N.03
Maggio/Giugno 1994

L’apporto dei malati alla pastorale vocazionale

A prima vista, con un giudizio superficiale e preconcetto, si potrebbe meravigliarsi di questo legame tra pastorale della sofferenza e pastorale vocazionale. Forse, i Centri Vocazioni delle nostre Diocesi non hanno mai considerato che questo legame potrebbe, invece, aprire nuove e inedite prospettive per l’inserimento della pastorale vocazionale nella pastorale ordinaria, come da tempo andiamo auspicando tutti, collocando la tensione apostolica delle nostre Chiese locali in un contesto di maggiore concretezza e di più articolata efficacia.

 

 

La profezia della sofferenza

Per capire quale legame può nascere tra sofferenza e vocazionalità della vita, occorre sviluppare una riflessione sui caratteri positivi della sofferenza e della debolezza, nella categoria della povertà evangelica. La trans-mutazione del senso della sofferenza è uno dei paradossi del cristianesimo ed è uno dei carismi più preziosi da valorizzare nella chiesa.

Mentre da una parte la sofferenza è prodotta, per molti aspetti, dalla società dell’opulenza e dell’efficienza, come limite, sconfitta e peso e simbolo negativo dell’estraneità e dell’indifferenza, dall’altra è destinata a promuovere un più grande amore, in unione con Colui che è venuto a riempirla della sua presenza, a condividerla, a trasfigurarla, mostrandoci con quale spirito si deve assumere, per conformarci a Lui.

La sofferenza di Cristo trasfigura la sofferenza del malato e si pone come discriminante tra povertà umana e povertà evangelica. E il malato così sta in mezzo ai sani come un testimone di Dio. Alla maniera dei profeti proclama che è nello sradicamento da se stesso e dalla terra che l’uomo può cogliere la vera e più genuina “chiamata” all’eternità.

In questa società del consumo e dello spreco, dell’autosufficienza e della negazione dei valori spirituali e morali, per molti Dio esiste solo nei casi urgenti, nella speranza di non averne bisogno, come la maschera ad ossigeno e le cinture di sicurezza di cui ci viene spiegato il funzionamento all’inizio di un volo. Teoricamente sappiamo bene che la felicità è Dio, ma finché abbiamo la fortuna di trovarla altrove, ce ne dimentichiamo. Il malato è là per ricordarci che le nostre piccole felicità di quaggiù sono effimere, che siamo tutti segnati da un’insufficienza che finiremo bene per scoprire.

Il sofferente è là per aiutarci a trovare o ritrovare lo stato d’animo che dovrebbe essere nostro in ogni tempo, cioè che la terra e il denaro non sono il nostro Dio, che il nostro vero tesoro è Cristo.

È a questo proposito che conviene parlare del formidabile e potente profetismo che esercitano i malati. La loro presenza fra noi è la più eloquente e la più terribile Parola di Dio rivolta agli uomini per far loro capire che la terra è una casa provvisoria; per ricordare loro che sono il cammino verso la terra promessa, che è il vero riposo e la vera gioia.

Sono loro, i sofferenti, che sono nella verità, quando si rimettono totalmente a Dio, quando riconoscono in Lui solo la vera vita. Impotenti, possiedono nella speranza la potenza di Dio. Beati coloro che soffrono!

Bloy diceva: “L’uomo ha delle zone del suo cuore che non esistono ancora e dove il dolore entra perché esistano”. E la negra del Requiem per una monaca osservava: “Egli non ci può impedire di volere il male. Ma per compensare un poco, ha inventato la sofferenza che è la vera luce di questo povero mondo”.

Resta fermo, però, che la sofferenza è un male: è un male di per sé detestabile nell’ordine naturale. Essa può impedire l’uso della ragione, annebbiare persino la preghiera, trasformare il carattere. Rimane dunque un male contro cui lottare. Si deve tentare di diminuirla per quanto è possibile. Come non approvare lo sforzo immenso dell’uomo che si difende contro la malattia, la miseria, la sofferenza fisica?

Sarebbe un falso moralismo pseudo-cristiano predicare la rassegnazione alla sofferenza, così come un tempo si predicava la rassegnazione alla miseria. Ma anche nell’ordine soprannaturale la sofferenza è pur sempre un male; ma un male di cui Dio si serve per il nostro bene e del quale soltanto Lui può servirsi con tanta sicurezza. Perciò, quando essa giunge, bisogna benedirla, perché, nelle mani di Dio, quel male può diventare un bene.

Emanuel Mounier, nel momento in cui apprendeva che il suo primo bambino, in seguito ad un’encefalite, sarebbe rimasto per sempre immerso in una misteriosa notte dello spirito, scriveva: “No, non è possibile che sia per caso, per incidente… Qualcuno è arrivato, era grande e non è una disgrazia… Non c’era che da fare silenzio davanti a questo giovane mistero che a poco a poco ci ha invaso di gioia. Mi sentivo avvicinare a questo lettino senza voce, come ad un altare di qualche luogo sacro dove Dio parlava attraverso segni… Non ho mai sperimentato così intensamente lo spirito di preghiera come quando la mia mano diceva alcune cose a quella fronte che non rispondeva nulla, come quando i miei occhi mischiavano uno sguardo distratto che portava lontano, lontano dietro le mie spalle. Mistero che non può essere che bontà: una grazia, un’ostia vivente in mezzo a noi, muta come un’ostia, risplendente come un’ostia. Niente assomiglia di più a Cristo che l’innocente che soffre”[1].

 

 

La maturazione vocazionale della comunità cristiana

La profezia della sofferenza, vista e vissuta dentro questa prospettiva della Beatitudine evangelica, può e deve diventare elemento portante e insostituibile della maturazione vocazionale della comunità cristiana. Si tratta di accogliere dentro il cammino vocazionale della chiesa locale quest’energia spirituale, tra le più dense del corpo mistico, conducendo tutti i membri soprattutto più giovani, a condividerne dal di dentro le tensioni e le motivazioni.

Se le nostre Parrocchie potessero sempre più vivere e irradiare questa profezia della povertà e della debolezza umana e al contempo della potenza e della gioia evangelica, il nostro impegno per una pastorale vocazionale si aprirebbe a nuovi e affascinanti spazi di integrazione e di sviluppo, perché si andrebbe a collocare nel cuore stesso del mistero di comunione e di redenzione che Cristo proclama con la sua morte e resurrezione.

I nostri ammalati, handicappati, anziani, che purtroppo stanno aumentando, aiutati a vivere la loro “vocazione” di particolare ricchezza evangelica a servizio della comunità cristiana, diventerebbero richiamo e provocazione per i sani a costruire un clima e un atteggiamento di reciproco ascolto e di complementare aiuto per “concordare” un’azione pastorale più convinta e più efficace, al fine di far emergere, in tutta la sua ricca spiritualità, l’esperienza cristiana come una fondamentale vocazione alla santità e al servizio della fede.

Sarebbe terribile se la nostra azione pastorale vocazionale lasciasse i deboli, i poveri e gli handicappati sempre nella categoria degli sconfitti e dei dimenticati, perché la loro offerta di sofferenza e di dolore non manifesta apertamente la valenza “vocazionale” del loro esistere.

Una pastorale vocazionale, nella logica evangelica della povertà, deve aiutare e stimolare i giovani a impegnarsi affinché ogni malato, anche il più sfortunato, possa essere se stesso e costruirsi, anche nella sofferenza e nella malattia, il proprio destino di salvezza della dimensione della speranza soprannaturale.

Dobbiamo diventare tutti trasformatori della realtà, senza deleghe e senza passivismi, per un’azione creativa e propositiva che susciti comunione e diventi forza di cambiamento ed esperienza storica ed esistenziale di un Regno che Cristo ha incorporato, ma che però ha affidato alle nostre mani, anche quelle anchilosate o inermi di chi è colpito dalla malattia.

Ecco, allora, una dimensione tutta da scoprire della pastorale vocazionale: trasformare la povertà umana che è degradazione e malinconia in povertà evangelica che è dono per il mondo.

 

 

I giovani a servizio degli ammalati

Fare pastorale giovanile, e quindi vocazionale, significa porsi di fronte al problema dell’iniziazione cristiana delle nuove generazioni perché il Vangelo di Cristo animi e informi i vari momenti della formazione della personalità.

Non si tratta di un fatto culturale d’apprendimento, ma creazione di un costume, realtà viva, modo di vita che pian piano si acquisisce e rende più facile la percezione intellettuale che a sua volta illumina e determina il comportamento esistenziale.

È chiaro che per condurre a questa capacità sono necessari degli adulti che abbiano già percorso questo cammino e siano, per così dire, esperti e vivano in un ambiente comunitario che lo realizza e lo promuove.

Se pastorale giovanile significa aiutare i giovani ad una scelta decisionale che impegni tutta la vita, occorrono adulti che testimoniano questa scelta come fondamentale esperienza di fede, come risposta ad una chiamata, sentendosi continuamente interpellati dalla Parola viva, che non si esaurisce mai negli schemi in cui viene proposta.

E non saranno proprio i malati, soggetti ritrovati di pastorale giovanile, ad offrire ai giovani questa dimensione vocazionale?

La gioia, la speranza, la disponibilità, la capacità d’accoglienza del mistero di Dio, la forza di una fede vissuta e interpretata nel dolore, la ricchezza spirituale che vede tutto come dono gratuito potranno diventare per i giovani richiamo affascinante e incisivo per una scelta di vita evangelica.

Perché tutta la vita di un giovane diventi servizio e dono, è forse necessario che li aiutiamo, non tanto ad “assistere” i malati, sviluppando prevalentemente altruismo e funzionalismo, ma a condividere il carisma profetico del fratello che soffre e insieme vive pienamente la sua vita di fede e d’integrazione cristiana.

È così che il giovane, rendendosi attento ad ogni persona malata e aiutandola a godere il più possibile il dono della vita, che nel disegno di Dio è meraviglioso per tutti, scoprirà progressivamente che il gusto e la gioia di servire il fratello malato può diventare espressione di una radicale scelta di vita.

È un conquistarsi reciproco, tra giovane e malato, che si trasformerà inesorabilmente in proposta vocazionale per la salvezza del mondo.

 

 

 

 

Note

[1] A. Bequin, Mounier et sa generation, Paris 1940.