N.01
Gennaio/Febbraio 1994

Matrimonio e verginità due vocazioni complementari

“Per parte sua la verginità, in quanto dice l’assoluto di Gesù Cristo e del suo Regno al quale ci si dona e ci si dedica in modo totale e con cuore indiviso, tiene viva nella Chiesa la coscienza del mistero del matrimonio e lo difende da ogni riduzione e da ogni impoverimento” (da CEI, Direttorio di pastorale familiare, che cita a sua volta il Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1.620).

Mi propongo di commentare la relazione di reciproco aiuto che le due vocazioni sono chiamate a darsi, prima cogliendo l’occasione dell’Anno Internazionale della Famiglia e dopo esponendo delle riflessioni che mi sono state suggerite da persone incontrate.

 

 

1994: Anno Internazionale della Famiglia

Il 1994 è, come si sa, Anno Internazionale della Famiglia (AIF) per dichiarazione dell’Organizzazione mondiale delle Nazioni Unite che offre all’attenzione di ogni nazione il tema: “Famiglia: risorse e responsabilità in un mondo che cambia”. La prima questione da sollevare è di sapere se gli animatori vocazionali siano interessati dall’avvenimento. Penso che alcuni di loro non si sentano direttamente coinvolti e che in fondo pensino che questo Anno riguardi “l’altra” vocazione, quella matrimoniale, “ognuno faccia il suo mestiere!” Credo di poter portare argomenti per dire che chi è seriamente impegnato per le vocazioni religiose e sacerdotali è anche direttamente coinvolto dal tema famiglia. Dicendo “direttamente” voglio dire che il matrimonio e la verginità per il Regno, sono tra loro strettamente collegati, stanno insieme, se cade una cade anche l’altra, se si favorisce la crescita di una si favorisce la crescita dell’altra. È ciò che leggo nel brano del Direttorio citato in apertura.

L’AIF pone un problema che interessa da vicino gli animatori vocazionali, perché nel momento storico attuale, “in un mondo che cambia” – come dice il tema proposto dall’ONU – la famiglia si sta indebolendo, tanto è vero che l’ONU chiede di correre in suo soccorso riconoscendo che ha risorse proprie, che è risorsa essa stessa, e dicendo che va stimolata ad assumere responsabilità, in una parola chiede che le si ridia valore.

 

 

Interesse primario per l’animatore vocazionale

Il punto di contatto tra la pastorale vocazionale e quella familiare è qui: se la famiglia come istituzione e come luogo di umanizzazione originaria e insostituibile e perciò come luogo essenziale, anche se non unico, in cui fare esperienza di valori umani e cristiani, crollasse, verrebbero meno quegli sviluppi e maturazioni della persona che sono delle vere condizioni di scelta celibataria sacerdotale e religiosa. Il vangelo che dichiara con tanta forza la famiglia “relativa” al Regno, per questa ragione, come ben sappiamo, non intende diminuirla o negarla.

Per dare spessore esperienziale a questa affermazione che nel suo enunciato teorico è oggi quasi ovvia riferisco un piccolo episodio.

Nell’estate del 1975 il padre Renè Voillaume, fondatore dei piccoli fratelli di Gesù e del Vangelo, fu invitato da una associazione di spiritualità sacerdotale, a predicare un corso di esercizi spirituali per sacerdoti in Italia. I partecipanti, per lo più preti diocesani, parroci o viceparroci, provenienti da ogni parte del paese, furono numerosi. Al termine, il sacerdote che aveva la responsabilità dell’iniziativa, in conversazione fraterna con il predicatore, si sentì dire con una certa sorpresa: “questi preti beneficiano di una grande grazia: hanno avuto e hanno tuttora vicino una famiglia, una vera famiglia cristiana; è un vantaggio che molti preti di altri paesi europei non hanno più”. Quest’osservazione che solo uno straniero e una persona di molta esperienza poteva fare, la dice lunga sul rapporto famiglia e vocazione sacerdotale o religiosa; i pastori e i responsabili della pastorale vocazionale in Italia probabilmente non hanno ancora avvertito quanto pesante sia e soprattutto sarà l’effetto sulla vita delle comunità cristiane della crisi della famiglia, se anche in Italia dovesse precipitare. La famiglia dunque non è un problema di qualcuno, né soprattutto soltanto degli addetti ai lavori.

Per approfondire la riflessione e per toccare altri aspetti della relazione tra le due vocazioni rimanendo nel livello dell’esperienza, voglio riferire i contenuti di un’altra conversazione.

Mi sono rivolto di recente ad un giovane sacerdote – sei anni di viceparroco con i giovani e tre di studio in una università romana – per chiedergli di tenere una conversazione di contenuto biblico-teologico ad un nutrito gruppo di sposi giovani interessati ad approfondire lo stile di vita che è proprio della coppia che si orienta alla regolazione naturale della fertilità.

Presi gli accordi indispensabili sul suo intervento, la conversazione corre liberamente su molti e diversi argomenti, tra questi la sua esperienza di pastorale giovanile; ecco il brano della sua esposizione che ci interessa: “Ho sperimentato – dice, tante volte parlando con i giovani a tu per tu – quanto sia difficile oggi per loro optare per il sacerdozio. Diversi di loro, dopo aver fatto un cammino spirituale, sono arrivati a un passo dalla decisione e, pur godendo di un discernimento positivo, si sono fermati; la ragione è semplice: per loro la vita matrimoniale è ‘più facile’, e dice ‘libertà’, quella sacerdotale invece è ‘difficile’ ed è giudicata ‘molto più sottoposta a vincoli’”. Secondo la sua interpretazione i giovani isolano la vita matrimoniale da quella familiare che rimane quanto meno nell’ombra, e soprattutto la immaginano come una “non-vocazione”. Propriamente non rinunciano alla vita sacerdotale o religiosa, ma alla vocazione toutcourt. Forse rinunciano alla vita cristiana.

 

 

Un annuncio vocazionale a tutto campo

Questa esperienza, se fosse vera e se altri la dovessero confermare, mostrerebbe che la catechesi e la pastorale giovanile tacciono quasi sistematicamente sulla famiglia o, se ne parlano, non la considerano parte della vita cristiana. Detto in termini di cose che bisognerebbe fare, conduce a affermare che non si verrà a capo di nulla parlando di più e meglio ai ragazzi, ai giovani e alle ragazze delle vocazioni di speciale consacrazione, se, contemporaneamente, e forse prima, non si annuncia la vita matrimoniale e familiare come stato particolare di vita – analogamente a quello religioso – e di una vita secondo il vangelo. Per questo, infatti, la famiglia partecipa alla evangelizzazione, e, come si sa, prima che con azioni di specifico ministero, con il suo esistere.

La conversazione è proseguita mettendo più in luce un aspetto strettamente collegato, e cioè, la responsabilità degli adulti della comunità cristiana, degli sposi e dei preti. Sarebbe scorretto e anche un po’ ipocrita, infatti, addebitare quanto è stato detto soltanto ai giovani. “Fin quando – ha proseguito il mio interlocutore – il modo concreto di vivere, oltre che di pensare, degli ‘sposi nel Signore’ non si presenterà come rigorosamente evangelico e perciò anch’esso come vocazione – l’altra vocazione -, i giovani non saranno messi a contatto con modelli di vita, ma solo con modelli di parole”.

La responsabilità dei sacerdoti era già emersa precedentemente preparando l’intervento richiestogli e più esattamente parlando della castità matrimoniale: “Molto frequentemente a proposito del dibattito relativo alla morale coniugale, i sacerdoti citano il versetto n. 4 del capitolo 23 di Matteo (Legano infatti pesanti fardelli e li impongono sulle spalle della gente, ma loro non vogliono muoverli neppure con un dito) e lo applicano al rapporto prete-sposi. Questo linguaggio che pure non è privo di una verità immediata, dovrebbe essere sottoposto a critica più rigorosa. Quella citazione può infatti essere studiata come l’immagine che il sacerdote mostra di avere della vita matrimoniale e familiare; alla fin fine appare la seguente: ‘non è una vita evangelicamente esigente’, non è neppure una vocazione seria e – cosa ancor più sottile e sempre riemergente – non si pone al livello di quella del sacerdote e del religioso, in fondo è più bassa o inferiore!”

 

 

La diversità è a servizio della reciprocità

Evitando di riaprire vecchie dispute sulla inferiorità o superiorità di una vocazione rispetto l’altra che non è messa in questione da quanto detto, ma prendendo l’occasione per introdurre dei brevi commenti, il punto, secondo me, sta qui, nel chiedere ai sacerdoti e ai religiosi se essi credono che come regola – come regola vuol dire con la stessa frequenza statistica con cui si presenta il fenomeno tra i sacerdoti, i religiosi, i frati e le monache – i battezzati nella vocazione al matrimonio delle comunità cristiane, sono chiamati o no a vivere anch’essi il vangelo anche quando è esigente, sia pure nello stato di vita di coniugati e di genitori. La domanda si precisa ancora nel chiedere fino a che punto essi sono persuasi che gli sposi sono chiamati alla santità della vita – la vocazione alla santità è universale come sappiamo – attraverso e non nonostante il matrimonio e la famiglia.

Il mio confratello volle andare oltre, e mettendo in questione se stesso ha confessato un timore e un dubbio: “forse è il modo con cui io stesso vivo la mia vocazione – un modo ancora troppo compromissorio – a impedirmi di aiutare sia i giovani che sono chiamati al sacerdozio a decidersi per questo, sia gli sposi a optare per una vita coniugale e familiare in cui il matrimonio sia vissuto senza riduzioni e impoverimenti”.

Vorrei terminare con una riflessione più generale e un commento.

La pastorale familiare è entrata in scena di recente, anche per questo è ancora poco conosciuta; non bisogna ignorarla né soprattutto temerla, non vuole fagogitare le altre pastorali; lo dimostra la conclusione a cui siamo appena pervenuti: il sacerdote di cui gli sposi hanno bisogno non è quello che si dispone a compromessi, ma quello che, ricco di umanità e di comprensione, è ben identificato con la propria vocazione e la vive senza pentimenti anche se può incontrare delle difficoltà.

E ora il commento: secondo me la pastorale vocazionale – che come credo si cura di tutte le vocazioni – non ha ora più molto bisogno di approfondimenti teorici, quanto piuttosto di incontro personale ascolto e dialogo; il vissuto degli sposi cristiani, in particolare non deve essere “immaginato”, magari solo leggendo dei documenti o dei libri, ma conosciuto incontrandoli, ascoltandoli, accompagnandoli e condividendo con loro cammini di fede e vita. Se l’Anno Internazionale della Famiglia diventasse motivo e occasione per far succedere queste cose sarebbe benedetto.