La vocazione entro le tappe della vita di un giovane
Ogni vocazione, per prendere corpo nella concreta persona del giovane chiamato, deve inserirsi nel vivo della sua esistenza. Deve poter operare come un lievito che trasforma la pasta, come una luce che orienta, riscalda e offre energia per percorrere un cammino.
I “passaggi” necessari
Uno dei modi centrali di quest’incarnazione nel vivo dell’esistenza sono i “passaggi” che caratterizzano l’età evolutiva. Si tratta a volte di fatti socialmente significativi nella vita del giovane, quali ad es. gli esami di maturità, la festa del compleanno, in particolare il 18° compleanno, il servizio civile o di leva, l’eventuale festa di laurea; oppure si tratta di passaggi ecclesiali legati ai sacramenti. Oppure altre volte si tratta di avvenimenti rilevanti nella storia personale, ad es. un incontro significativo, la malattia, la morte di una persona cara, un avvenimento interiore, ecc.
Questi “passaggi” svolgono una funzione preziosa per la crescita. Hanno un compito duplice. Da un lato operano uno iato, uno stacco lungo il corso ordinario della vita. Aprono una fessura su realtà altre, diverse, oltre l’immediato gioioso o duro. Possono consentire di vedere orizzonti nuovi, prospettive di vita diverse; possono approfondire maggiormente il senso di ciò che si fa.
Dall’altro possono essere occasione per dinamizzare il presente, per radicarlo più in profondità. Possono offrire significati nuovi al vivere quotidiano. Ne deve emergere una dialettica di vita chiamata a spingere in avanti, ad aiutare a divenire se stessi in verità, a rispondere alla vocazione per cui si è fatti. Ma ciò non è automatico. Non va da sé. Frequentemente ristagno, annaspamento, indecisione contrassegnano molti giovani per periodi più o meno lunghi. Con frequenza emergono soluzioni di accomodamento in un qualche modo, al riparo presunto dai rischi della vita, dalle fatiche necessarie.
Come mai succede questo? Questi “passaggi” quale eco personale sono chiamati ad avere per facilitare un cammino vocazionale nell’attuale contesto socio culturale? A quali condizioni tali “passaggi” non sono fine a se stessi ma possono aprire ad una vita come vocazione?
La funzione dei “passaggi” è centrale e indispensabile per la crescita personale, ancor più per quella vocazionale. Hanno il compito di dinamizzarla, di significarla e di aprirla di tappa in tappa verso la sua pienezza. Ora per attuare questo compito occorre che i “passaggi” svolgano il loro ruolo vocazionale; e occorre che siano vissuti nelle debite condizioni.
Ruolo vocazionale dei “passaggi”
Il compito vocazionale dei passaggi emerge da come prende avvio e si nutre la vocazione. Per sé la nascita di un progetto di vocazione è sempre un fatto originale, così come è singolare la storia degli uomini. Tuttavia, se si volessero ricondurre queste diversità indefinite ad alcuni tipi principali, se ne potrebbero segnalare tre.
Nel primo caso si riscontra che il progetto di vocazione è talmente precoce da confondersi con i ricordi personali più antichi. “Ci ho sempre pensato, non ho mai immaginato che potesse essere diversamente”. Ciò non impedisce in nessun modo che questo progetto così stabile subisca delle eclissi piuttosto lunghe, dopo le quali esso ricomincia a riproporsi.
Altre volte il progetto nasce bruscamente con la conversione o per l’incontro dell’uomo con il Dio personale. “La mia vocazione religiosa è cominciata con la mia fede”.
Più spesso il progetto si elabora lentamente, favorito da un temperamento spirituale che si è consolidato nella pratica più o meno lunga della disponibilità. Spesso allora un fatto banale come tanti altri lo fa emergere alla consapevolezza. Si sente spesso identificare la vocazione con quest’avvenimento rivelatore del progetto. Tuttavia esso è solo un catalizzatore, raramente significativo in se stesso. Entro questa varietà di partenza l’azione vocazionale dei “passaggi” risulta attuarsi secondo alcune modalità. Il “passaggio” infatti, fa posto ai seguenti avvii vocazionali.
Un’emozione privilegiata che polarizza
L’origine della vocazione o la presa di coscienza di un’eventuale chiamata in un gran numero di vocazioni, come anche il cammino, si trovano associati all’inizio alla presenza di “un’emozione che provoca nel soggetto un’eco speciale”. Quest’emozione talora si presenta in un modo ben preciso: un incontro, una cerimonia, uno spettacolo, una predica, un ritiro spirituale, una lettura, una domanda posta, un avvenimento gioioso o duro, ecc.; oppure un fatto interiore.
Sono tutte circostanze che risvegliano dei sentimenti che assumono un valore. vocazionale. Quest’emozione si presenta con un significato di appello che è ricevuto e interpretato in un modo diverso, secondo il livello di maturità dell’interessato e il suo carattere.
A volte l’emozione prende corpo in un modo lento e progressivo, quasi insensibilmente. Un giorno si prende coscienza più nettamente del sentirsi in stato di vocazione, senza poter dire come questo ha incominciato.
L’emozione privilegiata fa da base alla risposta vocazionale e trasforma la realtà della scelta. Essa serve da punto di riferimento; facilita la polarizzazione delle disponibilità di risposta vocazionale. Costituisce un’indicazione provvidenziale che rischiara un aspetto particolare della realtà. Pone una problematica, avvia una ricerca ed esige una verifica.
Tuttavia in questa prima modalità, contrassegnata dalla “emozione privilegiata”, la risposta vocazionale va adeguatamente valutata per la sua ambivalenza, a volte ambiguità. L’emozione privilegiata talora può essere prigioniera di un atteggiamento egocentrico. In questo caso essa è centrata sul valore individuale del fatto che l’ha suscitata, senza porre affatto in questione il carattere soggettivo di tale emozione e senza che il soggetto afferri tutte le condizioni per realizzare la vocazione. Scegliere quella data risposta vocazionale è allora essenzialmente scegliere di ritrovare o di prolungare un’emozione privilegiata.
Altre volte, soprattutto durante l’adolescenza, l’emozione privilegiata viene fortemente idealizzata. In questo caso l’importanza dell’emozione privilegiata è tale che ogni fattore sfavorevole alla scelta vocazionale, ogni contraddizione tra il desiderio suscitato dall’emozione e la possibilità di realizzarlo sono respinti o ignorati. Il soggetto è come innamorato della realtà idealizzata dall’emozione privilegiata; rifiuta o teme ogni problematica che rischia di contestare questa emozione.
Desiderio di imitare un modello
La risposta vocazionale nel suo cammino evolutivo si struttura generalmente nel “desiderio di imitare una persona o un personaggio” preso come esempio o come punto di riferimento. Rispondere alla chiamata vocazionale è allora “essere avvocato come mio padre”, “prete come il signor Parroco”, “Professore come il mio insegnante”, ecc. Scegliere di imitare questo o quel personaggio è voler beneficiare delle indicazioni provvidenziali ricevute attraverso la riuscita individuale di questo personaggio, approfittare della sua esperienza e della sua ricerca come di un segno di Dio.
Il ruolo svolto dal “modello vocazionale” consiste nell’essere un mezzo per rispondere alla vocazione. Esso rende possibile considerare anche altri ruoli vocazionali risultanti da altri segni sopraggiunti ulteriormente. Non si è prigionieri del personaggio che si è sognato di imitare. Ciò che conta è la meta. La funzione in cui ci si è impegnati può essere rimessa in discussione da colui che chiama, può essere modificata nella sua forma senza che la vocazione entri in crisi.
Il bisogno di idealizzazione deriva certamente dalla ricerca di compensazione e in quanto tale è ambivalente nei suoi esiti. Può consentire un passo avanti, come anche un ristagno bloccante. Il modello può essere amato per se stesso senza mettere mai in discussione il valore soggettivo di tale desiderio di imitare. E allora se ne è prigionieri e inautentici.
Altre volte, specialmente durante l’adolescenza, il bisogno di imitare è talmente forte (perché il bisogno di compensazione è molto forte) che impedisce di considerare le conseguenze della scelta. Nel personaggio che si vuole imitare non si vede che ciò che è soddisfacente, riuscito, rassicurante. Il desiderio di imitare il modello sembra essere il fine della vocazione. Molti professionisti, preti, sposi rimangono attaccati all’imitazione di un modello idealizzato, ammirato, adorato, idolatrato o detestato al momento della loro adolescenza. E ciò si manifesta in un’incapacità o in una difficoltà a guardare la realtà totale della scelta e dell’impegno vocazionale e a realizzare un adattamento corrispondente alla loro età e alle esigenze del mondo in evoluzione.
La scelta di un ruolo
La risposta vocazionale matura si manifesta nella scelta o nell’accettazione di “un ruolo vocazionale”, di una funzione, di una professione entro uno stato di vita che progressivamente è andato assumendo un valore vocazionale. È questo il momento tipico della scelta di giovinezza.
La scelta vocazionale e l’impegno tengono conto e oltrepassano il punto di vista personale, senza tuttavia rifiutargli il suo valore. La risposta vocazionale è sentita “come un ruolo possibile proposto da colui che chiama”.
Il cammino vocazionale richiede allora la ricerca di un aiuto, il bisogno dello sguardo di un altro su di sé; ciò è necessario non per scaricare o fuggire la responsabilità dell’impegno, mantenendo l’indipendenza più o meno fittizia di una pseudo-filiazione spirituale, ma per arrivare a definire meglio ciò che è egocentrico in ogni uomo, qualunque sia la sua età.
L’atteggiamento socio-centrico nell’assumere un dato ruolo è sempre caratterizzato dalla possibilità di lasciarsi mettere in questione, senza che ciò divenga infantilismo o asservimento. Inoltre esso si precisa come “una profonda disponibilità” per mezzo di un ruolo accettato o desiderato che domanda una seria maturazione e un’autentica fede in colui che chiama. I “passaggi” aprono la porta al prendere corpo di queste forme di avvio vocazionale. Funzionano da deterrente.
Perché i “passaggi” siano vocazionali
Data la centralità dei “passaggi” nel risveglio e nella crescita vocazionale, occorre che essi possano svolgere effettivamente il loro ruolo. Questo è reso possibile se vengono educativamente vissuti a date condizioni. Le principali sono le seguenti.
La significatività
Occorre che la persona li viva in modo non periferico, ma ancorati sul suo bisogno di dar senso alla sua vita, un senso tendenzialmente pieno e positivo. E ciò che dà senso in pienezza è ciò che è sperimentato come sorgente di vera gioia, seppure parziale, di amore genuino, di libertà autentica, di verità gioiosa e orientante, di fecondità di vita. Di questo non basta parlare o sentirne parlare. Occorre farne esperienza diretta in prima persona così da compromettervisi.
La profondità
Si tratta di aiutare educativamente a vivere tali passaggi non solo esteriormente, in modo spettacolare, ma sentendone la provocazione tramite un’esperienza positiva o di sofferenza. Questo richiede di viverli oltre l’emozioniamo o l’appariscente o il discorsivo. Comporta imparare a viverli a partire dal nucleo dell’identità di sé, dalla propria unicità esistenziale.
La verità di sé e della vita
Per facilitare l’opera dei “passaggi” occorre imparare a viverli a partire da chi si è in realtà. Frequentemente i “passaggi”, soprattutto se dolorosi, possono mettere in crisi una data immagine di sé poco vera perché troppo negativa o al contrario perché ipervalorizzata, un po’ aureolata. Serve allora non retrocedere di fronte a ciò che è impegnativo, ma compiere un passo in avanti verso il riconoscimento della verità/realtà di sé e della vita, gioiosa o dura. È la verità che costruisce e che rende liberi e veri in rapporto al proprio progetto di vita.
La responsabilità
È questo il contrassegno di un’azione educativa autentica. I “passaggi” per sé stimolano la persona interessata ad aprirsi ad una realtà altra rispetto a se stessi, ad entrare in una situazione, ad incontrare delle persone con le loro richieste. Chiedono di entrare in rapporto di mutuo riconoscimento e di scambio, di rispondere in prima persona, vivendo significativamente la propria vita.
È allora che la vocazione, come risposta a Dio che chiama, a poco a poco può prendere corpo. Entra nella vita del giovane lungo le varie tappe, non come una realtà giustapposta, ma da dentro come il lievito, come un appello vitale che attrae e orienta.