Feste e riti di passaggio nella cultura del post-moderno
Le feste ed i riti sono esperienze diffuse, così facili da incontrare che non sembrano meritevoli di un’attenta analisi. Ad esempio, nelle normali inchieste sui giovani troviamo molte pagine dedicate al lavoro, alla politica, ai grandi valori; ma le feste, l’adesione ad alcuni riti sono giudicati irrilevanti e partecipano a quel silenzio che avvolge, analogamente, la sfera della vita quotidiana.
Per cercare di dare un significato a ciò che, invece, non è così banale, sottolineerò innanzitutto l’importanza delle feste e dei riti per il mantenimento della società. Cercherò poi di seguire le considerazioni di chi li ritiene in crisi di fronte alla società “post-moderna”, secolarizzata, disincantata e forse un po’ cinica. Non accontentandomi di queste valutazioni critiche e pessimiste, proporrò un’altra ipotesi: la società post-moderna, ed in essa le nuove generazioni, non si allontanano dalla dimensione festiva; i giovani sono solo consapevoli più di un tempo che feste e riti di passaggio rappresentano un riflesso condensato delle contraddizioni presenti nella nostra esistenza di esseri sociali. A mio avviso la festa va vista come la ricerca di un senso da dare a questa nostra condizione.
L’importanza delle feste e dei riti di passaggio
Per il funzionamento della società rivestono un ruolo fondamentale le norme, le consuetudini, i riti. Molte volte i sociologi e gli antropologi privilegiano i riti religiosi[1] ma l’attenzione può essere estesa a molti altri riti che comunque costituiscono la trama della vita sociale. Essi scandiscono il tempo, aiutano a controllare l’angoscia attraverso meccanismi di rassicurazione e di conferma, regolano il riconoscimento fra soggetti, rafforzano i processi di identificazione reciproca, consentono la prevedibilità dei comportamenti, insomma aiutano la sopravvivenza della società e la sua stabilità[2].
Per questa loro importanza, spesso ai riti si attribuisce una veste solenne (cerimonie) o gratificante (feste). Alcune volte la solennità e la gratificazione coincidono: in un importante snodo della biografia del singolo, ad esempio, un rito di passaggio viene celebrato proprio attraverso la festa.
Riti di passaggio e feste sono presenti anche nelle nuove generazioni: ciò è facilitato dal fatto che aumenta il tempo libero a disposizione, cresce il valore attribuito ai rapporti interpersonali e alla dimensione ludico festiva, diviene più intenso il desiderio di ancorarsi a qualche riferimento
stabile e rassicurante per un maggiore riconoscimento da parte degli altri[3].
Queste tendenze sembrerebbero favorire le feste, i riti e, per loro tramite, le identità collettive, la stabilità delle istituzioni e l’integrazione nel la società. Invece è diffusa la sensazione di trovarci in una realtà instabile, frammentata, in crisi di identità; di vivere in un clima sempre più smaliziato rispetto ad ogni rituale. Recentemente, ad esempio, dal versante politologico si rileva la crisi in Italia delle festività e dei riti civili come segno del fatto che si va smarrendo l’identità nazionale e la coesione sociale[4].
La crisi e il disincanto
L’accresciuta mobilità sociale e geografica, la fine dell’eurocentrismo, la soggettivizzazione e relativizzazione delle norme sociali e morali, l’emergere dei limiti in ogni forma di conoscenza[5], rendono l’uomo postmoderno consapevole della propria irriducibilità rispetto ad ogni definizione e ad ogni organizzazione. Ciò lo induce alla pluriappartenenza e al pendolarismo fra appartenenze diverse, come si osserva soprattutto nelle nuove generazioni e nel loro “nomadismo”.
Le identificazioni si fanno parziali, selettive, “deboli”, reversibili poiché vengono vissute come riduttive e tendenzialmente convenzionali. Sicché anche i riti, che svolgono la funzione di identificazione e di ancoraggio, sembrano attraversare un periodo di profonda crisi, di “disincanto”[6].
Secondo alcuni, la coercizione del rito, con i suoi ritmi imposti ed i suoi gesti obbligati, cede il posto al protagonismo e all’autonomia di ogni singolo soggetto[7]. La funzione di segnare lo sviluppo del tempo, di accompagnare il passaggio dal passato al presente e al futuro, verrebbe offuscato dalla concentrazione dei giovani solo sul presente: da qui la definizione di “generazione della vita quotidiana” [8].
Anche il senso della festa subirebbe un impoverimento. Come già a suo tempo denunciava Michelet, “non abbiamo più feste che distendano, dilatino i cuori. Dei saloni freddi e degli orribili balli! A il contrario delle feste. Si è più aridi il giorno dopo, e ancora più contratti”[9]. “Le nostre feste sono ridotte all’ombra di quello che furono (…); chiusi come malattie contagiose nei ferrei limiti di un tempo e di uno spazio misurati con avarizia, ne rinviano l’immagine immiserita, trasudano la noia dell’eccitazione ben controllata” [10].
Molti educatori e animatori lamentano una certa destrutturazione delle feste. I giovani le apprezzano e le richiedono per un grande desiderio di ritrovarsi insieme, ma non sanno organizzarle. Così, spesso si ritrovano in solitudine: chi si apparta con la ragazza, chi diventa incomprensibile perché “fumato” o ubriaco, chi si annoia in disparte.
Quanto ai riti, alcuni sono rimasti, ma il loro valore simbolico si è molto attenuato o subiscono una sorta di diluizione. Secondo la terza indagine dello Iard, i riti di passaggio all’età adulta si sono spostati in avanti, non sono disposti secondo una sequela fissa, la distanza temporale fra il primo e l’ultimo rito tende ad allungarsi[11].
Pluralità e differenza
Ma, come abbiamo visto, nei giovani la relazione con l’altro, il riconoscimento reciproco acquistano un valore crescente e nella festa si vede un modo significativo di stare insieme. Allora la “crisi” della festa e di alcuni importanti riti non può essere letta solo come un loro impoverimento simbolico.
Per meglio comprendere il significato di questa “crisi”, occorre collocarla all’interno del post-moderno e della differenziazione. Quando la civiltà occidentale ha scoperto altre culture e man mano si è infranta l’illusione eurocentrica, si è avviato un processo che ha svelato una molteplicità di differenze: la differenza di altre culture rispetto a quella in occidente, la differenza fra culture europee, le differenze in seno ad una stessa cultura e società[12].
L’esito più avanzato di questo processo si ha quando ciascun singolo fenomeno appare dotato di una pluralità di significati differenti e, talvolta, contraddittori. Ciò vale anche per il modo di intendere la festa. Nel post-moderno, essa non ha subito profonde e repentine innovazioni che l’avrebbero resa gracile ed incerta. Le trasformazioni non sono così radicali, perché i significati profondi di una festa derivano da una lunga tradizione culturale che si è stratificata e solidificata nel tempo, sicché ogni innovazione non può non essere graduale. Forse la novità rispetto al passato è una maggiore consapevolezza, soprattutto nei giovani, della polisemia della festa[13], ossia della coesistenza di significati e di funzioni differenti.
La festa segna il tempo ma lo sospende anche. Le ricorrenze, i riti di passaggio contribuiscono a strutturare e ordinare il tempo. D’altra parte la festa tende a sospendere il tempo sociale, i ritmi imposti dalla società che sono prevalentemente in funzione della produzione. La festa è, invece, momento gratuito da dedicare a se stessi, al gioco con gli altri, al “perdere tempo”. Se il tempo sociale è irreversibile e costituisce una risorsa scarsa (ci manca sempre tempo), cercare di fermarlo consente un’abbondanza di risorse, una ricchezza esistenziale. La festa sottrae tempo sociale per riconvertirlo al gusto della buona tavola, al contatto con la natura, al rapporto con gli altri, all’espressione corporea, al ballo e alla musica. Va aggiunto, però, che una prolungata sospensione del tempo sociale, una destrutturazione dell’ordine temporale è fonte di disagio e di immaturità. Ad esempio, una tipologia proposta da Cavalli propone due tipi di giovani destrutturati. L’auto-destrutturato “vuole divenire, piuttosto che crescere”. Nell’eterodestrutturato “il controllo sul tempo di vita è sfuggito sia al soggetto, sia alle istituzioni (…). Il tipo eterodestrutturato è sopraffatto e invaso da un presente che non controlla e nel quale ogni scelta gli appare effimera e irrilevante. Il suo futuro è interamente affidato alla sorte (…). Anche il passato, la propria biografia, è costellato di colpi di fortuna e di scherzi del destino, il tempo è scandito dalla irregolarità del caso (…). Nella dimensione del tempo quotidiano (. ..) si ricerca uno sganciamento il più possibile totale dai ritmi del tempo sociale (…). Il tempo sociale è il tempo degli altri, dai quali ci si sente e si è, irrimediabilmente diversi”[14]. I riti di passaggio diventano, perciò, fonte di ansia; spesso vengono rifiutati in quanto pretendono di strutturare ciò che è destrutturato; inoltre ricordano che se non scegliamo, è il tempo a scegliere per noi. È frequente incontrare giovani che non riconoscono i riti di passaggio proprio perché questi ultimi scandiscono il tempo e accompagnano l’invecchiamento (“meglio morire che invecchiare!” si sente spesso affermare fra i giovani).
La festa rievoca e rinnova. Anche la celebrazione più tradizionale non è mai sempre uguale. Ogni ritorno comporta sempre un’innovazione; ciò che è stato non può mai essere ciò che sarà. Eppure il ritorno al passato esercita il suo fascino. Non a caso di recente alcune feste indossano vesti antiche: il ballo nelle cascine, il vecchio sapore di una volta vengono riproposti in un contesto del tutto diverso che, quindi, li trasforma e li conferma. Questo recupero, che accosta in modo sentimentalistico e formalistico, è tipico del post-moderno in molti campi, dall’architettura alle mode.
La festa è un mix di “micro” e di “macro”. Il primo è rappresentato dalle relazioni faccia a faccia, dalla affettività dei rapporti primari che la festa esalta. Il “macro” è rappresentato dalle forme che la festa assume: le mode che in essa si celebrano, il look esibito, gli sfavillii della società metropolitana riprodotti in scala, etc.
Contrariamente a quanto si pensa di solito, la festa non è solo ludica ma è anche un fatto molto serio. Certamente è uno spazio di gioco, e da tempo immemorabile nella parentesi festiva si ribaltano i ruoli e i rapporti di potere, si destrutturano i linguaggi, si rappresenta il quotidiano in modo caricaturale o ridisponendone i pezzi (come alcune forme di rock che compongono e scompongono vari suoni della realtà quotidiana). Ma un gioco senza fine diviene distruttivo, perché incapace di far fronte ai limiti posti dalla determinatezza delle risorse, del tempo, delle istituzioni. A titolo emblematico possiamo citare le manifestazioni di protesta inscenate dai giovani, per riassumere questo intreccio fra gioco e serietà: su temi e richieste certo non frivoli, le assemblee di studenti si fanno accompagnare da happening musicali e i cortei assumono le caratteristiche di feste semoventi.
La festa contiene meccanismi di identificazione, ma al tempo stesso crea distanza e rafforza il senso di autonomia. In alcune feste vengono rappresentati e riaffermati solennemente l’identità, la gerarchia dei poteri, la stratificazione sociale e i valori dominanti. Nei giovani il look esibito, la discoteca frequentata, il genere musicale prescelto, perfino il cibo offerto in una festa aiutano a costruire o a confermare l’identità del gruppo e del singolo. Ma nel momento stesso in cui si definisce un’identità, ne deriva una differenza, una non-identificazione, una distanza. Si pensi alle migrazioni del sabato sera che sono simboliche oltre ad essere geografiche: i giovani che abbandonano il proprio quartiere, il paese o la città in cui vivono, per recarsi in un luogo del tutto analogo, stanno a significare che non si riconoscono nel proprio territorio di origine, che la propria appartenenza a quella comunità è parziale, riduttiva e reversibile.
Per questo suo oscillare fra identificazione e distanza, la festa ha una funzione sia di integrazione nella società, sia di potenzialità conflitto. Trovarsi insieme, comunicarsi, festeggiare – lo ricordava già Rousseau[15] – rafforza il contratto sociale. In effetti la danza, la musica, il ballo in gruppo, lo scambio di doni, il consumo comune di cibo e bevande servono a rafforzare i rapporti e quindi la stessa coesione sociale. Ma alcuni tratti “dionisiaci” e “orgiastici” della festa, viceversa, stridono rispetto alla logica della società: l’eccezionalità e la piacevolezza della festa si scontrano con la banalità e il grigiore quotidiani; lo “stare bene insieme”, che ricorda l’utopia organicista, collide con l’individualismo ed il produttivismo; la possibilità di trasgredire alcune regole non serve a dimenticare che, a parte la festa, quelle norme sono pur sempre in vigore.
Conclusioni: la ricerca di un senso
Grazie a questa natura molto polisemica, la festa unisce ciò che è normalmente separato, ricompone e riproduce in miniatura ciò che è contraddittorio e, così facendo, rende percepibile ciò che altrimenti resterebbe invisibile (ogni volta che una realtà è troppo complessa da conoscere, va ridotta in scala per renderla più percepibile). Il carattere gratificante della festa risiede anche in questa possibilità di cogliere ciò che altrimenti sfuggirebbe alla nostra percezione, di intravedere la “follia” della vita quotidiana[16]. La piacevolezza di una festa sta nel suo carattere “umoristico”, perché l’umorismo deriva proprio dall’accostamento “bizzarro” di aspetti diversi.
Il costume di Arlecchino riassume proprio la funzione di ricomporre, in modo “umoristico”, ciò che comunque resta reciprocamente differente.
Questa possibilità di dare ordine nel ricomporre affascina soprattutto l’adolescente per il particolare stadio evolutivo da lui raggiunto. “Nel periodo adolescenziale per la prima volta l’individuo, anche grazie alle nuove risorse cognitive che ha acquisito, sente il bisogno di raggiungere un’armonica coerenza interna fra le diverse istanze che lo impegnano in una prospettiva di sviluppo. In relazione ai processi di differenziazione sociale ed alla crescente complessità sociale, l’adolescente si trova di fronte a una molteplicità di percorsi possibili legati ai diversi ruoli e ai diversi ambiti di esperienza” [17].
Tentando di ricomporre, di dare un significato alla contraddittorietà, la festa aiuta a comprendere l’esistenza, ad accrescerne il senso (ed il giovane è proprio in cerca di un senso da dare a ciò che altrimenti resterebbe in-sensato).
Ma in questa opera di mediazione fra significati contraddittori, fra tendenze opposte ed in ultima analisi inconciliabili, anche la festa, come qualsiasi altra forma di mediazione simbolica, ha i suoi limiti: malgrado tutti gli sforzi, non vi è alcuna manifestazione che possa racchiudere, comprendere, rappresentare per intero l’esistenza, il vissuto[18].
In particolare la polisemia della festa comporta anche la sua incompiutezza, la sua inconcludenza, la provvisorietà, il suo carattere effimero: basta poco per trasformare qualsiasi festa da un momento gioioso agli “orribili balli” di Michelet; e comunque è sempre rapido il ritorno alla ferialità. La melanconia che si insinua nella festa deriva proprio dalla consapevolezza della sua caducità e di questo rapido ritorno.
Per questa sua precarietà e inconcludenza, la festa è costretta a ricominciare sempre daccapo. Quando nei giovani assistiamo ad una continua ricerca di emozioni, di occasioni per far festa, dovremmo cogliere, appunto, la necessità, per l’ennesima volta, di ricominciare a trovare un senso, di riordinare i pezzi multicolori nel loro (e nostro) costume di Arlecchino.
Note
[1] Cfr. in proposito J. CAZENEUVE, La Sociologia del Rito, Il Saggiatore, Milano 1974; V. TURNER, Dal Rito al Teatro, Il Mulino, Bologna 1986; C. GEERTZ, Interpretazione di culture, Il Mulino, Bologna 1987.
[2] Cfr. P.L. BERGER – T. LUCKMANN, La realtà come costruzione sociale, Il Mulino, Bologna 1969.
[3] Cfr. A. CAVALLI (a cura), Il tempo dei giovani, Il Mulino, Bologna 1985; A. CAVALLI – A. DE LILLO, Giovani ‘90. Terzo rapporto IARD sulla condizione giovanile in Italia, Il Mulino, Bologna 1993, p. 73 ss.; P. MONTESPERELLI, La maschera e il “puzzle”: i giovani fra identità e differenza, Cittadella, Assisi 1984.
[4] Cfr. R. CARTOCCI, Fra Lega e Chiesa, l’Italia in cerca di integrazione, Il Mulino, Bologna 1994, p. 70 ss.
[5] Cfr. F. CRESPI, Assenza di fondamento e progetto sociale, in AA.VV., Il pensiero debole, Feltrinelli, Milano 1983.
[6] Cfr. M. WEBER, Il lavoro intellettuale come professione, Einaudi, Torino 1973.
[7] Cfr. S. ACQUAVIVA – R. STELLA, Fine di un’ideologia: la secolarizzazione, Borla, Roma 1989.
[8] Cfr. F. GARELLI, La generazione della vita quotidiana, Il Mulino, Bologna 1984; V. CESAREO, La cultura dell’Italia contemporanea. Trasformazione dei modelli di comportamento e identità sociale, ed. Fondazione G. Agnelli, Torino.
[9] Cfr. J. MICHELET, Nos fils, Flammarion, Paris 1895.
[10] Cfr. V. VALERI, Festa, in Enciclopedia Einaudi, Torino 1979, vol.VI
[11] Cfr. A. CAVALLI – A. DE LILLO, o.c., p. 205ss.
[12] Cfr. L. SCIOLLA, Il pluralismo culturale nelle società complesse, in AA.VV., Azione sociale e pluralità culturale, Angeli, Milano 1992; C. GEERTZ, Interpretazione di culture, Il Mulino, Bologna 1987; J. HABERMAS, La crisi della razionalità nel capitalismo maturo, Laterza, Bari 1975.
[13] Cfr. U. ECO, Trattato di Semiotica Generale, Bompiani, Milano 1975.
[14] Cfr. A. CAVALLI, o.c., p. 514ss.
[15] J. J. ROUSSEAU, Opere, Sansoni, Firenze 1972.
[16] Cfr. H. SCHWARTZ – J. JACOBS, Sociologia qualitativa. Un metodo nella follia. Il Mulino, Bologna 1987.
[17] A. PALMONARI, Psicologia dell’adolescenza, Il Mulino, Bologna 1993, p. 147.
[18] Cfr. F. CRESPI, Le vie della sociologia, Il Mulino, Bologna 1985; La paura del quotidiano, Il Mulino, Bologna 1987.