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N.04
Luglio/Agosto 1994
Rubriche /Pensieri
2 Luglio 1994

Pastorale della scuola e pastorale vocazionale: i silenzi reciproci, la possibile alleanza

di
Renato Tomasi

È sembrato importante, nel quadro redazionale di questo numero di ‘Vocazioni’, dedicare qualche spazio al tentativo di sondare coraggiosamente, nella storia della pastorale, le ragioni di un’estraneità, di una diffidenza perdurante fra gli itinerari e i progetti di pastorale della scuola e l’accresciuta sensibilità per l’animazione vocazionale.

Poiché la richiesta di stendere tale contributo è stata rivolta a me, mi viene spontaneo sperare che chi mi ha amichevolmente presentato la richiesta non abbia avuto chiaro il mio “curriculum” personale, perché si dà il caso che la situazione sia questa: dal 1973 al 1982 sono stato direttore del Centro Diocesano Vocazioni (“Servizio” lo chiamavamo allora); dal 1977 sono direttore dell’ufficio pastorale diocesano per la scuola, e da alcuni anni sono responsabile del coordinamento della pastorale diocesana. Il che vuol dire che – almeno stando all’assunto dell’articolo! – io dovrei riflettere su una “estraneità” o addirittura su “diffidenze” che avrei coltivato in me stesso, per almeno cinque anni, tra settori pastorali di cui mi occupavo nello stesso tempo…

Posto in questi termini il problema presenta degli inquietanti (o divertenti?) risvolti kafkiani, ma – volendo fare la persona seria e andando al di là dei veri o presunti incidenti autobiografici! – riconosco che si tratta di una questione che vale davvero la pena di analizzare, e lo farò partendo nonostante tutto da quanto mi è più familiare, e cioè dalla mia esperienza.

 

 

Un’esperienza diocesana

Potrei cominciare allora con il verificare se e come l’impianto che avevamo dato in diocesi alla pastorale vocazionale teneva conto del mondo della scuola. Un momento particolarmente espressivo e sintetico dell’azione pastorale per le vocazioni è stato per noi il lungo iter di riflessione e di confronto che ci ha portati alla formulazione del “Piano pastorale diocesano per le vocazioni”, presentato dal Vescovo alla diocesi nel Giovedì Santo del 1979. In quel testo trovo alcune idee interessanti:

– al n. 15, il Piano propone la necessità e i modi della collaborazione dei diversi organismi diocesani – e in particolare degli uffici pastorali – alla pastorale vocazionale. A titolo di esempio vengono citati l’ufficio catechistico, l’ufficio liturgico, l’ufficio missioni e l’ufficio di pastorale scolastica, al quale si chiede di “promuovere una concezione dell’educazione al servizio della vocazione personale e globale dell’uomo”;

– al n. 16, il Piano richiama la responsabilità di associazioni e gruppi laicali ecclesiali, e dice in particolare: “Alle associazioni che tendono ad animare in senso cristiano una particolare situazione o professione nel mondo, è chiesto di portare la sensibilità vocazionale nel settore tipico in cui vivono i propri membri (scuola, lavoro, stampa, assistenza…)”;

– al n. 17 si parla ovviamente della responsabilità vocazionale delle scuole cattoliche;

– al n. 18, che traccia le linee del ministero proprio degli animatori vocazionali, è detto: “Non è consentita alcuna azione di animazione vocazionale nelle scuole pubbliche, per il rispetto dovuto alla natura della struttura scolastica e per le risonanze negative che tale azione può avere”. Il richiamo teneva conto di una certa prassi allora in voga di approfittare dell’amicizia di pie maestre per andare nelle scuole elementari a “parlare delle missioni”, per finire lasciando ai ragazzini cartoline di adesione a “campi-scuola vocazionali” ecc.

Se poi volessimo vedere se e come la pastorale della scuola si interessava della questione vocazionale, devo dire che sfogliando il vasto materiale prodotto in quegli anni (fogli informativi, schemi di lavoro, orientamenti pastorali…) non mi è capitato di trovare spesso il termine “vocazione” e il riferimento diretto alla pastorale vocazionale, ma ho trovato continuamente il suo corrispettivo “scolastico”: “promozione integrale della persona” ecc. Il tema vocazionale invece si è fatto particolarmente esplicito nelle iniziative e negli strumenti predisposti per la riflessione sul documento della S. Congregazione per l’Educazione Cattolica, “Il laico cattolico testimone di fede nella scuola”, dell’ottobre 1982.

Per tentare una qualche forma di valutazione di questa esperienza, credo doveroso dichiarare due premesse. Va detto anzitutto che probabilmente non è capitato spesso che il servizio pastorale alla scuola e alle vocazioni fosse affidato alla stessa persona, e quindi che la mia esperienza non fa testo in questo senso.

È poi necessario non dimenticare mai che gli esiti dell’azione pastorale non vanno misurati con il metro delle strutture, delle iniziative, dei documenti ecc. perché i veri attori sono lo Spirito del Risorto (che soffia come e dove vuole!) e il popolo di Dio, nella normalità della sua vita. È quindi pensabile che la convergenza tra pastorale vocazionale e impegno per l’evangelizzazione e il servizio all’uomo nella scuola sia avvenuta molto più di quanto sia dato di vedere, attraverso la fatica semplice e quotidiana di tanti docenti, preti, famiglie, giovani, catechisti, animatori di gruppi ecc., che si sono responsabilmente messi al servizio della crescita nella fede e nella carità, nei diversi ambienti. Mi pare comunque che la mia esperienza, pur nella sua particolarità, dica due cose.

La prima è che – come spesso accade – almeno le idee erano chiare, e che esse possono risultare ancora valide per impostare il dialogo tra pastorale vocazionale e pastorale della scuola: ci si rendeva conto dell’importanza che aveva la scuola nell’orientamento vocazionale delle persone, e quindi sulle responsabilità che le erano proprie e alle quali la pastorale vocazionale poteva contribuire; dall’altra parte però si chiedeva di non strumentalizzare la scuola con iniziative vocazionali estranee alla sua natura, ma di far sì che il suo servizio – secondo la propria specificità educativa, culturale e didattica – contribuisse alla crescita integrale (e quindi anche vocazionale) dei giovani.

La seconda osservazione è che comunque alla (più o meno evidente) chiarezza di idee, non corrispondeva abitualmente una prassi pastorale conseguente: più che di una reciproca integrazione tra pastorale della scuola e pastorale vocazionale, credo che abbiamo sperimentato alcune occasioni di incontro e di collaborazione, più a livello di organizzazione che di mentalità.

Se ora la singola esperienza raccontata – pur con la sua specificità – può essere vista come lo specchio di una situazione più generale e magari ancora più problematica, c’è qualche spiegazione che può essere data in una prospettiva di carattere generale?

 

 

Un dialogo mancato

Una prima e immediata risposta potrebbe essere questa: è abbastanza evidente che negli ultimi decenni sono cresciuti nelle diocesi la sensibilità vocazionale e l’investimento di energie per il servizio alle vocazioni (anche di fronte al calo preoccupante delle vocazioni di speciale consacrazione). Ma non credo si possa dire altrettanto per l’animazione cristiana della scuola. Si potrebbe allora ipotizzare che il dialogo sia mancato soprattutto per l’assenza o per la fragilità di uno dei due interlocutori, e cioè della pastorale della scuola. E si potrebbe anche aggiungere la domanda se la scuola si presenta normalmente capace di svolgere il compito educativo che le è proprio: se infatti manca questa tensione permanente alla crescita della persona in riferimento ai valori, la dimensione vocazionale non trova spazio alcuno.

Credo comunque che la difficoltà principale vada ricercata nella dinamica stessa che – pure in un contesto di appassionata missionarietà – ha fatto nascere in Italia, nel dopo-Concilio, le cosiddette “pastorali al genitivo” (“delle” vocazioni, “della” scuola, “del” lavoro, “delle” comunicazioni sociali…), soprattutto in riferimento a una crescente moltiplicazione e differenziazione di problemi e situazioni che interpellavano le comunità cristiane. Il progetto consisteva sostanzialmente nello sforzo di far diventare motivo di attenzione comunitaria ciò che fino ad allora era stato per lo più campo di azione – generoso ma non sempre condiviso – di alcuni soggetti particolari nella chiesa, e cioè le associazioni laicali ecclesiali operanti nei diversi ambienti. 

Era quindi una scelta pastorale ben motivata, ma probabilmente e di fatto ci si è preoccupati più dell’aspetto strutturale che della valorizzazione di carismi e ministeri (sopratutto laicali, ma anche connessi alla vita consacrata) nella comunione e nella corresponsabilità della missione. L’accento è stato messo con più enfasi sugli “oggetti” della pastorale (i destinatari, gli ambienti…), per loro natura differenziati e “specializzanti”, e non altrettanto sulla “sorgente” (e sul “soggetto”) unificante, il mistero del Regno che cresce nella storia per la forza della Pasqua e di cui la chiesa è “germe e inizio”, “segno e strumento” (cfr. Lumen Gentium, 1 e 5). Si è risposto a domande vere ma non ci sono forse stati sufficienti discernimento e progettualità comunitari, nella dinamica responsoriale e obbedienziale che caratterizza la vita della chiesa nel progetto del suo Signore.

La conseguenza di questo fatto, che ritengo vada ripensato di fronte alle esigenze della “nuova evangelizzazione”, è stata la nascita di organismi, percorsi, proposte, linguaggi spesso non comunicanti, se non (talora almeno!) ad un livello organizzativo e non nella dinamica della comunione e della missione ecclesiale. E il problema ha investito tutta la vita della chiesa (non solo quindi il rapporto fra tematica vocazionale e scuola), diventando acuto nel rapporto tra strutture “ministeriali” (uffici e organismi pastorali…) e presenze “carismatiche” (movimenti, associazioni, vita consacrata), ma più ancora nei punti di intersezione fra strutture / progetti / proposte pastorali che fanno riferimento alle persone (famiglia, giovani, ragazzi…), e quelle che fanno riferimento alle esperienze ecclesiali costitutive (evangelizzazione, liturgia, missione, vocazioni) e agli ambienti/strumenti di vita (scuola, lavoro, tempo libero, comunicazioni sociali…): chi si trova a dover coordinare i diversi rivoli (o spinte!) della pastorale diocesana ne sa qualcosa!

 

 

La possibile alleanza

Sarà possibile trovare il bandolo di questa matassa, per non trovarci a gestire una chiesa che, pur nella generosa volontà di rispondere alla complessità di problemi della “nuova evangelizzazione”, potrebbe rischiare di trovarsi appesantita da strutture tendenzialmente auto-referenziali?

Credo che la risposta vada cercata nella continua chiarificazione del significato che ha la programmazione pastorale nella chiesa, quando essa diventa non “invenzione” dell’uomo, ma ascolto paziente del Signore nei “segni dei tempi” (discernimento, compiuto con i carismi del popolo di Dio e con il ministero dei pastori) e decisione obbedienziale al progetto di Dio intravisto e accolto con amore.

Il problema quindi, anche per il rapporto tra pastorale vocazionale e pastorale della scuola, non sta primariamente nel coordinamento (“a valle” come si usa dire) tra gli operatori e le iniziative di settore, ma “a monte”, e cioè in una progettualità diocesana organica, che cerca gli appelli di Dio e fa convergere su di essi tutte le energie pastorali, con una particolare attenzione a promuovere operatori e servizi pastorali non “uni-direzionali”, ma capaci di vivere il proprio compito nella logica della comunione della corresponsabilità per la missione.

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