N.05
Settembre/Ottobre 1994

La festa dei diciottenni

Conosco due tipi di festa dei diciottenni. Uno: strutturato, impegnato, elaborato. L’altro: naif, gratuito fantasioso. Alla festa dei diciottenni del primo tipo si arriva dopo una lunga serie di tappe intermedie e un lungo cammino fatto di incontri contenutistici, di momenti di preghiera, di esperienze di carità.
Questo tipo di festa tende a una professione di fede dei diciottenni che, dopo aver ricevuto tanto dalla Chiesa (battesimo, eucaristia, cresima, penitenza…) sono chiamati finalmente a restituire, a dare qual cosa di sé alla comunità ecclesiale. La festa dei diciottenni del secondo tipo, invece, è una festa che la comunità ecclesiale (normalmente la parrocchia regala a tutti i giovani che in quell’anno arrivano alla maggiore età. Questo tipo di festa ai giovani non richiede nessun altro impegno che quello di partecipare. E più i partecipanti sono numerosi e più arrivano da “lontano”, più coloro che hanno organizzata la festa sono contenti. Questo tipo di festa ha in genere ingredienti molto semplici e “umani”: un bel pranzo a poco prezzo o gratis addirittura, un concerto di musica giovanile oppure un recital, e, per chi vuole, una preghiera o una messa.

 

 

Una valenza vocazionale?

Senza negare ovviamente allo Spirito la possibilità di arrivare ai giovani quando e come vuole, credo che si possa parlare di valenza vocazionale soprattutto nel caso della festa del secondo tipo. La festa dei diciottenni “impegnata” è una gran bella cosa, ma sa troppo di una Chiesa che non riesce a superare la cultura della cristianità e del “tu devi”: “Sei nato in Italia e quindi sei cristiano. Perciò devi fare questo e quest’altro; devi impegnarti; devi comportarti così; devi votare cosa. Devi! Devi! Devi! …”.

Questa festa dei diciottenni – che comunque è una cosa bellissima e magari la facessero tutte le parrocchie e le diocesi – rischia di finire a fare la guerra sempre con gli stessi soldati, perché si restringe ai giovani che, per un motivo o per l’altro, non se la sono data a gambe dopo la cresima e sono rimasti lì a dare una mano in parrocchia, a lavorare nelle associazioni o nel volontariato.

La festa dei diciottenni di tipo naif è espressione invece di una Chiesa che sta faticosamente scoprendo che gli altri – ragazzi e giovani prima di tutto – non “devono” niente, perché è la Chiesa che ha il dovere di andare ad annunciare il vangelo. Gesù infatti, salendo al cielo, non ha gridato a tutti gli uomini: “Dovete venire ad ascoltare e a dare una mano a questi miei discepoli”, ma ha detto ai discepoli: “Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura” (Mc 16,15). Questo tipo di festa dei diciottenni è espressione di una Chiesa che non insiste sul fatto che i ragazzi “devono” in qualche modo restituire quello che hanno ricevuto con i sacramenti della cosiddetta iniziazione cristiana, perché sa che essi, questi sacramenti non li hanno chiesti. Che anzi, qualche volta (si pensi soprattutto alla cresima fatta in seconda o in terza media!) li hanno accettati sbuffando, solo perché “bisognava farli” e perché, tutto sommato, fruttavano dei grossi regali.

La festa dei diciottenni del tipo naif è espressione di una comunità cristiana che non si ostina a immaginare le cose come dovrebbero essere, ma le guarda coraggiosamente come sono. Non immagina, ad esempio, che il cammino dei bambini di oggi verso i sacramenti sia la stessa cosa del cammino dei catecumeni nei primi secoli della Chiesa, perché sa che ci si trova di fronte a una cosa completamente diversa. E ne prende atto: dopo la cresima, i ragazzi e le ragazze, se non hanno avuto la fortuna di essersi imbattuti in un’esperienza di gruppo, devono essere ricontattati e rievangelizzati (ammesso che fossero stati già evangelizzati una prima volta…) di nuovo. 

Questa festa dei diciottenni, senza impegni o “cammini di fede” strutturati, è qualcosa di simile a quello che succede nelle famiglie. Forse ci sono – ma io non ne conosco – delle famiglie che festeggiano i loro diciottenni puntando sulla leva del dovere: “Ormai hai diciotto anni, finora ti abbiano dato tutto: cibo, vestiti, scuola, divertimenti, adesso devi cominciare a restituire quello che hai ricevuto. Altrimenti te ne vai ad abitare per conto tuo”.

Io conosco famiglie che festeggiano i diciottenni con un gran pranzo e con un dono attesissimo: l’assegno per segnarsi alla scuola guida in modo da avere quanto prima la possibilità di scorrazzare con l’auto dei genitori, in attesa di quella personale. Ciò naturalmente non esclude che il traguardo dei diciotto anni non sia anche l’inizio di una maggiore responsabilità personale. Ma questo impegno a “rendere” scatta soltanto quando c’è la coscienza che “si è avuto in dono” veramente molto.

 

 

Riscoprire che siamo un dono!

Ed eccoci nel centro del discorso vocazionale. Tatti sanno che la vocazione non nasce da una fredda coscienza del dover dare, ma da una calda convinzione di aver ricevuto molto. Ora, cosa dà la nostra Chiesa di oggi ai ragazzi e alle ragazze che hanno scavalcato il traguardo della cresima? Spesso niente, o comunque sempre troppo poco, perché tutto lo sforzo pastorale è concentrato nel catechismo (eufemisticamente e pomposamente chiamato “catechesi per l’iniziazione cristiana”) e la sacramentalizzazione.

Fatta la cresima, tolto quel cinque per cento che rimane nella Chiesa grazie alle associazioni, ai movimenti e ai gruppi, gli altri sono abbandonati, perché se ne sono andati e perché: “Li ho invitati tante volte, ma non si sono fatti mai vedere!”…E quel cinque per cento che è rimasto quasi sempre deve ingoiare bocconi amari, perché non sono “parrocchiani” secondo il cuore del parroco.

Per tutti gli altri, la Chiesa si dilegua fino al matrimonio, quando una percentuale ancora piuttosto alta, per amore di una cerimonia “troppo bella” accetterà di sentirsi dire: “Se vuoi sposare in Chiesa, devi fare il corso prematrimoniale!”.

Cinquant’anni fa la Chiesa dava ai ragazzi e ai giovani un sacco di cose: lo spazio per giocare a pallone, la sala per il ping-pong, la sala cinematografica praticamente gratis, la raccomandazione per trovare lavoro… Tutte cose materiali, ma quelle di cui i giovani avevano bisogno. Poi: la gratuità del dono fa diventare spirituale anche la cosa più materiale che c’è. Adesso la Chiesa (non quella ufficiale dei documenti, ma quella concreta che si incontra nel volto e nelle parole dei parroci) cosa dà ai giovani? Spesso soltanto giudizi pregiudizialmente negativi sul mondo giovanile, e la recriminazione per aver abbandonato la pratica religiosa nonostante gli otto anni di catechismo.

Questa Chiesa, piagnona e sparagnina, non suscita vocazioni, perché l’amore nasce soltanto dall’amore. E più l’amore è gratuito più suscita risposte. Io non conosco nessun prete e nessuna suora che abbia fatto la sua scelta per senso del dovere. Chi è prete e chi è suora lo è perché ha incontrato sulla sua strada delle persone che lo hanno sedotto con la loro generosità. Penso spessissimo al parroco della mia infanzia: era prepotente, strillone, manesco, ma la sua casa era sempre aperta e noi ragazzi, come tutti, potevamo entrare a qualsiasi ora.

 

 

Dalle recriminazioni alla “compagnia”

Ecco perché io mi sono fatto la convinzione che la festa dei diciottenni del tipo naif abbia un notevole valore vocazionale. Essa può essere lo spiraglio attraverso la quale la comunità parrocchiale riscopre che non deve stare a recriminare perché i giovani se ne sono andati via da Gerusalemme per tornarsene a Emmaus. Essa, se accompagnata da tanti altri gesti di amore gratuito, può sospingere la Chiesa sulla strada di Emmaus per accostarsi ai giovani e camminare con loro; per suscitare le loro domande così da poter dare risposte, non ovvie e retoriche, ma tali da fare ardere il cuore; per farli sentire utili (“Resta con noi perché si fa sera” Lc 24,29); per farsi riconoscere da loro nel gesto dello spezzare il pane. Cioè nel gesto della generosità gratuita. Una festa per diciottenni, organizzata soltanto con lo scopo di fare un bel regalo ai giovani, soprattutto a coloro che non si ha più occasione di vedere spesso, se serve a creare una mentalità nuova, può essere il gesto dello spezzare il pane che apre gli occhi dei giovani e li fa scattare in piedi per ripartire senza indugio verso Gerusalemme.

Una Chiesa che torna a dare molto ai giovani, riceverà in cambio tantissime vocazioni. Dice niente il fatto che, ad esempio, le vocazioni nascono con una certa facilità nelle comunità terapeutiche gestite da preti e in tutte le esperienze dove la Chiesa si presenta come colei che dà gratuitamente?

Un’ultima cosa sulla festa dei diciottenni del tipo naif. Questo tipo di festa offre un altro grandissimo vantaggio: non richiede educatori professionisti o complicate consulenze di esperti. Una festa così ogni parrocchia, anche la più piccola e scalcinata, la sa e la può organizzare.