N.02
Marzo/Aprile 1994

Catechesi vocazionale degli adolescenti in parrocchia

In una parrocchia ove da più di quarant’anni non sorge più alcuna vocazione sia al sacerdozio che alla vita di speciale consacrazione, si impone con particolare evidenza l’impegno di una pastorale vocazionale. Alla medesima conclusione si giunge, se si costata il progressivo ma inesorabile distacco dalla fede e dalla pratica religiosa proprio in coincidenza con l’età adolescenziale: si tratta in realtà di una specie di addormentamento o impigrimento spirituale. Non si rifiuta esplicitamente la fede; la si pone piuttosto, quasi insensibilmente, in uno stato di profonda ibernazione. In sostanza: non si arriva alla scelta di fede e quindi non si arriva alla scelta dello stato di vita, al consapevole orientamento della propria esistenza secondo la fede. Questa resta lì sospesa per aria e la poca pratica religiosa, che dovesse restare ancora in piedi, è trascinata via stancamente.

Per quanto mi è dato conoscere nella mia venticinquennale esperienza pastorale sacerdotale, questa mi sembra essere la situazione più difficile per una pastorale vocazionale, in particolare per una catechesi vocazionale. Prevalgono infatti, in maniera quasi ferrea, lo stile e la mentalità della non-scelta. Sta qui il punto cruciale, perché la vocazione viene percepita e decisa là ove all’accadere dell’iniziativa divina c’è una viva risposta umana, c’è una persona che intende scegliere e ha imparato a decidere. Ma là ove c’è una persona che vive in stato di narcosi spirituale, in forza del quale “si sente sempre, in qualsiasi momento, a posto con la propria coscienza”, ben difficilmente l’accadere dell’iniziativa divina incontra quella santa inquietudine, che caratterizza la persona in ricerca e quindi la persona, che potremmo definire “in stato vocazionale”.

In questa situazione la pastorale vocazionale richiede anzitutto uno sforzo di catechesi “ambientale”, cioè bisogna curare l’ambiente umano circostante (la famiglia, la comunità parrocchiale, l’oratorio, il gruppo) perché in esso tornino a farsi sentire i grandi interrogativi dell’esistenza: chi sono, da dove vengo e dove vado? Contemporaneamente si cerca di rifare (con forza e in maniera insistita, con parole e gesti, nelle più disparate occasioni e situazioni di vita personale e comunitaria) il primo annuncio della fede, praticamente negli stessi termini della predicazione evangelica e della prima predicazione apostolica, cioè riproponendo l’evento “Gesù di Nazaret”, mai disgiunto dall’evento “Chiesa”, perché caratteristica peculiare della situazione sopra descritta è la separazione netta tra Gesù e la Chiesa, ritenendo tranquillamente che si possa essere con Gesù senza aver a che fare con la sua Chiesa: è evidente che si blocca in radice ogni interrogativo e ogni discorso vocazionale.

Su questa base (peraltro da non dare mai ottimisticamente come scontata e quindi da richiamare incessantemente) si cerca di innestare dei cammini vocazionali più articolati, che hanno il loro punto di forza nella catechesi, la quale però deve tendere continuamente a coinvolgere e a mobilitare la persona in tutte le sue dimensioni e in tutti i suoi rapporti: cosa non facile per la situazione di inerzia dei destinatari. Così si cerca di dare regolarità agli incontri (anche questo è un traguardo di non facile realizzo!) e di tentare di creare un’attesa, nella speranza che, sia pure gradualmente, gli interrogativi e le tappe di ricerca siano scanditi, in qualche misura dagli stessi partecipanti: i tempi sono necessariamente lunghi e la direzione del cammino non molto prevedibile; ciò richiede una buona capacità di inventiva e di creativo adattamento: un cogliere cioè la palla al balzo, in continuazione. Il contenuto degli incontri è l’Evangelo, la persona e la storia di Gesù: la dimensione storica è molto importante e percepita, e anche inquietante, perché, oltre a rivelare una sorprendente attualità (che li coglie nella loro situazione concreta), li pone davanti a una persona con la quale intessere o rifiutare un rapporto personale diretto. In un certo senso sono “costretti” a stare nella situazione di scelta, sempre più privi di alibi che vengono inesorabilmente smantellati da loro stessi e perdono la loro funzione di comodo nascondiglio. I singoli incontri poi si devono saldare tra loro in modo che lascino trasparire un disegno completo e il più possibile armonico: la sensazione che non si procede a caso e al buio e che non ci si affida a una capricciosa, anche se momentaneamente appagante, estemporaneità favorisce il sorgere della convinzione che si tratta di una cosa seria, alla quale dare una risposta personale. All’interno degli incontri di catechesi è bene che i partecipanti “si guardino in volto”, si prendano reciprocamente in considerazione e si scoprano l’un l’altro, così che la presa di posizione di uno ponga l’altro o gli altri in stato d’interrogazione personale, quasi inavvertitamente ma anche impegnativamente. È infine da curare il fatto che il momento catechistico sia il più possibile (senza cadere nell’eccesso) “mobilitato e mobilitante”, con spazi di spiegazione, di lettura, di silenzio, di riflessione personale e a gruppi, di preghiera e di gesti personali e comunitari. Non che ogni incontro debba avere sempre e comunque tutti questi spazi; ma nell’economia generale della catechesi ci devono essere tutti, perché aiutano a cogliere le due domande permanenti e fondamentali per ogni scelta vocazionale: “E tu?”, “E voi?”.

Concludo queste note dicendo la cosa, che doveva essere detta per prima: si lasci agire liberamente la parola di Dio, si abbia piena fiducia in lei e si impari veramente ad attendere. È certo che non deluderà!