Cappellania ospedaliera: esperienza di servizio di un diacono permanente
Mi chiamo Filippo, sono diacono permanente, sono sposato e ho tre figli e cinque nipoti. Sono entrato in servizio nella cappellania nell’Ospedale di Cisanello di Pisa fin dal giorno della sua istituzione il 1/7/1989. Fino ad allora l’assistenza spirituale ai malati era stata assicurata da due frati cappuccini chiamati dopo 17 anni ad altro incarico. L’Arcivescovo Mons. Plotti, decise di fronteggiare questa emergenza istituendo la cappellania con un sacerdote; provvisoriamente il Vicario per la Pastorale Sanitaria, Mons. Beconcini e due aspiranti diaconi, Renzo Vannucci e il sottoscritto, più due religiose dell’Ordine dell’Addolorata e due volontari laici.
Quando Renzo ed io, il 23/5/1990 fummo ordinati diaconi avevamo già un anno di esperienza ospedaliera sulle spalle. Un’esperienza non difficilissima ma certo impegnativa, laboriosa e coinvolgente. Circa 400 malati da visitare ogni giorno proprio per garantire la presenza continuata, assidua, quotidiana della cappellania in tutte le corsie d’ospedale.
Il problema di creare una nuova familiarità con medici e frati cappuccini (Padre Raffaele e Padre Amedeo) e perciò diffidenti e restii ad accettare facce nuove. Poi la tensione, per lo meno iniziale, di indovinare un tipo di approccio con il malato, il più efficace, il più adatto e il più evangelico possibile. Infine le nostre reazioni di fronte al dolore e alla sofferenza soprattutto nei casi più drammatici di giovani o di bambini condannati.
Problemi e difficoltà mai completamente superati ma smussati, addolciti dall’esperienza di cinque anni di militanza quasi giornaliera. Secondo l’impostazione data fin dall’inizio da Monsignor Beconcini noi limitiamo la distribuzione della S. Comunione nei reparti ai malati infermi alla domenica mattina e agli altri giorni festivi, salvo ovviamente richieste specifiche e casi di emergenza.
Questa impostazione è stata decisa allo scopo di evitare ai malati non praticanti, ai malati non credenti e comunque “lontani”, l’impressione di sentirsi esclusi dal nostro interesse e dalla nostra sollecitudine.
Nei giorni feriali la nostra azione e la nostra presenza è intesa a portare la solidarietà, l’incoraggiamento e l’amore della Chiesa verso tutti quelli che sono nella sofferenza e nel dolore. In questo modo la distribuzione del Santissimo in un giorno particolare sottolinea l’importanza e la santità per noi del giorno del Signore e con il commento alla lettura del giorno può costituire momento kerigmatico per i lontani.
Per i malati in grado di muoversi, ogni giorno in una delle tre cappelle dell’ospedale viene comunque celebrata la Messa dal nostro sacerdote. Per un diacono, figura ancora semisconosciuta alla maggioranza dei fedeli e non fedeli, esiste poi la difficoltà supplementare di convincere della sua legittima appartenenza alla Chiesa il malato diffidente. Quello che tradisce noi diaconi permanenti in corsia – il clergy o il camice bianco con stola – è la fede nuziale. Questo dettaglio non sfugge ai malati più osservatori e in particolare alla categoria dei cattolici-tradizionalisti-che-non-frequentano-la-Chiesa-da-anni.
Quando si instaura un rapporto di confidenza con il malato, succede poi spesso che questo ci chieda o la confessione o il sacramento dell’unzione. Quello è il momento indifferibile per qualificarsi. Momento sempre paventato per le lunghe spiegazioni che comporta e per l’inevitabile, futile discussione che segue sul celibato dei preti. D’altronde finché non verrà istituita un’uniforme per il diacono ospedaliero, questo rischierà sempre di essere scambiato per un pastore protestante o per un frate sposato!
Quanto poco sia diffuso tra i fedeli il nome e il concetto di diacono lo esemplifica la reazione di una malata, una signora abbastanza colta che al mio dichiararmi diacono della diocesi di Pisa mi disse “Strano, lei non mi sembra tanto vecchio”. Mi aveva preso per il “decano” della Diocesi!
La cappellania ospedaliera è un osservatorio privilegiato dello stato delle nostre strutture sanitarie e, cosa per noi più importante, dello stato dei rapporti della nostra popolazione con la Chiesa. Vivendo a contatto quotidiano con i medici e infermieri, osserviamo e registriamo quello che succede accanto a noi, testimoni muti ma non ciechi, riservati ma non indifferenti. Come in ogni settore dei nostri servizi pubblici, la realtà è molto composita e difforme. Ci sono medici solleciti, umani, disponibili ed efficienti e ci sono medici che lo sono meno, ci sono infermieri infaticabili, sempre sorridenti, sempre premurosi con i malati e ci sono i mercenari, ci sono reparti che funzionano come un orologio e reparti a scartamento ridotto. Ci sono reparti in cui siamo accettati con simpatia e cortesia e reparti nei quali siamo tollerati. Dovunque però, mi sento di affermare, la nostra presenza è un fatto accettato, scontato e la nostra libertà di movimento, in qualsiasi ora, è assoluta.
Per quanto riguarda quello che a noi più preme, l’universo ospedaliero è specchio fedele della nostra società: una società desacralizzata, scristianizzata, indifferente, pagana con tante luminose eccezioni, s’intende.
Quello che più dolorosamente sorprende è costatare quanto gli anziani si siano allontanati dalla Chiesa. Non un rosario, non un libro di preghiere nelle mani di questi anziani. In tanti anni di ospedale mi è capitato solo una volta di vedere un malato leggere la Bibbia: era un testimone di Geova.
Naturalmente bisogna anche tener conto che il mondo toscano è molto politicizzato in senso anticlericale e quindi va messa in bilancio una palpabile ostilità alla nostra presenza. Un sacerdote polacco che visitò un giorno i nostri reparti rimase colpito dalla freddezza con la quale era stato accolto dai malati: abituato alla sua Polonia, l’inevitabile confronto lo aveva scosso.
Ma non sono gli avversari dichiarati, gli avversari politici il vero problema. Essi ti respingono in nome della loro ideologia, della loro religione politica con fermezza, ma con rispetto. Il vero problema è la massa di battezzati tiepidi, indifferenti, pagani di ritorno, adoratori di Mammona che professandosi ancora cristiani giustificano il loro abbandono della Chiesa con logore frasi fatte o con pretesi scandali che cattolici osservanti o sacerdoti avrebbero inflitto alla loro delicata sensibilità. Contadini, operai, borghesi, tutti accomunati nel rifiuto del Dio e della tradizione religiosa dei loro padri in nome di una squallida, triste pigrizia spirituale, in nome di una amoralità aperta a tutti i compromessi, a tutti i patteggiamenti con la propria coscienza.
Poi la superstizione, surrogato forte di ogni religiosità per cui anziane contadine rifiutano di pregare o di essere benedette “perché in ospedale porta male”. Così il terrore, il panico di alcuni malati al nostro avvicinarsi, segno per loro inequivocabile di morte in arrivo. Così il rifiuto generalizzato del Sacramento dell’Unzione ormai bollato come rito iettatorio che la siepe di parenti accetta solo ad agonia avanzata o a morte avvenuta.
C’è poi la categoria degli “offesi” con il Signore. Una categoria di poveretti perseguitati senza interruzione dal male che non perdonano al Signore le disgrazie subite. Per questi infelici, la nostra presenza, indegni rappresentanti dell’Altissimo, è occasione di sfogo liberatorio quanto amaro. Il nostro compito è quello di ricevere, in assoluto silenzio, le giuste rimostranze del malato e di riferirle in alto loco senza cambiare una virgola.
Eppure la nostra esperienza ci insegna che lo strato di ghiaccio non è spesso e che basta un gesto, una parola, a volte la sola nostra presenza per consentire allo spirito del Signore d’irrompere nei cuori più refrattari, più appassiti, più scoraggiati e accendere un bisogno forte e improvviso dell’abbraccio di Gesù liberatore.
Questo è tanto più vero quanto più profonda è la disperazione, quanto più è sfiorita ogni illusione umana e quando cade l’ultima maschera che copriva gli occhi pieni di pianto. Proprio oggi, il gesto di un ragazzo in agonia che nel vedermi ha abbozzato con le sue ultime forze il segno della croce, mi ha rivelato con violenza che questa nostra generazione così smarrita, così suicida ha una sete immensa di Cristo.
A volte mi domando se veramente servono le nostre visite agli ammalati e se ha un senso insistere a imporre la nostra presenza laddove solo una sparuta minoranza ci accoglie. La risposta è si. Non per le nostre parole di circostanza o i nostri balbettii di generico incoraggiamento né per i nostri tentativi a volte infruttuosi di distrarre i malati dalla loro angoscia o di provocarne un sorriso. Quello che importa è che nei luoghi di sofferenza la Chiesa porti sempre e ovunque il Cristo, perché il dolore umano sia santificato e la croce dei malati sia glorificata.
Un ospedale in cui nessuno si faccia carico di portare la luce di Cristo è un luogo di dolore cupo e disperato: un mattatoio. Un ospedale dove si fa memoriale del Risorto è luogo sacro, vivificato dalla speranza.