Matrimonio e verginità: vocazioni diverse e complementari
“L’essere umano non può vivere senza amore… Nell’umanità dell’uomo e della donna è iscritta la capacità e la responsabilità dell’amore e della comunione. L’amore è pertanto la fondamentale e nativa vocazione di ogni essere umano. L’essere umano si realizza in pienezza nel sincero dono di sé”.
A più riprese ed in molti modi il Concilio, il magistero del papa e dei vescovi, i vari catechismi della chiesa cattolica, ribadiscono che la vocazione fondamentale di ogni essere umano è l’amore.
A ricordarcelo è la liturgia: la prima lettera di Giovanni, lettera d’amore sull’Amore, ha accompagnato con le sue parole stupende tutto il tempo di Natale appena trascorso.
A ricordarcelo è la Bibbia al cui centro (più o meno) è posto a mo’ di sintesi, il Cantico dei cantici, il libro più corto della Bibbia ebraica (117 versi) ma certamente uno dei più densi: esso è insieme epopea, canto di nozze e libro di rivelazioni ultime.
La liturgia cattolica trascura questo canto d’amore (forse per adeguarsi ad un linguaggio “medio” che tende a eliminare tutto ciò che suona eccessivo, ed eccessiva è per la nostra sensibilità la carnalità del linguaggio che permea questo canto?).
Eppure, dice A. Chouraqui (noto commentatore ebreo del Cantico e ricercatore di dialogo) ricordando la sua infanzia “tutti cantavano questo poema d’amore, senza mai un’allusione piccante, senza tuttavia censurarlo o espungerlo. Trasparendo esso stesso, veniva accolto nella trasparenza di cuori puri, veniva capito riferendosi alla Bibbia, all’amore di Dio per la creazione, per il suo popolo, per ogni creatura”.
Il Cantico, con il suo linguaggio poetico, assoluto, carnale, sta a ricordarci che la nostra nativa vocazione è tutta racchiusa nel dialogo d’amore con l’altro/a, nella contemplazione della sua “bella” diversità, della sua fisicità sconvolgente, totalmente diversa dalla nostra.
La carnalità del linguaggio del Cantico è già tutta intrisa di resurrezione (“Ci si guardi bene – dice Ibn Ezra nel commento al Cantico – dal pensare che il Cantico sia una composizione erotica! No: esso è scritto a modo di allegoria. Che se la sua interpretazione non fosse sublime non sarebbe stato annoverato tra i libri santi”).
La Cabala fa costantemente ricorso ai temi del Cantico. Dice lo “Zohar”: “Questo cantico comprende tutta la Torah, comprende tutta l’opera della creazione; comprende il mistero dei padri e l’uscita d’Israele dall’Egitto e il canto del mare;… comprende la resurrezione dei morti fino al giorno che è sabato del Signore”. Il Cantico va letto, per essere compreso, nei suoi riferimenti alla lettura ebraica a cui appartiene e in particolare alla teologia dell’alleanza, con tanta forza proclamata dai profeti.
Il Cantico sta lì al centro della Bibbia a rivelare la gioia degli ultimi tempi, a ricordare a tutto il popolo di Dio, sposi e vergini, che il dialogo d’amore (tra Dio e il suo popolo-umanità, tra Dio e l’essere umano, tra l’uomo e la donna) in tutti i suoi risvolti sublimati e non, è essenziale per tutte le creature, è chiamata rivolta a tutti.
Diverso è il grado d’intimità della relazione d’amore, diversi e tutti necessari i piani su cui si svolge la relazione d’amore – religioso, sociale, personale – ma stessa è la sostanza del dialogo: l’Amore.
Il Vangelo illumina le parole del Cantico indicandoci la metodologia del dialogo d’amore. Purezza di cuore, mitezza, giustizia e misericordia, pacificazione attraverso il pianto e la consolazione (Mt. 5) hanno da intessere e permeare ogni relazione d’amore: l’essere popolo di Dio, l’unione intima degli sposi, la parentela e cioè l’essere figli e/o genitori; il servizio umile a ogni persona.
Nel dialogo d’amore non scompare la differenza, anzi essa è esaltata dalla contemplazione e dall’accoglienza ma non ha parte nel dialogo d’amore l’affermazione gerarchica del primato, bensì solo la pura contemplazione dell’altro/a, del suo “esserci” per me, la sottomissione reciproca e umile del servizio d’amore.
È di questa sequela amorosa e totale che Gesù parla quando invita a seguirlo senza voltarsi indietro, lasciando che i morti seppelliscano i morti, senza aver luogo (o persona) cui appoggiare il capo.
È bene acquisire uno sguardo di sintesi “sulla nativa vocazione di ogni essere umano” per avviarci all’analisi del diverso specificarsi dell’amore nel matrimonio e nel celibato. Occorre altresì educare il nostro sguardo alla castità, come scienza e sapienza del cuore, perché è essa che ci insegna a guardare e “conoscere” l’altro/a.
La castità annulla in radice quella “cultura del sospetto” che ci fa guardare al prossimo come nemico, la castità rende lo sguardo limpido e acuto e fa dell’altro, sia sposo/a, sia amico, sia membro del popolo di Dio, sia figlio, non più un “oscuro oggetto di desiderio” ma un compagno di vita, in gradi diversi di intimità, amato, compreso, contemplato, accolto nella sua totale diversità – alterità.
Il matrimonio e la verginità sono i due modi, diversi ma complementari, attraverso i quali è dato a uomini e donne di vivere la propria vocazione cristiana, cioè di rendere una risposta d’amore al Dio che ci ha amati per primo, facendo risplendere con la loro vita quello che essi hanno accolto del comportamento di Dio nei loro confronti.
In tal senso sia il matrimonio che la verginità, se assumono come modello e riferimento la qualità di amore manifestata dal Padre in Gesù Cristo, sono entrambi vie attraverso cui uomini e donne tendono ad essere immagine di Dio ed a rinnovare il legame sponsale tra Dio e il suo popolo.
All’interno di un’unica tensione per il Regno e di uno specchiarsi nella comune icona che è Gesù sposo e vergine, esiste una peculiarità, un dono specifico di ciascuna delle due vocazioni, in modo proprio di declinare le diverse dimensioni, i diversi registri dell’amore, così come li elenca S. Paolo al capitolo 13 della prima lettera ai Corinti: sia agli sposi che al vergine è chiesto di vivere un amore paziente, benigno, disinteressato, capace di perdono, generoso…
Così come c’è un modo degli sposi ed uno dei vergini (caratterizzati dalla diversa condizione di vita), di essere fecondi, fedeli, di vivere la propria sessualità, di testimoniare la tensione all’unità tra diversi.
Si potrebbe dire che ciò che distingue una vocazione dall’altra corrisponde al suo dono particolare, al suo carisma, ma rappresenta al tempo stesso il rischio del suo tradimento.
Così la verginità per il Regno è segno di una radicalità di discepolato, di un’immediatezza di rapporti con il Dio vivente non distratta da legami umani esclusivi, di una disponibilità a spendersi per il Vangelo accanto e per tutti gli uomini. In tal senso con essa gli sposi non possono non confrontarsi.
Allo stesso modo il matrimonio per i vergini è specchio attraverso il quale prendere coscienza del fatto che il rapporto immediato con Dio è poi sempre mediato attraverso persone concrete, in carne ed ossa, come in primo luogo (ma non solo) il coniuge per uno sposo (“chi non ama il proprio fratello che vede non può amare Dio che non vede”).
Così la verginità esprime senza dubbio una carica profetica, anticipando quella che sarà la nostra condizione di risorti, ma ciò avviene attraverso la rinuncia a vivere la sessualità genitale, cioè quella forma di unità tra diversi (“una sola carne”) che, se illuminata dall’amore, fa della coppia l’immagine di Dio.
Analogamente si potrebbero enumerare i rischi, simmetrici, che le due vocazioni corrono e che corrispondono in definitiva alla estremizzazione delle rispettive peculiarità positive: così per i vergini (ma non solo per loro) è in agguato l’avarizia di vita e la sterilità di rapporti umani e per gli sposi l’assolutizzazione dei rapporti intrafamiliari.
Da quanto si è fin qui detto deriva l’assoluta necessità che vergini e sposi, resi consapevoli e coscienti della grande responsabilità dello specifico dono ricevuto, si impegnino a testimoniarlo fedelmente in un rapporto di dialogo e di ascolto, in modo che ne derivi un reciproco arricchimento[1].
Ciò richiede luoghi ed occasioni (in verità oggi assai rari) di scambio e di condivisione fraterna, al di là di ogni distinzione gerarchica, ma esige a monte un discernimento e, quindi, un’educazione vocazionale.
Note
[1] Icona biblica di questo dialogo fra il carisma sponsale e il ministero magisteriale è la testimonianza riferitaci da Luca negli Atti degli Apostoli al capitolo I. Si tratta di Aquila e Priscilla che dopo aver ascoltato il biblista Apollo, lo presero con loro e gli esposero con più accuratezza la via del Signore (18,25).