I Santi: quando la vocazione si decide nel vissuto
Si fa presto a parlare del primato dello Spirito nella nostra vita. Ma va anche detto che ne facciamo tutti – prima o poi – la tangibile, decisiva, quanto inenarrabile esperienza. Chiamiamolo pure “caso”, “combinazione”. Ma chi vive di fede tocca con mano come sia Dio a tessere la trama della vita, o almeno a tenere in mano il bandolo della matassa. Ci si presenta un’occasione per pregare “divinamente” e – dispettosa come una nebbia a primavera – ci sorprende la più inafferrabile delle aridità. Poi, magari a contatto con una persona, con un problema, ci risuona dentro una parola, la Parola, che non avevamo mai percepita prima così chiara ed evidente. Oppure, quante volte ci siamo seduti, come Elia, sdegnati sul ciglio della nostra strada, imprecando alla nostra testardaggine e gridando a Dio di sbrigarsele lui, certe rogne: e, di lì a poco, ritrovare l’entusiasmo, intravedere uno spiraglio, alzarci e riprendere a camminare.
Sono esperienze tangibili, perché nessuno al posto nostro si sente così realmente “pizzicato” da una forza che gli sfugge, da un amore di cui aveva diffidato. Ma sono anche esperienze indicibili, perché – a narrarle – si rischia di passare per superstiziosi o creduloni: e poi vai pure a districarti tra la selva della psicologia, della rimozione, dell’inconscio… Pur tuttavia sono esperienze decisive, per la storia di una vocazione: al pari di quelle che decidono un innamoramento, un matrimonio, o la scelta di mettere al mondo un bambino. Sono momenti in cui capiamo sulla nostra pelle che “caso”, “combinazione”, “coincidenza” non esistono nel vocabolario di Dio.
Nella storia dei santi
Se tutto questo è verificabile nella piccola, spesso anonima e grigia, storia di ciascuno di noi, se ne trova meravigliosa, spesso avventurosa descrizione sul maxi-schermo a colori della vita dei santi. In primo luogo per il loro modo di porsi dinanzi al tempo e alla storia.
Chi familiarizza con l’agiografia tocca con mano, e in maniera davvero singolare, quello che dovrebbe essere il giusto rapporto dell’uomo e della donna di fede con lo svolgersi del tempo. Se l’ombra lunga del peccato induce la persona a vivere gli eventi come fastidioso ostacolo in vista della conoscenza della verità, nella vita del santo i fatti sono luogo in cui Dio si rivela e parla. Per il santo la verità non veste gli abiti facili ed evanescenti dell’idea, ma quelli scomodi e ruvidi della storia: la storia che si snoda attraverso le vicende concrete, e che, come la mappa di una caccia al tesoro, guida e sospinge verso la pienezza di significato. Per il santo si verifica quello che Edel Quinn ha affermato con lapidaria incisività: “Le circostanze sono i sacramenti della volontà di Dio”.
Questo “senso ulteriore delle cose” da un lato permette al santo di evitare l’idolatria del momento presente, un’immersione cieca e incondizionata nel “tutto va bene”: e, detto per inciso, sappiamo bene come questo rischio sia familiare alla cultura attuale.
Dall’altro lato questa lettura profetica della realtà impedisce al santo di semplicemente sdegnarsi di fronte allo status quo, perché le cose vanno male e non si possono cambiare: e qui ritroviamo lo spettro della sterilità pastorale, educativa o testimoniale che grava oggi sulle parrocchie, sulla famiglia, sulla scuola, sui rapporti interpersonali. Il santo, se rifiuta il presente, non lo fa all’insegna della ribellione, ma della sfida.
Egli stesso si interroga di fronte ai fatti e, aprendosi all’azione modellatrice dello Spirito, provoca sé e gli altri al cambiamento di una situazione. Davvero, guidati dai santi, possiamo capire cosa significa “discernere”: essi ci insegnano a penetrare nell’intimo dei fatti, a entrare in sintonia con il cuore umano, a sporcarci in qualche modo le mani con la vita; e pur tuttavia a dividere in profondità il grano dalla zizzania, a salvare il desiderio ma anche a educarlo.
Fede, progetto, passione
Per fare questa lettura, il santo dispone di una lente di ingrandimento tutta sua: la fede. È questa che gli permette di leggere tra le righe della storia, e soprattutto di assegnare l’ultima parola alla signoria di Dio in Cristo sulla storia. Parliamo di fede, ma – come è giusto che sia in una vita concreta e “narrabile” come quella dei santi – è necessario vedere come essa si traduce, ad esempio, nella “sapienza del cuore”: in ogni agiografia che si rispetti ci si imbatte prima o poi in una battuta umoristica pronunciata mentre tutti drammatizzavano, in un aneddoto incoraggiante, in una “pazza” fiducia nella Provvidenza, in un “gusto” della vita che ha contagiato discepoli e amici, in un’umiltà che talvolta fa a pugni col proprio temperamento più o meno docile.
Questa disponibilità dei santi nei confronti di Dio che parla nella vita e attraverso i fatti, si manifesta inoltre nei termini di progetto, in una viva passione per una causa, e in una conseguente pazienza di fronte all’usura della vita. Ancora oggi, guardando certe opere che sono nate per opera di alcuni nostri santi (canonizzati e non) c’è da chiedersi da dove nascesse una tenacia tanto radicata, una così feconda e contagiosa capacità di generare. Si esperimenta concretamente – pur nella sottile filigrana dei loro tanti o pochi anni vissuti su questa terra – l’azione altrimenti indicibile e comunque impalpabile della grazia, a cui si sono affidati e di cui hanno saputo fare cassa di risonanza. Nelle pagine che descrivono la loro vita si può notare come essi non si sono limitati a indagare, leggere, studiare i tanto strombazzati (oggi) “segni dei tempi”, ma li hanno anche interpretati, giudicati e soprattutto vi hanno risposto nei fatti.
Sapienza del cuore, disponibilità alla grazia, pazienza e passione, hanno dunque permesso ai santi di cambiare la loro storia, ma sono anche elementi che distinguono il santo da Superman o Robin Hood. C’è infatti un elemento che ingloba tutti questi fattori, e che costituisce la trama della loro vita vissuta: è la vocazione, una sorta di chiave di lettura di qualsiasi agiografia, se per vocazione intendiamo non la svolta di un momento, ma la fedeltà dinamica di chi ogni giorno ha rinnovato il suo sì.
Se si dovesse raccontare la vita di un santo, oserei dire di un qualsiasi santo, con uno strumento diagnostico come l’elettrocardiogramma, i capitoli dedicati alla loro vocazione farebbero registrare impennate pazze quanto simpatiche. Non è raro incrociare “storie di ordinaria follia” nella vocazione dei santi, ma sussiste in ogni caso un denominatore comune: i santi hanno deciso della loro vocazione perché si sono lasciati interpellare dai fatti, ne hanno tentato una lettura oltre la superficie, e soprattutto – parafrasando Isaia 6,8 – non hanno evitato lo scomodo interrogativo: “Chi andrà al posto mio?”, né la risposta di chi vive di fede: “Eccomi, manda me!”.
Un santo fra i tanti
Ma quando si parla dei santi non si pur non parlare di fatti, e soprattutto di persone con tanto di nome e cognome. Se parlo di sant’Alfonso de’ Liguori non è per fare pubblicità al mio fondatore, ma semplicemente perché conosco questo santo … un po’ meglio degli altri, e mi permette di dare più concretezza a quanto detto sopra.
Alfonso (1696-1787), primogenito di un capitano della flotta navale del Regno di Napoli, avvocato a 16 anni, frequentatore di salotti mondani e oggetto dei più lusinghieri progetti da parte del padre, a ventisette anni conosce la sua prima sconfitta da avvocato, per giunta nel processo più importante della sua carriera. Un processo il cui verdetto era stato già deciso dall’alto: un caso di corruzione che fa dire ad Alfonso: “Mondo ti ho conosciuto…”, indicando con questa frase il “vuoto” che si celava dietro le apparenze.
È in questo momento che esplode in lui lo choc degli “Incurabili”, l’ospedale napoletano dove già negli ultimi tempi si recava da volontario per curare le ferite dei più poveri. Avverte come un terremoto, e soprattutto una voce: “Lascia il mondo e datti a me”.
In quel momento ha fatto una prima sintesi: non ci sarà vera giustizia nel mondo se non se ne creano le premesse con la predicazione del vangelo della conversione. Inoltre, il contatto con gli Incurabili gli ha fatto capire che nella vita non tutto era dorato come i salotti che era solito frequentare. Aveva fatto il primo “passaggio”, lo stesso che nell’incarnazione aveva sospinto Cristo da una sponda all’altra della vita.
Alfonso sarà dunque sacerdote, naturalmente dopo aver placato tutte le ire paterne. Ma, se per accontentare il padre aveva deciso di rimanere in casa, lo Spirito si riservava di “lavorarlo” ancora. A contatto della umile gente della sua parrocchia, si accorge di quanto superfluo e astratto si riveli il suo curriculum di studi, e insopportabili le prescrizioni morali che allora trasudavano di giansenismo. Soprattutto fa l’esperienza – anche questa decisiva – delle “Cappelle Serotine”, una sorta di “gruppi ecclesiali” ante litteram, un’esperienza condotta nei quartieri più degradati di Napoli: capisce quanto la gente sia digiuna di Gesù Cristo, e soprattutto quanto desiderio essa abbia di imparare a pregare, di vivere da protagonista la propria fede, e di non sentirsi sbrigativamente allontanata dal confessionale solo perché ha bestemmiato.
Un altro tassello è collocato nella vocazione di Alfonso: è qui che nasce l’uomo del popolo, ma contemporaneamente il futuro dottore della Chiesa, il patrono dei confessori e dei moralisti, il maestro di preghiera, l’autore delle “Visite al Santissimo Sacramento” e di “Tu scendi dalle stelle”.
Ma l’esodo doveva continuare: in quanto membro delle Apostoliche Missioni, Alfonso sogna di evangelizzare la Cina o il Capo di Buona Speranza, ma intanto comincia a predicare nei paesi sperduti della Lucania e della Puglia, lì dove i preti non c’erano o – se c’erano – tutto facevano fuorché i preti. Capisce il dramma, ma non sa che intanto lo Spirito lo aspettava al varco, quello che segna la sua vocazione di fondatore. Stanco di queste fatiche, Alfonso si concede un momento di riposo sulla costiera amalfitana. Per puro caso incontra dei pastori, più abbandonati che nei paesi lucani e pugliesi. Capisce che la Cina è più vicina di quanto pensasse. Sente il dovere di dare lui – lui e nessun altro – una risposta. Dopo mille tentativi di capire la volontà di Dio, fa il voto del fondatore: fosse anche rimasto solo, avrebbe comunque portato avanti l’opera. “E facendo a Gesù Cristo un sacrificio totale della città di Napoli – dice il suo biografo Tannoia – decise di menare i suoi giorni dentro proquoi e tuguri, e morire in quelli attorniato da Villani e da’ pastori”.
Il “fatto” come “pro-vocazione”
Spero che da questo rapido excursus emerga il filo ispiratore di queste riflessioni: il santo è colui che coglie nei fatti concreti della sua vita la pro-vocazione a rispondere al disegno di Dio su di lui. È ovvio che ci sono gli antefatti alle grandi scelte, un’educazione di base che prepara il terreno, ma ci sono poi le crisi, i momenti forti (non sempre tali sul piano oggettivo o cronistico) che fanno da ponte di passaggio tra uno stato di vita e l’altro. Credo soprattutto che ognuno di noi pur chiedersi cosa sarebbe stato Antonio da Padova se non lo avesse così profondamente colpito la notizia dei primi martiri francescani in Marocco; o Ignazio di Loyola se non fosse stato costretto a letto dopo l’assedio di Pamplona; o Giovanni Maria Vianney se non fosse venuto a contatto con la semplice e disarmante realtà di Ars; o Francesca Saverio Cabrini se non avesse incontrato Mons. Scalabrini che la invitava a trovare a Ovest (tra gli emigrati in USA) quello che lei pensava di trovare a Est (gli infedeli in Asia). Guardando ai santi si comprende una cosa, oggi più importante che mai: chi – dopo un maturo discernimento – si convince che la propria vocazione risponde ai disegni di Dio, può benissimo lasciarsi andare alla logica di questa vocazione, cioè all’azione dello Spirito che modella la persona proprio attraverso il concreto svolgersi degli eventi. Ci fosse anche da spostare la montagna della propria paura o del proprio orgoglio, di Dio ci si può fidare: perché il nostro è un Dio fedele.