Giovani e vocazione
Abbiamo tutti, e non soltanto i giovani, un profondo problema di senso della vita. Finisce, infatti, un secolo vissuto su delle grandi verità pubbliche, culturali e ideologiche che riuscivano a dare un significato alla storia collettiva ed alla vita individuale; e con la sua fine (emblematicamente segnata dalla fine del comunismo, grande ideologia del secolo) arriva la vittoria delle tante verità private, la vittoria cioè della soggettività come valore primario, un valore però che non riesce a dare senso anche al soggetto stesso.
Il primato della soggettività ha fatto sì che l’individuo si sia reimpossessato di se stesso, delle proprie scelte, del proprio destino, cosicché oggi c’è un’implicita tendenza a vedere tutto secondo l’ottica delle proprie sensazioni, tanto che è facile ascoltare frasi come “il lavoro è mio”, “il corpo è mio”, “il coniuge è mio”, “la vita è mia”, “il figlio è mio”, “il peccato è mio”. Quasi che l’individuo sia diventato il principe di questo mondo, autorizzato a sentire e comportarsi secondo un’ottica tutta personale, fuori di ogni verità collettiva, di ogni appartenenza collettiva, di ogni valore assoluto.
Si può capire la genesi ed il significato liberatorio di un tale processo sociale e culturale. Per secoli, specialmente in Italia, gli individui sono stati costretti ad agire, ed in parte a pensare, secondo rigidi apparati di norme dovute alle appartenenze sociali, giuridiche, religiose; valevano la norma e la “normalità” dettate da qualcuno per tutti, senza spazio per un processo di personalizzazione, di crescita della coscienza individuale.
Nel dopoguerra abbiamo avuto tre grandi fenomeni di evoluzione: l’occidentalizzazione della cultura quotidiana; la crescita dell’etica delle responsabilità e della dimensione coscienziale nella cultura religiosa; infine, le lotte liberali per l’aumento della sfera decisionale individuale (dall’obiezione di coscienza al divorzio, all’aborto). Questi tre fenomeni hanno innescato una sorta di reazione chimica di liberazione della soggettività. Un effetto che molti, specie nel mondo cattolico, hanno considerato come negativo ed ispirato a disvalori ma che nel complesso ha rappresentato una via di accesso della cultura italiana alla grande modernizzazione-occidentalizzazione che ha caratterizzato tutti gli ultimi decenni.
Non è questa la sede per ritornare sui grandi sospetti che il mondo cattolico ha coltivato verso questo enorme aumento del valore della soggettività, in alcuni casi disceso a puro e banale “soggettivismo etico”. Da parte mia sono convinto che ci sia un valore positivo nella soggettività anche per noi cristiani. E non solo perché essa viene da una antica cultura coscienziale tipica della Riforma protestante, verso cui comunque ci siamo riavvicinati e vogliamo riavvicinarci; ma anche e specialmente perché il cristianesimo moderno, quello “dell’età adulta”, non può che essere centrato nella bonhoefferiana “etica della responsabilità” e nel maritainiano “personalismo cristiano”. Nella soggettività non c’è solo il pericolo del soggettivismo etico (quasi dell’egoismo) ma c’è anche un accresciuto riconoscimento della potenzialità dell’uomo come essere unico ed irripetibile. Ed in fondo, lo si può dire in questa sede, anche ogni vocazione è sempre frutto di una chiamata e di un sentiero tutti soggettivi, personalizzanti.
Detto questo, però, non si può prendere atto che l’attuale trionfo della soggettività crea un pericolo di profonda solitudine individuale ed un pericolo di profonda mancanza di senso. C’è una bellissima frase di Rilke che scrive che c’è “il nulla dietro le mille sbarre della solitudine”; ed in effetti, specialmente parlando con i giovani (pur essendo essi immersi fino al collo nella civiltà della comunicazione globale, o forse proprio per questo), si capisce che la società moderna, restringendo gli orizzonti alla soggettività dei singoli (ispiratrice e insieme giudice dei comportamenti), rende i singoli prigionieri di se stessi, della propria esistenziale solitudine come della, altrettanto esistenziale, mancanza di senso.
Certo, come ho scritto prima, anche in tale vuoto può giungere la chiamata e la vocazione, che è sempre un rapporto con quell’“intimior intimo meo” di cui parla Agostino; ma saranno sempre una chiamata ed una vocazione solo individuale, soggettiva, al limite quasi mistica (e non a caso c’è tanto misticismo nei vari segmenti del mondo cattolico) ed in quanto tale, pericolosamente aperta alla potenziale crisi, una volta che l’impatto con il mondo o il variare delle personali vibrazioni di soggettività modifichino l’identità individuale, chiamandola o all’adattamento alla realtà o all’arricchimento (vero o avvertito come tale) dalla propria specifica personalità. Il pericolo, in altre parole, è che il senso, e la ricerca di esso, restino nella sfera dello psichismo individuale, spesso non arricchito da esperienze e rapporti con l’esterno.
C’è una via per sfuggire alla prigionia della soggettività ed alla vocazione tutta psichicamente soggettiva? Anche qui, il ricorso all’evoluzione culturale del mondo contemporaneo non è del tutto fuori ragione: la filosofia moderna ha capito da anni, ben prima della sua esplorazione di massa, che la soggettività non crea identità. Ed in proposito posso citare due frasi: una di Heidegger che dice “l’identità non è nel soggetto, ma nella relazione”; e l’altra di Levinas che dice “il volto di Dio comincia dal volto dell’altro”. In altre parole, un grande laico ed un grande credente giudaico ci dicono che il senso non è in noi stessi ma nel rapporto con gli altri, nella responsabilità verso gli altri, nella condivisione della vita con gli altri; e che la nostra stessa strada verso Dio come infinitamente Altro “deve” cominciare dal rapporto con l’altro, anche il più piccolo e marginale.
Sta in questo tipo di logica la seconda possibile strada alla ricerca di senso di tutti noi ed alla vocazione di coloro che avvertono una superiore chiamata. La “società del sentire” (delle emozioni e delle sensazioni soggettive) ritrova significato non solipsistico solo nel rispetto e nella scoperta della “alterità”, della ricchezza che c’è in tutti coloro che ci circondano visto che essi, come noi, sono persone uniche ed irripetibili, fatte ad immagine di Dio. È una strada che forse risulta più difficile, paradossalmente, per noi laici che per i sacerdoti: noi siamo troppo dentro la storia per avere attenzione agli altri, mentre i sacerdoti (sempre più segnati dalla c.d. “chiesa sociale”) avvertono con chiarezza che il senso del loro lavoro è proprio nello star vicini agli altri, specialmente nelle occasioni della difficoltà di vivere.
Forse, nella riflessione ho un po’ semplificato la distinzione fra un senso ricercato in se stessi ed un senso ricercato nel rapporto con gli altri. Ma credo di non sbagliare dicendo che quelle sono le due sponde su cui ognuno di noi gioca o deve giocare, quasi quotidianamente, nel “monitorare” la sua personalità e la sua esistenza. Altrimenti, scadiamo tutti nella fatica solitaria del quotidiano, magari coperta da una malinconia sommessa di noi stessi o dallo slittare in alto verso la fondamentalistica riaffermazione di valori così assoluti da non potere essere agiti nella realtà.