Il malato in famiglia: una vocazione di apertura e di servizio
La presenza del malato in famiglia è un evento che ne sconvolge la dinamica, non solo per gli aspetti esteriori e pratico-organizzativi che comporta, ma soprattutto per gli inevitabili interrogativi che pone sul piano della vita e della fede. Quasi sempre si entra nella sofferenza con una protesta tipicamente umana e con la domanda del suo “perché”[1]: perché a me? Di chi è la colpa? “Chi ha peccato? Lui o i suoi antenati?”. Sono interrogativi che ricorrono ancora con molta frequenza, nelle famiglie “provate” e non solo in chi non è credente!
Malattia come prova
“È così perché si manifestino le grandi opere di Dio”. È una risposta ancora poco interiorizzata quella che il Vangelo suggerisce per interpretare le situazioni di malattia e di sofferenza che affliggono tante famiglie.
La situazione di malattia può essere il terreno privilegiato della tentazione, il luogo del facile cedimento, della manifestazione del male… [2]. Chi soffre è facilmente soggetto a sentimenti di timore, di dipendenza e di scoraggiamento. “A causa della malattia e della sofferenza sono messe a dura prova, non solo la fiducia nella vita, ma anche la stessa fede in Dio e nel Suo amore di Padre. La sofferenza è sempre una prova – a volte una prova alquanto dura – alla quale viene sottoposta l’umanità”[3]. Il malato è particolarmente bisognoso di calore umano, di comprensione, di solidarietà, di benevolenza, di quelle virtù che sono tipicamente familiari, perché gratuite e provenienti dal cuore. Quanto più grande è la consapevolezza della situazione di malattia e di dipendenza, tanto più grande può essere la tentazione dello scoraggiamento, la fragilità nel sostenere situazioni difficili o semplicemente problematiche e tanto più grande diventa il bisogno d’attenzione privilegiata per ritrovarsi e riconoscersi nella propria dignità di persona e nei propri valori. Allo stesso tempo, quanto più grave, stabile o irreversibile diventa la situazione problematica, tanto più rischia di offuscarsi nella persona malata o portatrice di handicap la consapevolezza di essere anche portatrice e annunciatrice di valori, al di là della situazione-problema, e tanto più, col logorio del quotidiano, aumentando la fatica e riducendosi progressivamente le speranze di miglioramenti o soluzioni, la famiglia può essere indotta a percepire e vivere negativamente la propria inadeguatezza rispetto alla situazione e a delegare a chi è “specializzato” nel campo la cura e la ricerca di soluzioni.
Malattia come grazia?
Se è vero che la malattia e la sofferenza sono dure prove, è altrettanto vero che, paradossalmente, sono luogo privilegiato di manifestazione e di riscoperta della propria personale chiamata e del proprio mandato.
“Anche i malati sono mandati (dal Signore) come operai nella Sua vigna. Il cristiano, infatti, attraverso la viva partecipazione al mistero pasquale di Cristo, può trasformare la sua condizione di sofferente in un momento di grazia per sé e per gli altri, trovando nel dolore e nella malattia ‘una vocazione ad amare di più, una chiamata a partecipare all’infinito amore di Dio per l’umanità’”[4].
Cristo ha svelato fino in fondo il senso della sofferenza insegnando allo stesso tempo all’uomo a fare del bene con la sofferenza e a far del bene a chi soffre[5].
“Soffrire significa diventare particolarmente suscettibile, particolarmente aperti all’opera delle forze salvifiche di Dio offerte all’umanità in Cristo. Nella sofferenza è come contenuta una particolare chiamata alla virtù, che l’uomo deve esercitare da parte sua[6], a un’interiore maturità e grandezza spirituale, commovente lezione per gli uomini sani e normali”[7].
Tutto è grazia, quel che il Signore concede o permette – di bene o di sofferenza – in una visione di fede autentica. Se questa è esclusivo dono di Dio, non siamo tuttavia esonerati dallo sforzo di chiederla e di trafficare tutto quanto è in nostro potere per ottenerla.
A quali condizioni la sofferenza e la malattia, temute e tenute lontano, o al più semplicemente accettate, anche dagli stessi credenti, possono diventare luogo di manifestazione privilegiata della presenza di Dio che chiama e manda?
Un Mistero da penetrare
La sofferenza, al di là dei tentativi più o meno efficaci di definirla, è un’esperienza che conosce solo chi la vive, è un Mistero che insieme nasconde e rivela, che richiede rispetto e venerazione…
La sofferenza è un valore speciale dinanzi al quale la Chiesa si inchina con venerazione, in tutta la profondità della sua fede nella redenzione[8]. È la partecipazione all’infinito tesoro della redenzione del mondo[9].
La fede insegna a riconoscere la persona malata “icona di Dio”, essere umano nella pienezza della sua dignità e dei suoi diritti, degno di ogni rispetto e considerazione[10].
In questa visione il malato è vissuto come soggetto attivo, responsabile di tutto quel che lo riguarda, nel diritto di ricevere il meglio di risorse per esprimere in pienezza il mistero che si consuma nella sua esistenza. Ha diritto al primo posto nella famiglia, luogo insostituibile di crescita e di vita, nella Chiesa, nella Società.
Spesso la sofferenza, soprattutto quando si tratta di sofferenza innocente, è realtà indicibile, è esperienza che si dilata da chi la vive nella propria carne, alla sua famiglia, a chi si prende cura di lui, a chi gli vuole bene e ne vuole condividere in qualsiasi modo la sorte. Per questo non solo il malato deve essere oggetto di attenzione pastorale privilegiata, ma anche e spesso soprattutto, la sua famiglia.
Fonte di solidarietà
La serenità, la pace, la benevolenza, l’accoglienza in positivo della situazione del malato nel suo contesto familiare e sociale possono ridurre sensibilmente la situazione negativa e indurre stimolo alla ricerca del positivo, delle “pepite nascoste” nel magma appesantito e reso informe dall’indifferenza o dalla ricerca del solo interesse o del solo ciò che appare.
Quali le condizioni perché la famiglia di un malato o handicappato possa vivere la propria situazione con dignità, come chiamata speciale, trovando le risorse ottimali per non solo accettarla, ma abbracciarla e valorizzarla, soprattutto in una società dove i valori dell’efficientismo e della forza prevalgono e dove la mentalità corrente tende ad accentuare il disvalore della persona affetta da qualche segno di inefficienza, o a delegare alla scienza, comunque a strutture appositamente deputate quanto è esclusivo compito proprio?
L’apertura della fede
Solo nella fede è possibile individuare la strada da percorrere, trovare i mezzi per penetrare il mistero, capirlo e viverlo nel suo significato più vero e per coniugare queste verità in concrete azioni di aiuto.
La fede dà al credente la certezza che nulla succede a caso e la grazia per vivere questa certezza. La famiglia che riesce a riconoscere nell’evento che segna la sua storia, al di là delle cause che l’hanno determinato, una Parola viva, da accogliere e declinare in dono, ha trovato la chiave di soluzione per il suo problema. Penetrare il mistero è capirlo nella ricchezza della sua potenzialità e scoprire la personale, particolare chiamata: quella del malato, a partecipare direttamente all’opera della redenzione, vivendo in comunione con Cristo il senso di un’esperienza umanamente inaccettabile; quella della sua famiglia, chiamata a riscoprire i valori più veri che la sostengono e a viverli nella semplicità del quotidiano col viatico della grazia; quella dei volontari, degli operatori sanitari, pastorali a farsi dono, a trafficare al meglio le risorse ricevute in deposito dal Signore per essere ridonate e moltiplicate in servizio gratuito che arricchisce la stessa persona che dona!
Dare il nome di Croce alla sofferenza è compito primario cui non può sottrarsi chiunque intenda annunciare ai fratelli il Vangelo; è l’azione più meritevole ed efficace che ogni cristiano è chiamato a fare[11]. Questo non può improvvisarsi, ma è frutto di una vita di fede delle singole persone, della famiglia, della comunità ecclesiale. Una fede mai satura, perché implica un continuo crescere nella scoperta della personale chiamata, un continuo darsi in impegno di testimonianza di carità concreta e di servizio.
La malattia come chiamata
In quanto operatori di pastorale non possiamo esimerci dalla chiamata, difficile, ma altrettanto efficace, a far scoprire il senso della malattia a chi consuma nella propria carne questa esperienza, e a chi ne è in qualche modo coinvolto: familiare, volontario, operatore… casuale interlocutore. Tutti sono nel diritto di non essere lasciati testimoni muti di questa vicenda, ma di essere resi attori responsabili dal Piano grandioso di salvezza che si va realizzando. A noi la responsabilità di questo coinvolgimento: con la testimonianza viva della nostra fede nel Cristo che rivive la Sua storia di morte e resurrezione, oggi, qui, in queste situazioni, con l’invito esplicito a far riscoprire la personale chiamata di ciascuno in questa storia, con l’attivazione di tutte le risorse personali e comunitarie perché intorno alla malattia e alla famiglia che la vive si creino quelle correnti di solidarietà, di benevolenza, di aiuto concreto, di Vangelo vissuto, che sono le condizioni indispensabili perché il messaggio della Croce trovi accoglienza e susciti risposte generose. A noi di “svelare all’uomo e fargli nota la sua altissima vocazione”[12].
I frutti
Là dove queste attenzioni si esprimono non mancano frutti: la serenità e la positiva partecipazione alla croce da parte del malato, che può arrivare all’offerta spontanea per il bene non solo di chi lo ama, ma anche dell’operatore di male, bisognoso di conversione; da parte della famiglia, che non solo riscopre le radici della propria vocazione all’Amore, ma arriva talvolta ad aprirsi a nuove e più ardite forme di accoglienza di altre sofferenze; dei singoli membri della stessa, che nell’esperienza diretta di accostamento alla malattia, superano contrasti e difficoltà, riscoprono i valori portanti dell’esistenza e spesso ritrovano la chiamata inconsapevole a consumare la propria vita nel dono, attraverso forme di solidarietà e di impegno che vanno al di là della propria cerchia familiare; dei volontari che non solo ritrovano spazio e luogo di espressione delle proprie potenzialità spesso inconsapevoli, ma insieme le migliori opportunità per orientare professionalmente e vocazionalmente la propria esistenza.
Note
[1] Salvifici doloris, 26.
[2] Consulta nazionale della CEI per la pastorale della sanità, La pastorale della salute nella Chiesa italiana, n. 27.
[3] Salvifici doloris, 23.
[4] Salvifici doloris, 26, cfr. O.R. del 24.5.1987, p. 4.
[5] Salvifici doloris, 30.
[6] Salvifici doloris, 23.
[7] Salvifici doloris, 26.
[8] Salvifici doloris, 24.
[9] Salvifici doloris, 27.
[10] G. Mojoli, La Parola della Croce pag. 64.
[11] Consulta nazionale della CEI per la pastorale della sanità, La pastorale della salute nella Chiesa italiana, n. 28.
[12] Salvifici doloris, 31.