro ruoli e compiti. Evidentemente ciò non avviene automaticamente, è necessaria una relazione di mutualità con gli adulti, perché il fanciullo possa acquistare fiducia nelle sue possibilità e nello stesso tempo espandersi nell’Io fino ad abbracciare interessi e valori da realizzare nel futuro. Si ritrovano qui le basi più prossime per la comprensione del “compito significativo” o della “vocazione” che sarà chiamato a svolgere in futuro nella società. Sarebbe errato perciò pensare che la cura vocazionale non abbia rilievo in questa fascia di età che invece si dimostra potenzialmente vocazionale. In essa, infatti, si rileva molta disponibilità all’annuncio vocazionale, non solo perché è l’età in cui avviene la più elevata identificazione con i modelli, specie quelli extra-familiari che “instaurano nuove seduzioni in funzione di valori (affettivi, morali, sociali, politici, religiosi, culturali)”[6] da essi simbolizzati, ma anche perché l’intuizione e il desiderio giocano un ruolo fondamentale. È in questa età che nascono le intuizioni vocazionali più vive e precoci. L’identificazione dunque appare determinante nella genesi della vocazione, non solo perché favorisce l’interiorizzazione dei valori che danno corpo ai progetti e senso di unità alla persona, ma perché prepara il terreno per un incontro significativo con l’appello di Dio.

Non bisogna dimenticare però la funzione strumentale e di transizione dell’identificazione. Essa cioè deve essere continuamente superata se non si vuole fissare la personalità a livelli infantili di dipendenza. Sappiamo bene l’inconsistenza di vocazioni che si sono fermate alla fase dell’identificazione con un modello, con il rischio dell’idealizzazione che prima o poi lascia lo spazio al rifiuto o all’abbandono. 

 

 

 

L’identificazione con modelli di “vocazione vissuta”

L’identificazione vocazionale però diventa significativa se è accompagnata da un vissuto affettivo e relazionale positivo, diversamente non avviene l’assimilazione dei valori e dei progetti del modello. L’appello ai valori e la risposta al progetto di Dio hanno una risonanza emotiva consistente solo se collocati in una determinata esperienza di identificazione e di incontro significativo.

È innanzitutto un’esperienza relazionale quella che si trova al fondo di ogni annuncio o proposta vocazionale. L’attrattiva per i valori e la spinta motivazionale di alcuni interessi che poi diventano centrali derivano dall’identificazione con persone o con istituzioni e gruppi, anche se poi sono sottoposti al lavoro di appropriazione soggettiva. Il “modello” dimostra che quei valori in cui crede e che propone non sono lontani, astratti e teorici, ma anche vivibili, perché ne ha fatto e ne fa continuamente esperienza nella propria vita. E ciò implica che l’adulto, mediante la sua “presenza”, sia capace di offrirsi come “termine di identificazione” e sappia gestire educativamente la domanda di relazione e di comunicazione implicita nei fanciulli e nei ragazzi. Ma cosa significa e cosa comporta l’offrirsi come termine di identificazione vocazionale?

Innanzitutto assolvere alla funzione di “modello” per divenire punto di riferimento che attrae per le sue caratteristiche positive di simpatia, di vicinanza, di gioia di vivere, di armonia e di realizzazione. In secondo luogo essere “sostegno affettivo” mediante l’accettazione e l’accoglienza, l’amore educativo senza suscitare dipendenze o infantilismi. Ma anche divenire “sostegno normativo”, cioè capace di sviluppare controllo emotivo e padronanza di sé, di esprimere coerenza nella condotta e lealtà, di svegliare l’appello ai valori più che alla propria persona. E infine realizzare la funzione di “guida spirituale” per mediare contenuti formativi e valori spirituali, per aiutare a discernere il disegno di Dio inscritto nella storia di ciascuno.

Significa soprattutto “essere se stessi”, essere ciò che si è chiamati ad essere secondo il progetto di Dio, vivere in pienezza la propria vocazione. In altri termini vuol dire essere “modello” che rimanda a un Altro, e ciò è possibile solo a chi vive nell’interiorità della sua persona la consapevolezza del mistero, di quell’oltre che dà pienezza e senso alla vita.

Oltre che con le persone l’identificazione può avvenire con qualsiasi altra entità (istituzioni, comunità cristiana, gruppi, proposte di vita…). Di fatto, la socializzazione e la stessa educazione si attuano attraverso l’esperienza di identificazione che la famiglia, la società, la scuola, la comunità cristiana e i gruppi riescono a scatenare e sostenere. Il senso di appartenenza familiare, ecclesiale o civile è il risultato dell’identificazione, è l’esito verificabile che porta il fanciullo e l’adolescente a considerare l’istituzione, le persone che la compongono, i valori che in essa circolano come un punto di riferimento per le valutazioni e le scelte della vita. Perché la comunità cristiana e in essa i gruppi diventino “luoghi di identificazione vocazionale”, luoghi in cui si possa fare esperienza di incontro con modelli di vocazione vissuta, fino a giungere a far proprie qualità, valori e scelte di vita in essi percepiti, è necessario che ci sia una pluralità di modelli ugualmente appellanti e significativi. In un tempo di pluralismo come il nostro si richiede di saper armonizzare la diversità di proposte, credenze, modelli e appartenenze con la proposta oggettiva della Comunità ed offrire la possibilità di definire in essi il personale progetto di vita. La Comunità ecclesiale, che si offre come luogo di molteplici identificazioni vocazionali possibili, deve soprattutto testimoniare il suo essere ad immagine di un Altro e il suo impegnarsi al servizio di una Missione che è risposta agli appelli di un mondo che soffre. La Comunità, cioè, deve diventare sempre più ambiente di vita in cui i valori vengono respirati più che proclamati, in cui tutti coloro che ne vivono l’appartenenza hanno dato una risposta alla loro domanda di senso e quindi possono con umiltà indicare ad altri la strada da percorrere. La categoria che meglio esprime questa realtà è quella della “compagnia della fede”[7], l’essere accanto, immersa nel reale, ma anche capace di condividere quanto di più caro ed essenziale possiede: il Pane della Vita, il Dio che dà senso e pienezza ad ogni vita. E questo non può essere mediato soltanto attraverso la parola, ma va testimoniato con la saggezza e la sapienza della vita e va progettato con percorsi educativi che partono dall’esperienza. Solo così una comunità può essere generatrice di progettualità e di orientamento vocazionale nel futuro.

 

 

 

L’identificazione vocazionale: una risorsa educativa?

Riassumendo l’iter percorso in queste brevi riflessioni risulta facilmente comprensibile la valenza educativa del processo di identificazione, non solo in funzione della costruzione dell’identità personale, ma anche in prospettiva vocazionale.

L’identificazione permette l’assunzione di atteggiamenti, valori, ideali, progetti e ruoli; in quanto tale rappresenta un importante momento nel processo educativo e costituisce il supporto necessario per il normale divenire vocazionale della persona. Ciò vale soprattutto in rapporto ai fanciulli e ragazzi di oggi che, in assenza di modelli identificativi validi e rassicuranti possono trovare nella mediazione degli educatori/animatori, nel sostegno dei gruppi formativi, nella testimonianza di una comunità credibile e ricca di riferimenti identificativi vissuti (parroco, religiosi/e…) quello spazio vitale per accogliere i valori e gli appelli che si portano dentro, per entusiasmarsi alle grandi realtà mediate dalle vocazioni vissute e per costruire il proprio progetto vocazionale.

Si tratta di valorizzare o meglio “sfruttare” l’enorme potenziale educativo implicito nell’identificazione. Si tratta di liberarsi dal timore, evidentemente pregiudiziale, di offendere la dignità e la singolarità del ragazzo, di limitarne così il protagonismo, quando si pensa di proporsi come “modello”, istanza che, tutto sommato, si incontra con la sofferta e silenziosa “domanda di relazione”, molto diffusa nei nostri giovani. Perché non riconoscere e valorizzare anche nella pedagogia vocazionale la forza di attrattiva e plasmatrice di questo dinamismo nelle diverse tappe dell’itinerario vocazionale (annuncio, proposta, accompagnamento e decisione)?

Sarebbe estremamente interessante approfondire in seguito come, a quali condizioni e con quali esperienze educare e orientare vocazionalmente suscitando e sostenendo positive identificazioni.

 

 

 

 

Note

[1] Cfr. ERIKSON E.H., Gioventù e crisi di identità, Armando, Roma, 1974, 188.

[2] Si veda in proposito DE PIERI S., Identificazione, in Dizionario di Pastorale Giovanile, LDC, Torino, 1989, 427-432; KANZER M., L’identification et ses avatars, in Revue française de Psychanalyse, 48, 1984, 853-872; ARTO A.- MORON M.T., Influsso parentale nello sviluppo della personalità in Orientamenti Pedagogici, 30, 1983, 761-786.

[3] TAP P., Identità personale e identificazione, in GIOVANNINI D. (a cura di), Identità personale, Zanichelli, Bologna, 1979, 40-59,51.

[4] Studi recenti hanno evidenziato la persistenza del fenomeno dell’identificazione anche nella preadolescenza: è presente in maniera massiccia l’identificazione con i genitori anche se si osserva una diminuzione sensibile con la crescita in età; è significativa e più allargata l’identificazione relazionale con i coetanei attraverso l’amicizia, il gruppo, l’attrattiva etero-sessuale; è diffusa ampiamente l’identificazione sociale legata a modelli esteriori mutuati dal mondo dello spettacolo e dello sport. (cfr. DEL CORE P., Il preadolescente verso l’identità, in AA.VV., L’età negata. Ricerca sui preadolescenti in Italia, Torino, LDC, 1986, 181-202).

[5] ERIKSON, Gioventù, 145.

[6] TAP P., Identità personale e identificazione 56.

[7] Cfr. RUGGIERI G., La compagnia della fede. Linee di teologia fondamentale, Marietti, Torino, 1990.