N.04
Luglio/Agosto 1994

L’ufficio educazione e scuola della CEI e il Centro Nazionale Vocazioni: due competenze per una proposta unitaria

Come già detto in mille passaggi del presente numero di ‘Vocazioni’, l’argomento “scuola e vocazione” non è consueto: le esperienze al riguardo sono quasi inesistenti, per cui i discorsi risultano molto spesso, e inevitabilmente, vaghi.

Alla debolezza dell’approccio al tema si può però contrapporre una considerazione inoppugnabile: poiché tutti i ragazzi e le ragazze, per periodi sempre più lunghi, passano attraverso l’esperienza scolastica, anche tutte le vocazioni, per consolidarsi, per rivelarsi o per morirvi, passano attraverso la scuola. E questo succede anche, e forse più pericolosamente, quando non se ne ha sufficiente consapevolezza.

 

Si dovrebbe immaginare che questa considerazione abbia suggerito e fondato una cura particolare riguardo alla costituzione e all’attività dell’Ufficio diocesano scuola (UDS) e del Centro diocesano vocazioni (CDV): alla loro costruttiva collaborazione e alla loro solidarietà, all’interno della complessità pastorale diocesana. E invece i due organismi,quando pure siano stati costituiti, nemmeno si conoscono e tanto meno hanno elaborato un protocollo di collaborazione. Mi auguro che i CDV siano presenti e attivi in tutte le diocesi. Perché, per quanto riguarda invece gli UDS, non tutte le diocesi li hanno ancora costituiti, con le garanzie almeno di una precisa identità e le condizioni di efficacia operativa. A voler essere pessimisti, e questo metodologicamente paga più di un ingenuo ottimismo, si può dire che UDS e CDV partecipano, almeno in parte, della stessa debolezza di origine: essi sono stati più il frutto dell’emergenza che del progetto pastorale.

L’UDS è stato chiamato, a metà degli anni ‘70, a far fronte, precipitosamente, ai problemi posti dall’avvio degli Organi Collegiali nella scuola (più tardi poi, ma non dappertutto, gli è stata affidata anche la gestione dell’IRC). Quanto al CDV, esso è stato la risposta al calo drammatico di vocazioni sacerdotali e di speciale consacrazione e solo più tardi, e con qualche fatica, si è riappropriato del compito di animazione vocazionale di tutti i battezzati e nei confronti di tutte le vocazioni.

 

Ma, tornando alla constatazione iniziale di estraneità di fatto tra UDS e CDV, è inevitabile concludere che si è sottovalutato il fenomeno della progressiva scolarizzazione che ha investito prima i fanciulli (scuola elementare), poi i ragazzi (scuola media), poi i preadolescenti e i giovani (scuola secondaria superiore e Centri di formazione professionale). Non si è capito che razza di variabile, individuale/collettiva, psicologica/culturale, sarebbe stata la scuola di massa, con le sue connotazioni di obbligatorietà e pluralismo.

Basti qui ricordare, e si tratta di uno solo dei tanti esiti del fenomeno, come proprio la questione-scuola abbia influito, dalla fine degli anni ‘60 e per tutti gli anni ‘70, a causa del necessario adeguamento di strutture e programmi, sulla crisi dei seminari minori e, con la sua onda lunga, sugli stessi seminari maggiori.

Forse un’estensione, magari non rigorosa ma illuminante, dell’aforisma con cui McLuhan descrive l’influenza “infallibile” dei mezzi della comunicazione sociale, “il mezzo è il messaggio”, potrebbe darci un’idea meno imperfetta della situazione creatasi con l’avvio capillare, quanto ai soggetti destinatari e quanto agli insegnamenti, della scuola di massa. La “nuova” scuola non era dunque un contenitore da riempire, magari di contenuti buoni; o un luogo da occupare, a fin di bene: era un dinamismo che avrebbe cambiato, con la sua sola presenza, gli individui, le comunità e l’intera società. Il problema consisteva nel dare un fine a tale dinamismo: si trattava quindi di un problema culturale.

Noi cristiani venivamo da una grande tradizione di presenza nella scuola, realizzata da docenti cattolici, maestri e professori, riuniti nelle rispettive associazioni ecclesiali (AIMC e UCIIM); ma anche assicurata dagli insegnanti di religione, per la maggioranza sacerdoti. A tutti costoro la scuola italiana deve moltissimo. Eppure nelle comunità cristiane non riuscì a passare un’immagine giusta, realistica, positiva e incoraggiante, della nuova esperienza. La nostra posizione ha finito così per cercare garanzie più sul versante politico/istituzionale (il ministero PI affidato ai cattolici) che non sul piano culturale.

Abbiamo tagliato fuori progressivamente quest’ambito di esperienza dei nostri ragazzi/adolescenti/giovani. E, a proposito di “vocazione”, si è continuato, o si è cominciato, a parlarne e a predisporre itinerari formativi, come se la scuola non ci fosse: così nella catechesi, nella liturgia, nell’ambito associativo, nell’impegno verso le famiglie… Non siamo più riusciti, pastoralmente ed educativamente, a dominare da un punto di vista unitario l’insieme dell’esperienza dei giovani.

Nemmeno le scuole cattoliche sono state capaci di far convergere armonicamente i diversi aspetti dell’esperienza scolastica verso una sintesi fede/vita e fede/cultura. Spesso hanno avviato invece dinamismi paralleli e incomunicabili, scolastici ed extrascolastici, ciascuno con logiche proprie ed esclusive. Abbiamo subito, non contrastandolo adeguatamente, l’esito a cui sono state condannate tutte le dimensioni valoriali/valutative, ricacciate nell’ambito della più rigida privatezza.

La scuola è stata secolarizzata e deprivata di essenziali elementi di significato, e quindi di potenzialità orientative. Noi cristiani, a nostra volta, abbiamo “confessionalizzato” la nozione di vocazione, chiudendola nell’area delle “devozioni” private, escludendola di fatto dai dinamismi di identità/intenzionalità della persona.

 

Se quanto ho appena detto ha, come ritengo, un fondamento, è immediatamente chiaro che il discorso ai miei interlocutori ideali, l’UDS e il CDV, non ha, né può avere, esiti consolatori: nel senso di offrire formule e ricette di immediata applicazione ed efficacia. Il tempo perduto, sopratutto se si tratta di tempo “culturale”, bisogna riguadagnarlo tutto e pazientemente. Si prospetta dunque per i due organismi diocesani un’opportunità/necessità di ricerca e azione comune. Resta però inteso, a scanso di equivoci e ingenuità, che l’unità non è fondata su di loro: essi la valorizzano, la percorrono; ma essa ha il suo fondamento nell’unità complessiva della pastorale diocesana e, in definitiva, nel carisma autorevole del Vescovo. L’incontro cioè, tra UDS e CDV non è di natura tattica ed organizzativa, ma teologico/pastorale.

Ad essi tocca far camminare insieme una cultura della scuola, vista come uno dei luoghi nei quali è in gioco la cultura della vocazione. È insomma loro compito promuovere l’idea di vocazione come uno degli elementi della individualizzazione/personalizzazione a cui obbedisce ogni autentico itinerario didattico/educativo. Per questo:

3.1. Il CDV e l’UDS sono chiamati ad attingere, e a contribuire, insieme ad un’idea grande di educazione, nel suo dinamismo di decondizionamento/sviluppo/orientamento (cfr. La scuola cattolica oggi in Italia, nn. 29-31). Se non si fa spazio all’educazione e a congrui itinerari pedagogici, non c’è spazio nemmeno per la pedagogia di Dio e, in modo particolare, per la scoperta/accoglienza della vocazione.

3.2. I due organismi sono chiamati ad affinare insieme la sensibilità dei grandi e naturali mediatori dell’educazione e della pedagogia vocazionale: genitori, educatori, docenti. I punti di vista dei due organismi sono in realtà, e senza forzature, intercambiabili. C’è bisogno urgente che il mondo adulto riacquisti una conoscenza sapienziale delle nuove generazioni, fuori delle false generalizzazioni le quali portano all’illusione che dei giovani si sappia già tutto, e in modo prevedibile, contribuendo a rafforzare così nei loro comportamenti conformismo e mimetismo.

3.3. L’UDS e il CDV condividono la consapevolezza, e la diffondono, che le comunità giovanili, come la scuola, sono di natura loro luoghi di evidenza della dimensione progettuale, e quindi vocazionale. Resta vero purtroppo che, nel nostro tempo, queste dimensioni si eclissano e i ragazzi e i giovani sono costretti a faticosissimi e precari itinerari in solitudine. Positivamente tocca al CDV e all’UDS riportare in circolo queste sensibilità, facendone una preoccupazione permanente del mondo adulto.

3.4. Non meno urgente appare, in funzione di una pedagogia vocazionale, l’integrazione fra la dimensione soggettiva del vivere (“la realizzazione di sé”), così spesso enfatizzata, e la dimensione oggettiva (“il servizio”) come espressione di una “vita spesa” per gli altri.

3.5. Per conseguire questi traguardi si richiedono precise attitudini. È sopratutto necessario che ciascuno dei due organismi interpreti la propria collocazione pastorale e la propria azione come un debito verso l’altra. E non solo verso di essa, ma anche nei confronti della pastorale giovanile, delle esperienze associative, ecc. Questo condurrà ad una vera capacità di prospettiva sul problema vocazionale che magari comporterà per ciascuno dei protagonisti pastorali un passo indietro, cioè un consapevole distacco da una volontà di protagonismo, ma assicurerà all’azione così concertata maggiore efficacia.

Del resto l’azione pastorale veramente efficace è quella in cui la forza e la bellezza del fine traspaiono dalla scelta dei mezzi e dalla persuasività dello stile.