Luoghi ed esperienze di crescita vocazionale per i fanciulli e ragazzi in parrocchia
Parlare di “luoghi ed esperienze” in cui la vocazione venga favorita nella sua crescita, significa mettere la comunità parrocchiale in una posizione ineccepibile dal punto di vista del suo essere e del suo operare. Il problema è che, di fatto, ciò non sempre avviene ed anche quando accade la crescita vocazionale è condizionata a diversi fattori.
Per aiutare a mentalizzare la comunità e quanti in essa operano nell’ambito educativo adolescenziale, in vista di un rapporto sempre più efficace tra vocazione come dono del Signore e sua crescita come collaborazione della comunità cristiana, abbozzo questo schema: una parrocchia che prende sul serio Dio; che rende consapevoli che essere cristiani è vocazione, chiamata a collaborare con Dio; tutto ciò mediante una robusta pastorale degli adulti; nella pastorale dei fanciulli e adolescenti cura il continuo inserimento comunitario-parrocchiale.
Prendere “sul serio” Dio
La parrocchia “se” ed “in quanto” è comunità cristiana “ipso facto” diventa essa stessa luogo di un incontro reale col Signore ed esperienza di Dio la cui “tangibilità” è dimostrata dal modo incisivo con cui Egli opera nella vita e nelle scelte delle persone.
Con un’immagine un po’ abusata ma pur sempre efficace se la percepibilità di Dio nell’ambito della parrocchia è ridotta ad un “Dio dello scenario” cioè se Dio rimane “inerte e non diventa soggetto vivente con cui interloquire e interagire nella scena dell’esistenza privata e pubblica”, se come scrive Don Chino Biscontin, “il nome di Dio non trascina con sé un peso consistente di realtà ma evoca una realtà tenue, larvale, nebbiosa e poco consistente” allora anche la vocazione, che è un modo concreto di rispondere ad una reale chiamata del Signore, non potrà trovare efficaci possibilità né di impianto e né di crescita.
Per far sì che la vocazione sia una cosa seria occorre recuperare un forte senso della presenza attiva del Dio vivente che tutto dispone con amore infinito per l’autentico bene dei suoi figli.
Questo una comunità deve cercare di realizzarlo sull’esemplarità della comunità degli Atti (2,42) pur con l’attenzione che richiedono le situazioni storiche e le alterne vicende umane.
Comunità nazionali
È fondamentale la consapevolezza che una parrocchia debba sempre di più aiutare a far prendere coscienza che il cristianesimo è esso stesso vocazione e che, quindi, la vocazione non si aggiunge ad esso dall’esterno, per i più generosi, ma è costitutiva del suo essere. Una comunità cristiana deve fondare la sua motivazione d’essere nella disponibilità a collaborare col Signore. Alla luce di questo principio ogni sua iniziativa deve avere l’obiettivo di potenziare la propria capacità di risposta e quindi di scelta vocazionale.
Prima gli adulti
Per parlare di “crescita vocazionale per i fanciulli e i ragazzi” occorre prima misurare la capacità di risposta che gli adulti, il parroco in testa, hanno di prendere sul serio Dio dimostrando con precise scelte di vita la valenza della propria fede.
Se, ad esempio, la vita della comunità parrocchiale non investe tutte le fasce dell’esistenza con pari attenzione e non sta attenta a non cadere nel privilegiare ciò che è più gratificante, a scapito di ciò che è più urgente, l’arco adolescenziale rischia di diventare un semplice catalizzatore delle risorse educative della parrocchia rimanendo accartocciata sulla lamentela dell’abbandono adolescenziale senza esaminare le cause di un simile fenomeno. In un clima simile in cui il rimpianto è nutrimento abituale e il coraggio di “rischiare” sul nome del Signore pura utopia, un ragazzo non trova un riscontro credibile ed un supporto consolante ad un suo progetto di farsi prete e di scegliere uno stato di speciale consacrazione.
Pur nella scontata difficoltà di una età che presenta forti squilibri psicologici, in cui la logica è bandita e l’esemplarità dei grandi valida solo come prototipo di celebrità e di successo, l’intera comunità parrocchiale deve far respirare ai ragazzi un’aria diversa testimoniando con umiltà ma con chiarezza un “sì” al Signore che non mortifica le aspirazioni della vita ma le potenzia in modo stupefacente.
In quest’ottica è importante il riferimento ad un progetto pastorale parrocchiale in cui a partire dagli adulti ogni componente, anche se ragazzo, si senta rispettato e valorizzato con un coinvolgimento a lui possibile e per lui gratificante. Preziosa è anche la testimonianza di adulti che fanno la scelta ministeriale, ad esempio del lettorato o dell’accolitato.
Fanciulli e ragazzi nella comunità
Quando nell’orizzonte dell’adolescenza emerge una chiamata vocazionale questa non deve rimanere isolata o soffocata dalla opacità del dubbio o dalla non chiara sua prospettiva di crescita ma deve sentirsi accolta come un dono “di tutti” e “per tutti”.
Se venisse a mancare la consapevolezza che il primo luogo e la prima esperienza di crescita vocazionale è la comunità parrocchiale, tante iniziative per fanciulli e ragazzi lodevoli nella conduzione e nelle finalità non saranno mai un’autentica occasione di crescita vocazionale.
Corsi, ritiri, servizi, incontri e simili iniziative anche se esenti dalla tentazione di “umiliare” la propria comunità, il proprio parroco, i propri catechisti perché non “leader” carismatici ma “gente normale”, devono comunque essere progettati e condotti in modo da salvaguardare sempre l’inserimento comunitario-parrocchiale.
Ben vengano e numerose siano le iniziative che suppliscano alla impossibilità strutturale di una parrocchia, specie se piccola, di organizzare campi vocazionali o ritiri nei tempi forti, ma l’auspicio è che quando un ragazzo torna a “casa” deve sentirsi più inserito di prima nel suo contesto sociale ed ecclesiale che è quello della sua famiglia, della sua scuola, del suo…campanile!
Ho conoscenza di ragazzi che durante una “uscita” si sono alzati alle quattro del mattino per una settimana intera a dire Lodi con i monaci poi tornati a casa non hanno messo piede in chiesa per dei mesi! O che dire di chi ha fatto l’esperienza di Taizè, o di altri centri di forte spiritualità, nulla hanno più a che spartire con la “povera” liturgia della propria parrocchia?
L’oratorio parrocchiale, dove questo è possibile, sarà significativo vocazionalmente se è espressione di un’amorosa attenzione di tutta la comunità e non risultato sudato del vice-parroco che, da solo, si spende tutto per i ragazzi!
Qualcosa va pur detto per le associazioni, gruppi e movimenti che possono essere validi strumenti del Signore anche per chiamare giovani e ragazze ad una vita consacrata ma che non possono dirsi “voce privilegiata dello Spirito” se tutto scorre sul rimanere collaterali alla propria chiesa locale, la cui prima e più naturale forma storica è – e non da ieri! – quella parrocchiale!
Personalmente apprezzo molto quanto in Diocesi organizza il Centro Diocesano Vocazionale, sullo stile di quello Nazionale per l’intera chiesa italiana, ma sono altresì convinto che quanto viene immesso nel cuore dei ragazzi durante incontri e campi se non trova accoglienza e valorizzazione anche nella propria parrocchia, è come il seme sui sassi o tra le spine (Mt 13). Come per l’innesto il discorso vocazionale attecchisce se la gemma viene impiantata su un ceppo vivo. Questo deve far parecchio meditare su un modo “stanco” di vivere e far vivere la propria vocazione battesimale!
Per concludere
A mo’ di conclusione ponendo tutto sotto la domanda di “come si può aiutare un ragazzo a trovare nella parrocchia possibilità di crescita vocazionale”, sulla base dei diversi aspetti accennati aggiungerei tre pensieri.
– Non dobbiamo mai privilegiare i nostri ideali ma individuare e seguire la volontà di Dio. Se impostiamo l’educazione vocazionale innanzi tutto su nostri schemi di bontà ideale, tendiamo a proporre una gerarchia di stati di vita in cui ci si sente più o meno amati dal Signore a seconda che si sia sacerdote o laico! Non esistono schemi astratti di bontà. O la crescita vocazionale parte da un interrogarci tutti per cercare quel che Dio vuole da noi, nella nostra specifica situazione personale (“Signore cosa vuoi che io faccia”?) oppure la tentazione ideologica, anche se velata, porta a non rispettare la persona e quindi a non favorirla nell’opzione fondamentale della sua vocazione.
– Un ragazzo deve poter dialogare con il suo prete. Non vorrei restringere il rapporto alla sola “direzione spirituale”, che resta un caposaldo nel processo formativo della persona, ma dico di quella opportunità ricchissima di grazia che è la testimonianza che un sacerdote convinto della propria scelta e della sua vita verginale trasmette in modo efficace dimostrando com’è concretamente la vita del prete (nel bene e nelle difficoltà) e chi è veramente lui (con il suo carattere e i suoi problemi). Se convergono un sano realismo nella diagnosi, un’analisi articolata della vita del prete e un confronto continuo con gli altri stati di vita, la vocazione avrà di che alimentarsi e crescere.
– Da ultimo direi che occorre eliminare ogni censura, anche silenziosa, che snobbi il problema vocazionale per verificare nel concreto l’apertura sociale del ragazzo che si sente chiamato. Dovrà essere uomo “con” e “per” gli altri e non solo uomo religioso. In pratica: occorre renderlo soggetto attivo nella comunità parrocchiale e non semplice consumatore.
E poi… quando si è fatto tutto il possibile avere ancora la forza e il coraggio di dire con sincerità: “Signore siamo servi inutili” (Lc 17,10). Sulla Sua Parola, molti altri… butteranno la rete! (Lc 5,5).