N.04
Luglio/Agosto 1995

Giovani e consacrazione

Offro qualche spunto di riflessione, senza pretese di essere esauriente e senza essere sicuro di centrare l’obiettivo, anche perché credo che il “pianeta giovani” – come viene talvolta definito il mondo giovanile nel suo insieme – rappresenti una realtà così complessa e in così rapida evoluzione che una riflessione che pensi di coglierlo nella sua totalità richiede tempi così lunghi da rendersi conto, alla fine, di aver descritto una realtà giovanile che non esiste più. Mi limiterò pertanto a qualche considerazione, evidenziando alcuni punti che meriterebbero un approfondimento. Il titolo di questa riflessione mi spinge a leggere la realtà giovanile da due angolature: i giovani di fronte alla consacrazione come un progetto di vita possibile e i giovani che in questo progetto sono entrati e lo stanno attuando.

 

 

 

Consacrazione come progetto di vita possibile

 

Intendo considerare, in questa prima parte, i giovani non o non-ancora legati a un cammino di consacrazione. Guardare a questi giovani ci obbliga a dare uno sguardo, pur breve e necessariamente superficiale, al mondo e alla società nella quale nascono e vivono.

La nostra società odierna ci si presenta come un complesso molto intricato di realtà: da una parte, per usare un’espressione ormai di moda, il mondo sembra avviato a diventare un “villaggio planetario”, per la velocità delle comunicazioni e per la facilità con cui in questo villaggio ci si può muovere, rendendosi presenti alle situazioni più diverse e più lontane le une dalle altre. D’altra parte, nuovi fenomeni di razzismo e altre tendenze nazionalistiche non lasciano spazio al fiorire di questo anelito e spengono sul nascere questa speranza di fare del mondo un vero villaggio planetario, una famiglia unita. Sono due aspetti che, oltre la reale o apparente contraddizione, dicono la tensione insita in ogni cammino, in ogni realtà che vive e cresce. È una tensione che coinvolge anche il mondo giovanile e che ogni giovane vive dentro di sé, sotto le forme e con le manifestazioni più diverse.

Una seconda considerazione è legata a una parola che ritengo fondamentale per il nostro argomento: l’appartenenza. Non si può parlare di consacrazione senza parlare di appartenenza, perché consacrazione vuol dire, in un certo senso, appartenenza. Se la prima appartenenza sigillata dalla consacrazione è quella che si riferisce all’unione con Dio, questa non elimina altre forme di appartenenza altrettanto forti, almeno esistenzialmente, in quanto mediazioni dell’appartenenza a Dio la quale non può, almeno nella normalità, essere vissuta in astratto; esse sono: l’appartenenza alla Chiesa, a una famiglia religiosa, a una comunità.

Ora, la realtà dell’appartenenza oggi è una realtà debole e spesso tutta da costruire, perché richiede identificazione, e oggi il giovane si identifica con difficoltà e si riconosce con fatica in una famiglia, in una società, in un gruppo. L’appartenenza stessa a una famiglia è qualcosa di problematico; se da una parte il giovane sente di appartenere alla famiglia nella quale è nato e ha vissuto i primi anni della sua vita, dall’altra questa non è più un nucleo solido e forte come poteva essere un tempo; inoltre, i legami con la famiglia naturale vengono notevolmente indeboliti da altre forme di aggregazione; del resto, è già tanto se il giovane in questione può condividere la sua appartenenza alla stessa famiglia con più di un’altra persona, dato che i nuclei familiari sono ormai estremamente ridotti.

Ugualmente l’appartenenza a un ceto sociale, a una religione, a una parrocchia… sono categorie, concetti deboli: il giovane oggi non sa a chi o a che cosa appartiene, non conosce un orizzonte entro il quale potersi descrivere, lo si direbbe proiettato in un’esistenza nella quale gli risulta difficile definirsi e trovare un’identità – in fondo, forse neppure gli “interessa” – e tanto meno trovare un ideale per cui vivere. Non parliamo di un ideale per cui dare la vita, una terminologia che parla ancora di meno. È una situazione, questa, che coglie una parte della società, del mondo di oggi, della gioventù di oggi, ma anche da questa “fetta” di società vengono i “nostri” giovani, e per loro il cammino di consacrazione diventa un cammino nel quale tutte queste categorie sono da costruire o ricostruire, perché sono quelle che fanno da sfondo a una scelta di consacrazione, che ovviamente significa appartenenza e fa riferimento a un ideale che dà alla vita un orizzonte entro il quale realizzarsi, esprimersi, anche se questo orizzonte poi rimane aperto a uno più ampio che è quello della fede che illumina il senso profondo della vita e della morte, del mondo e della storia, del cammino dell’umanità, ecc.

Nel contesto odierno rimane sorprendentemente attuale una domanda che il Papa si pone, rivolgendosi ai giovani del nostro tempo: “Che cosa devo fare perché la mia vita abbia valore, abbia senso? Questo interrogativo appassionante nella bocca del giovane del Vangelo suona così: Che cosa devo fare per avere la vita eterna?. Un uomo, che ponga la domanda in questa forma, parla in un linguaggio ancora comprensibile agli uomini d’oggi?”[1].

Analogamente, potremmo chiederci se uno che parla di consacrazione parla un linguaggio ancora comprensibile per gli uomini, per i giovani del nostro tempo.

Continuando il suo “dialogo” con i giovani, Giovanni Paolo II li porta al cuore della “questione”: “Allo stesso tempo, però, è chiaro che, quando ci poniamo di fronte a Cristo, quando egli diventa il confidente degli interrogativi della nostra giovinezza, non possiamo porre la domanda diversamente da quel giovane del Vangelo […] Ogni altra domanda sul senso e sul valore della nostra vita sarebbe, di fronte a Cristo, insufficiente e non essenziale”[2].

È vero: in effetti c’è un “luogo” che rende comprensibile questo linguaggio, che dà senso a queste parole. Non è un luogo geografico, ma un’esperienza, un dono. È lo sguardo di Gesù che, anche oggi, si posa su qualcuno, con amore e rispetto. Ma con forza, esigente. “Se vuoi essere perfetto…”. “Una cosa sola ti manca…”. Per questo “qualcuno” la consacrazione diventa il senso stesso della vita.

 

 

 

Consacrazione come progetto di vita in atto

 

Consideriamo, in questa seconda parte, quei giovani che, situatisi davanti all’ideale della consacrazione e, trovatolo significativo per loro, si sono lasciati raggiungere dallo sguardo d’amore di Gesù e hanno sentito che questa realtà andava assumendo contorni sempre più precisi nella loro vita e, finalmente, vi sono entrati, ne hanno fatto professione. Vorremmo condividere una parte della loro esperienza e scoprire come si situano, questi giovani, in rapporto alla loro consacrazione: il cammino che viene dopo, che fa crescere e maturare questa appartenenza, questa scelta di “consacrare” a Dio la loro vita.

La consacrazione può essere vista e vissuta in diverse maniere. Mi limito a descriverne due, con rapide pennellate.

– La scelta di consacrazione può essere la scelta di un nido in cui si entra per stare al sicuro, al caldo, per proteggersi dalle asperità e dalle difficoltà della vita. In questo senso è un po’ come il punto di arrivo di un cammino che parte da una difficoltà a situarsi nella vita e conduce a questa “posizione” nella quale, proprio perché si sperimenta l’appartenenza a una famiglia religiosa e a una comunità, si sta bene: si trova una casa nella quale si sta meglio che nella propria, si trovano dei fratelli con i quali si sta meglio che con i propri – se ce ne sono -, si trovano degli uomini o delle donne adulti ai quali poter fare riferimento, come ai genitori, e con i quali si hanno rapporti migliori di quelli lasciati a livello familiare. In questo senso la consacrazione può diventare una fuga dalla realtà, una chiusura, un rifiuto o una paura di affrontare realmente la vita e il mondo con le loro tensioni e i loro problemi, un rifiuto e un’incapacità profonda di guardare la realtà per quello che è, forse proprio perché non si è mai stati capaci, o non si è mai stati aiutati, a guardarla per quello che era.

– Un altro modo di situarsi, invece, è quello che porta a vedere e a vivere la propria consacrazione come un punto di partenza, come una sfida che si raccoglie: una sfida con se stessi, con la società, con gli altri. Di qui anche un senso nuovo o ritrovato nella propria vita: nuovo per chi viene da cammini di conversione, ritrovato per chi viene da cammini più vicini alla religione o alla Chiesa; un punto di partenza forte, comunque, per una missione. 

 

Il giovane che entra nella vita religiosa mediante la consacrazione è chiamato a far luce su questa realtà, sulla sua scelta e sul suo cammino, un cammino che può portarlo a chiudersi in se stesso, nella propria comunità, in quell’appartenenza che in fondo dà sicurezza ma non fa crescere, oppure un punto di partenza verso una missione che offre meno sicurezze visibili, forse, rispetto ad altri cammini, ma in cui si ravvisa una sfida, una chiamata, un ideale che si vuol raggiungere.

Anche i voti, che caratterizzano la consacrazione in senso specifico, possono essere visti in queste due prospettive.

La povertà può essere vista e vissuta come uno stato di vita nel quale, pur non avendo grandi cose e pur non essendo ricchi, si ha comunque tutto quello di cui si ha bisogno: una casa dove abitare, ciò che è necessario per vivere… Questo tarpa le ali, è vero, a grandi o grandiosi progetti personali o individuali, però anche a quella che può essere la testimonianza che nasce da una vita realmente povera. La povertà del giovane consacrato deve essere innanzitutto testimonianza di una scelta di vita reali, dove non soltanto la povertà materiale, ma anche quella spirituale rende il giovane testimone di valori che vanno al di là dello star bene e dell’avere ciò di cui si ha bisogno, di realtà che vengono sperimentate come veri valori anche quando non ci fosse ciò di cui si ha bisogno… perché il proprio riferimento è Dio, la Provvidenza (“non affannatevi…”).

Il grande rischio dell’obbedienza è quello di offrire al giovane che ne fa professione l’occasione propizia per rifugiarsi in una volontà altrui, di trovare la sua pace nel non dover decidere – né per sé né per gli altri – e nel non dover prendere iniziative o assumere responsabilità, con tutti i rischi e i problemi che questo comporta. Ciò sarebbe troppo comodo; ma obbedire è fare della volontà di Dio il punto di riferimento costante e assoluto della propria esistenza, obbedire significa scegliere, operare delle scelte che richiedono maturità e che nascono dalla coscienza di essere chiamati a iscrivere, all’interno del progetto di vita della famiglia alla quale si appartiene, anche il proprio progetto di vita.

Che dire poi della castità, questa parola che nasconde più di quanto rivela, che spesso è vissuta come rifugio e come mezzo per sottrarsi a tante difficoltà di rapporto, per cui non si va incontro ai traumi o alle tensioni che inevitabilmente nascono quando ci si mette con un’altra persona per costruire insieme un’esistenza – dentro o fuori dell’orizzonte del matrimonio -: ci si limita a “star bene insieme”. Questo però può far nascere altri tipi di problemi, perché il cuore e l’affettività sono correnti che esercitano una pressione su qualsiasi muro si erga davanti a loro, per cui l’importante non è reprimere o costruire muri, ma canalizzare… Ora, la castità può e deve essere vissuta come energia, un’energia d’amore che si sprigiona – secondo leggi che è importante conoscere – per conquistare il mondo all’Amore attraverso l’amore, con tutti i rischi che anche questo comporta. Questo modo di vivere la castità è testimonianza e segno, non solo per il mondo ma per la Chiesa stessa che ne ha bisogno per la sua missione.

In definitiva, il binomio giovani-consacrazione dice sfida e missione per la Chiesa e per il mondo di oggi. Ritengo importante che al giovane sia chiaro che la scelta di consacrazione deve rimanere una risposta radicale a una chiamata radicale e che, lungi dall’essere una scelta di ripiego o un rifugio per incapaci o alienati o delusi – categorie purtroppo in aumento nelle nostre società del XX secolo -, è una scelta nella quale il giovane è chiamato a situarsi in piena coscienza e libertà e a lasciarsi coinvolgere per costruire, con i fratelli e in maniera unica, il Regno di Dio. In questo senso non esiste, forse, testimonianza più luminosa e significativa.

Non posso concludere senza accennare a un altro punto, importante e problematico nello stesso tempo: la capacità di “portare a buon fine” l’impegno preso con Dio e davanti ai fratelli nella consacrazione. Questa realtà, che si esprime in un linguaggio leggermente diverso con i termini di fedeltà e di perseveranza, non è un argomento marginale: essa fa riferimento a una scelta che va molto al di là della persona che vi si è impegnata e che dà alla consacrazione lo spessore che la rende testimonianza per il mondo attraverso i secoli e oltre il tempo.

A volte diciamo che i giovani del nostro tempo sono fragili e meno capaci di “arrivare fino alla fine”: ciò può essere vero, ma non si deve dimenticare che si tratta di un fenomeno culturale tipico di una società nella quale i giovani nascono e si alimentano e che quindi il problema – se di problema si tratta – va studiato e risolto alla radice.

Ciò che dà speranza, in tutto questo, è vedere che esistono, anche nella vita consacrata, giovani felici e pienamente realizzati, decisi a “fare la loro parte” per rispondere a quello sguardo d’amore che ha rivoluzionato la loro vita e per unire la loro testimonianza a quella di una schiera di uomini e donne che per il Regno di Dio hanno lasciato tutto ed hanno seguito “il più bello tra i figli dell’uomo”.

 

 

 

 

Note

[1] Giovanni Paolo II, Lettera ai giovani e alle giovani del mondo, Roma 1985, n. 5.

[2] Ivi.