N.01
Gennaio/Febbraio 1994

Dalla gratitudine alla gratuità

Il termine “gratuità”, da un punto di vista psicologico, indica “la presenza di motivazioni tali per cui l’azione non necessita di alcuna contropartita, avendo già in se stessa il proprio senso”[1]. Oggi si parla molto di gratuità, è senz’altro tra i valori più quotati, ma – d’altro lato – la realtà che ci circonda, il clima culturale che respiriamo, la qualità dei normali rapporti sociali non si può certo dire che s’ispirino a questo valore evangelico e umano. Tangentopoli, come plateale antitesi alla gratuità, lo sta a dimostrare. Con conseguenze nefaste sulla formazione in genere delle giovani generazioni e dell’animazione vocazionale in particolare. La gratuità è tipico valore vocazionale, è ciò che autentica un progetto vocazionale. Per questo è valore spesso sottolineato nella nostra catechesi vocazionale, a volte anche con una certa enfasi che poi, però, non sortisce gli effetti desiderati. Come recuperare questo valore umano e cristiano, valore difficile da realizzare, ma nondimeno essenziale in chiave vocazionale. Esistono autentici percorsi educativi in tal senso? È quanto vorremmo tentare di capire.

 

“Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date” (Mt 10, 8)

Il vangelo ci dà in tal senso un’indicazione preziosa, che segnala in qualche modo il punto di partenza della gratuità, la sua origine naturale, che è esattamente la consapevolezza d’aver ricevuto.

La gratuità, in altre parole, non è valore originario, non nasce dal nulla, né va identificata con un particolare eroismo dello spirito e neppure, di per sé, con l’assenza di motivazioni egoistiche o troppo interessate, ma è anzitutto conseguenza, qualcosa che vien dopo, connesso in modo inscindibile con la coscienza del dono ricevuto, quella coscienza che si chiama gratitudine. È così stretto e naturale il nesso tra i due atteggiamenti (gratitudine e gratuità) che se manca il primo viene inevitabilmente a mancare anche il secondo, al punto che se oggi, come abbiamo detto, sembra assente il valore della gratuità, ciò potrebbe dipendere, alla radice, dall’assenza di gratitudine nel modo in cui l’uomo d’oggi si pensa e pensa il suo passato e il suo futuro. È sulla capacità di gratitudine che l’educatore deve lavorare, più e prim’ancora che su grandi ideali di donazione di sé e di trasparenza nel dono stesso. Perché è la gratitudine il terreno naturale, l’humus fecondo nel quale può maturare e fiorire un autentico progetto oblativo come è l’opzione vocazionale. La vocazione è rendimento di grazie, è risposta a un atto d’amore, è decisione in qualche modo inevitabile una volta che si è constatato il tanto ricevuto, o per lo meno è scelta sempre accompagnata dalla consapevolezza dello scarto perenne tra quel che uno ha ricevuto e quel che pensa di poter dare. Sarebbe molto dubbia, artificiosa e inautentica, la decisione di consacrarsi a Dio che non nascesse nel terreno fertile della riconoscenza; “non sarebbe vera vocazione, la quale – per definizione – nasce da una coscienza di pienezza, pienezza ricevuta in dono e liberamente donata”[2]. Dal punto di vista dell’animazione vocazionale ciò comporta quattro attenzioni.

 

Educare alla gratitudine

Come abbiamo già detto si tratta anzitutto di formare nel giovane la capacità di esser grato nei confronti di Dio, della vita, di tutto quanto ogni essere umano ha ricevuto da essa e attraverso essa. “Io … ho ricevuto me stesso. Al principio della mia esistenza non sta una decisione d’essere, presa da me stesso…, ma un’iniziativa, un Qualcuno che ha dato me a me stesso. In ogni caso sono stato dato e dato come quest’individuo determinato”[3]. Sulla stessa linea Von Balthasar: “Solo una cosa è esclusa: che io consideri la mia esistenza, per la quale ringrazio, come una cosa ovvia, dovuta, necessaria…, importa soltanto che il mio intimo venga compenetrato dalla consapevolezza che nulla di ciò che sono e che mi viene continuamente donato mi è dovuto, né la vista della luce, né il sorriso d’un altro uomo, né il poter amare situazioni, cose, amici, ecc.; in tutto questo vi è un momento di dono, che esige e suscita uno spontaneo ringraziamento”[4]. Sarà importante, a tal proposito, aiutare il giovane a rileggere la propria storia in quest’ottica grata e riconoscente.

 

Educare a lasciarsi amare

Di solito s’insiste sulla capacità d’amare, dando per scontato che ogni essere umano possieda la libertà di farsi benvolere. In realtà anche tale libertà deve essere oggetto di formazione se si vuol davvero educare ad amare gratuitamente. A volte, per strano che possa sembrare, l’uomo preferisce non riconoscere l’affetto ricevuto, perché l’amore è un vincolo, il solo vero vincolo, che crea responsabilità e chiede coerenza; meglio lamentarsi di non aver abbastanza ricevuto amore, piuttosto che ammettere d’esser già stati benvoluti…[5] . Ovvero, il timore (forse inconscio) della responsabilità legata all’amore ricevuto fa preferire l’autocommiserazione nei confronti del passato, o quella chiusura affettiva o paura vera e propria di lasciarsi amare al presente[6]. Chi decide d’offrire la propria vita è anzitutto un individuo libero di lasciarsi benvolere e di ricevere anche senza dare, come dice paradossalmente Lewis, ovvero capace di scoprire sempre più la sproporzione tra quel che riceve e quel che dà, o capace di sentirsi amato sempre oltre il suo merito. A volte, continua sempre Lewis, “ricevere è più duro e forse più santo che non donare”[7]; in ogni caso è premessa indispensabile per scegliere un piano oblativo di vita. Dopo tutto non è forse il Figlio, all’interno dell’esistenza trinitaria, a insegnarci “come divino non sia soltanto il dare, ma anche il ricevere”[8]?

 

Educare al senso della vita

È una conseguenza naturale di quanto fin qui detto, anzi, in qualche modo vi è già compreso, ma costituisce comunque una sottolineatura importante nella catechesi vocazionale e che dunque vai la pena ribadire. Il giovane, qualsiasi giovane, deve capire che la vita è un bene ricevuto che tende per natura sua a divenire donato. Questa è come una verità inscritta profondamente nel tessuto bio-psichico dell’uomo: è inscritto nella sessualità, nella capacità affettiva, nella memoria affettiva…, o addirittura in quel misterioso legame tra la vita e la morte, ovvero tra il bene ricevuto (la vita, appunto) che tende naturalmente a divenire bene donato (la morte). È legge naturale, che non sopporta eccezioni. Ciascun individuo è “chiamato” a rispettare questo legame e questa legge se vuol realizzare la sua felicità. Anzi, la vocazione d’ogni persona è tutta in quel nesso misterioso che lega l’accoglienza del dono alla sua offerta.

 

Educare al senso della vocazione

L’autentica animazione vocazionale, allora, non si rivolge ad alcuni, allo sparuto gruppo dei “buoni” o degli aspiranti eroi, ma ad ogni individuo che voglia progettare seriamente la sua vita, nel rispetto della verità dell’essere; non consiste in appelli straordinari a fare scelte fuori dell’ordinario, ma – al contrario – è pro-vocazione che nasce spontaneamente da una catechesi essenziale sul senso e sul valore della vita. Se “la vita è dono totalmente gratuito… non esiste altro modo per vivere degno dell’uomo, al di fuori della prospettiva del dono di sé”[9], o al di fuori d’una prospettiva vocazionale che s’ispira a quella gratuità che nasce dalla gratitudine. La pastorale vocazionale ha tutto l’interesse a recuperare la valenza antropologica (assieme a quella teologica) di questa concezione della gratuità; ne guadagnerebbe enormemente in efficacia e incisività, e la finirebbe una buona volta d’esser considerata e gestita in modo riduttivo (quanto ai destinatari), mercantile (quanto alle finalità), povera (quanto alle argomentazioni) e improvvisata o banale (quanto alle modalità d’intervento). E ancora Lewis a ricordarci quanto questa logica del dono gratuito sia universale, umana e divina assieme: “Nel dono di sé noi riscopriamo il ritmo non solo di tutta la creazione ma di ogni essere. Perché anche il Verbo Eterno si dona in sacrificio, e non solo sul Calvario… Da prima della creazione del mondo Egli, come Dio generato, si abbandona in obbedienza a Colui che lo ha generato… Dal più alto degli esseri al più piccolo, l’io esiste per esser donato e, attraverso questo dono di sé, realizzare pienamente se stesso, per esser poi ancor più donato in un processo senza fine. Questa non è una legge celeste che non ci riguarda in quanto esseri terreni, né è una legge terrena che non ci tocca in quanto salvati. Quanto si trova al di fuori della logica del dono di sé non è terra, né natura, né ‘vita ordinaria’, ma solo e semplicemente inferno”[10].

L’inferno dell’ingratitudine e dell’ingordigia dell’uomo senza vocazione.

 

 

 

 

Note

[1] Galimberti U., Dizionario di Psicologia, Torino 1992, p. 445.

[2] Cencini A., Vocazioni; dalla nostalgia alla profezia, Bologna 1989, p. 290.

[3] Guardini R., Accettare se stessi, Brescia 1992, p. 13.

[4] Von Balthasar H.U., Pregare, Casale Monferrato 1989, pp. 8-13.

[5] Cfr. Cencini A., Per amore. Libertà e maturità affettiva nel celibato consacrato, Bologna 1994 (in stampa).

[6] Proprio in tal senso Turoldo, volgendosi a guardare la sua vita trascorsa, considera il non lasciarsi amare come “la colpa più grave” (Turoldo D., Canti ultimi, cit. in “Rocca” 7/1992/15).

[7] Lewis C.S., I quattro amori. Affetto, amicizia, eros, carità, Milano 1990, p. 120.

[8] Forte B., Sull’amore, Napoli 1988, p. 59

[9] Giovanni Paolo II, Messaggio per la XXX Giornata Mondiale di Preghiera per le vocazioni.

[10] Lewis C.S., The Problem of Pain, Cambridge 1983, ch. 10.