N.03
Maggio/Giugno 1994

Sofferenza: enigma dell’uomo Parola di Dio

La parola di Dio si intreccia in modo inestricabile con il dramma della sofferenza umana. Si tratta, infatti, di una parola che nasce e si sviluppa dentro le esperienze degli esseri umani. La parola di Dio si fa carne in Gesù Cristo e prende stabile dimora tra gli uomini. E per mezzo di questa carne fragile, precaria ed esposta alla sofferenza e alla morte la parola eterna ed ineffabile di Dio riveste forme e accenti umani. Nella prova della sofferenza l’essere umano si pone le domande cruciali e scopre il volto nascosto di Dio: “Fino a quando Signore, mi nasconderai il tuo volto?” (Sal 13,2). Al grido del Salmista fa eco la domanda inquietante di Giobbe: “Perché dare la luce ad un infelice e la vita a chi ha l’amarezza nel cuore?” (Gb 3,20).

Nella Bibbia non si trovano risposte teoriche a questi interrogativi. Nella “biblioteca del popolo di Dio” si conserva il ricordo di alcune figure e storie paradigmatiche, rappresentative della ricerca religiosa dentro l’esperienza enigmatica della sofferenza. Un filo conduttore lega insieme questi racconti e vicende drammatiche da Giobbe a Gesù: la fedeltà di Dio riscoperta e vissuta nella crisi della sofferenza.

 

 

Dall’angoscia alla fiducia

Nella tradizione biblica ebraica emerge la figura drammatica di Giobbe. Egli si fa portavoce dell’enigma della sofferenza e della ricerca di senso presente nei testi sapienziali dell’Antico Vicino Oriente, dall’Egitto alla Mesopotamia. Anche il Qohelet si fa interprete delle sofferenze umane. Egli conosce il “pianto degli oppressi che non hanno chi li consoli”. La sofferenza che accompagna l’esistenza corrode come un tarlo tutte le esperienze positive. Essa è un sintomo della radicale “inconsistenza” di tutto. Su questa “vanità” di ogni cosa, si innesta la relazione con Dio, l’unico assoluto.

Ma Giobbe, a differenza del disincantato Qohelet, vive la sofferenza nella sua carne. Essa intacca la sua relazione vitale con Dio. Infatti, nel dramma biblico l’immagine tradizionale del “Giobbe paziente” è solo l’antefatto della sua profonda crisi spirituale. La perdita del benessere e della salute, segno della benevolenza divina, crea la solitudine attorno a Giobbe. Privato dei figli e delle famiglie, incompreso dalla sua sposa e dagli amici, rappresentanti delle sicurezze tradizionali, Giobbe si appella a Dio. Egli inizia il suo sfogo maledicendo il giorno della sua nascita. Una serie incalzante di “perché” travolge il credente conteso tra il buio della morte e gli intermittenti sprazzi di luce: “Perché non sono morto fin dal seno di mia madre? Perché due ginocchia mi hanno accolto? Perché due mammelle per allattarmi? Perché ciò che temo mi accade?” (Gb 3,11-12.25).

Non bastano le risposte degli amici a placare il tormento di Giobbe. Il loro teorema della “retribuzione”, per cui al giusto tocca in sorte sempre il bene e al malvagio sempre il male, è contraddetto dall’esperienza. Giobbe se ne fa interprete in modo crudo e irriverente: “Dio fa perire l’innocente e il reo! Se un flagello uccide all’improvviso, della sciagura degli innocenti egli ride” (Gb 9,22-23). Ma Giobbe non si scandalizza per questo. Egli non si preoccupa come gli amici di difendere teoricamente la giustizia e la santità di Dio. Giobbe invece non sa rassegnarsi al sospetto che Dio, il suo Dio, sia all’origine del suo male. Perciò mentre gli amici parlano in difesa “di Dio” e del suo modo di agire, Giobbe parla “a Dio”. Egli non sa darsi pace perché si sente avvolto dalla presenza di quel Dio che lo ha creato con l’amore e la cura di una madre, ma nello stesso tempo avverte la sua minaccia: “le tue mani mi hanno plasmato e mi hanno fatto integro in ogni parte; vorresti ora distruggermi?” (Gb 10,8).

Giobbe alla fine lascia perdere il dibattito con gli amici e chiede di avere un incontro diretto, a tu per tu, con Dio. Non si tratta di un caso astratto, ma della sua relazione con Dio. Infatti, Giobbe è certo che neppure la morte lo può separare da Dio: “Anche senza la mia carne, vedrò Dio. Io lo vedrò, io stesso e i miei occhi lo contempleranno non da straniero” (Gb 19,26-27). Dio si manifesta e risponde a Giobbe facendogli passare davanti tutto lo splendore della creazione. Ora è Dio che pone le domande a Giobbe: “Dov’eri tu quand’io ponevo le fondamenta della terra?”. Giobbe riconosce il suo limite di creatura e la sovrana libertà di Dio. Ma proprio nell’orizzonte di questa libertà egli può stare davanti a Dio con la libertà del credente: “Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono” (Gb 42,5).

 

 

Dio fedele dentro il limite della condizione umana

Alla voce solista di Giobbe si accompagna il coro degli oranti dei Salmi, dove sfila il corteo delle umane sofferenze: malati e piagati, perseguitati e oppressi. Nell’angoscia provocata dalla minaccia di morte, l’orante si affida a Dio. La preghiera nasce dalla certezza che la sua relazione vitale con Dio non può essere impedita o troncata dal trauma della sofferenza. Il desiderio intenso di Dio è nello stesso tempo la radice profonda sia della sofferenza sia della fiducia del credente. Nel dialogo interiore egli esprime questa ricerca del rapporto con il Dio vivente: “Perché ti rattristi, anima mia, perché su di me gemi? Spera in Dio: ancora potrò lodarlo, lui, salvezza del mio volto e mio Dio” (Sal 42,6.12; 43,5).

A questa struggente preghiera del salmista si ispira Gesù alla vigilia della sua morte. Secondo la comune testimonianza dei vangeli sinottici Gesù nel giardino del Getsemani è sommerso dalla tristezza, angoscia e paura. Ai tre discepoli che gli sono più vicini egli dice: “La mia anima è triste fino alla morte”. Solo nella preghiera intensa e perseverante rivolta al Padre Gesù trova la fiducia e la libertà di affrontare l’ora della prova suprema. Questo è il senso della sua invocazione, che diventa il modello della preghiera per i discepoli: “Abbà, Padre! Tutto è possibile a te, allontana da me questo calice! Però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu” (Mc 14,36). Che cosa vuole il Padre? Che Gesù beva il calice? Che accolga il destino doloroso riservato ai peccatori?

La risposta a questi interrogativi si ha solo dopo la morte di Gesù. Egli come Figlio fedele percorre fino in fondo la via della solitudine mortale. Appeso alla croce nella totale impotenza, deriso dai passanti, schernito dai suoi avversari, nel buio che in pieno giorno avvolge la terra, Gesù è veramente abbandonato da Dio e dagli uomini. In questa condizione egli può rivolgersi a Dio con il grido del giusto al culmine della prova: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mc 15,34). Gesù vive la sua relazione vitale con Dio, il “Dio mio”, nel momento stesso in cui avverte la sua assenza o “abbandono”. Proprio in questo paradosso si realizza la sua relazione filiale, la volontà del Padre. Non a caso la scena della morte di Gesù si chiude con la prima professione di fede di un pagano: “Veramente quest’uomo era Figlio di Dio!” (Mc 15,39).

A questa logica paradossale, in cui la potenza e la sapienza di Dio si rivelano in Gesù crocifisso, cioè nel contesto dell’impotenza follia della morte in croce, si ispira la riflessione di Paolo sul significato della sofferenza umana. Paolo vive in prima persona la crisi della sofferenza in una malattia cronica. Egli chiede con insistenza di essere liberato da una sofferenza che avverte come un umiliante impedimento al progetto di Dio. Ma il Signore gli risponde: “Ti basta la mia grazia; la mia potenza, infatti, si manifesta pienamente nella debolezza” (2Cor 12,9). La conformità di Paolo a Gesù crocifisso non è solo condivisione del comune limite umano fatto di privazioni, sofferenze e angoscia come preludio della morte. È la partecipazione al suo statuto di Figlio, che vive la sua “obbedienza” o fedeltà dentro la solidarietà mortale che Gesù, il Figlio fedele, è reso “perfetto”, cioè consacrato per essere fonte e mediatore di salvezza per tutti quelli che lo seguono (cfr. Eb 2,10; 5,7-10).

La sofferenza come “limite” della condizione attuale sotto il profilo umano resta un “enigma”. Nella prospettiva della fede in Dio, fedele e solidale nel Figlio crocifisso, la sofferenza è un “mistero”, nel senso originario del termine. Essa rientra nel disegno di Dio in parte svelato, ma ancora nascosto, nell’attesa del suo compimento finale, quando “non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno” (Ap 21,4). Nell’orizzonte della fede pasquale la sofferenza diventa una sfida e un’opportunità per fare un cammino di purificazione e di maturazione del rapporto vitale con Dio.