La pastorale vocazionale: “crocevia” della vita della Chiesa
“La pastorale delle vocazioni nasce dal mistero della Chiesa e si pone a servizio di essa. È quindi necessario che l’impegno di mediazione tra Dio che chiama e coloro che sono chiamati divenga sempre più un fatto di Chiesa”[1]. Ci sembra di poter affermare che questa affermazione costituisca una specie di “porta di ingresso” di tutto il Piano Pastorale per le Vocazioni (P.P.V.), non solo perché è la prima espressione che vi si legge, ma soprattutto perché è la chiave di lettura dell’intero documento.
Ecco tracciato così dal P.P.V. il cammino di rinnovamento: la pastorale vocazionale deve rivelare nelle attività l’essere stesso della Chiesa, vista come comunità di chiamati, e queste devono essere realizzate con uno stile tipicamente comunionale. In altre parole, si può dire che la pastorale vocazionale è chiamata ad operare un duplice passaggio: dall’essere interesse di pochi, deve diventare, sempre più, impegno di tutti i battezzati; e dall’attenzione alle iniziative, a volte slegate tra loro, si deve giungere a progettare dei veri e propri itinerari formativi.
La pastorale vocazionale nasce dal mistero della Chiesa
La comunità parrocchiale “è luogo privilegiato di annuncio vocazionale e comunità mediatrice di chiamate attraverso ciò che ha di più originale e caratterizzante: la proclamazione della Parola che chiama, la celebrazione dei segni della salvezza che comunicano la vita, la testimonianza della carità e il servizio ministeriale. L’annuncio vocazionale deve dunque innervare tutte le espressioni della sua vita”[2].
Puntando decisamente sulle tre realtà che caratterizzano la vita della Chiesa (catechesi, liturgia e carità) il P.P.V. ha voluto ricordare a tutti gli animatori vocazionali quale deve essere il loro prioritario impegno: non dare sfogo alla libera fantasia cercando di escogitare qualcosa di sempre nuovo e più accattivante, ma di inserirsi nella vita stessa delle nostre comunità per animarle dall’interno. Consapevoli come si è che “nella pastorale ordinaria di una comunità parrocchiale, la dimensione vocazionale non è un ‘qualcosa in più da fare’, ma l’anima stessa di tutto il suo servizio di evangelizzazione che essa esprime”[3].
Diamo ora un rapido sguardo all’impegno profuso in questi anni e a quello che resta da compiere perché la catechesi, la liturgia e la carità siano sempre più attente alla dimensione vocazionale.
La catechesi
Il Papa ha recentemente richiamato l’attenzione sull’importanza vitale di una catechesi attenta all’annuncio e alla proposta vocazionale: “Una catechesi organica e offerta a tutte le componenti della Chiesa, oltre a dissipare dubbi e a contrastare idee unilaterali o distorte sul ministero sacerdotale, apre i cuori dei credenti all’attesa del dono e crea le condizioni favorevoli per la nascita di nuove vocazioni”[4].
E dobbiamo dire che i Catechismi della CEI sono estremamente attenti alla dimensione vocazionale. Basterebbe solo fermarsi ai loro titoli per vedervi tratteggiato lo schema di un vero e proprio itinerario vocazionale: “Io sono con voi, Venite con me, Sarete miei testimoni, Vi ho chiamati amici, Io ho scelto voi..”. Soprattutto quest’ultimo, “Io ho scelto voi”, destinato agli adolescenti, è uno stupendo esempio di cammino di catechesi vocazionale. E non potrebbe essere diversamente, essendo gli adolescenti, più degli altri, impegnati nella costruzione della propria vita.
Per chi, poi, dai titoli vuole passare a dare uno sguardo più attento alle diverse unità dei Catechismi si accorgerebbe come il quinto capitolo di ogni volume è tutto dedicato alla presentazione e alla riscoperta delle diverse vocazioni presenti nella Chiesa, segno della ricchezza dei doni dello Spirito e delle molteplici possibilità offerte ai credenti per essere costruttori del Regno di Dio nel mondo.
Lo sviluppo e l’affermarsi di una catechesi in chiave vocazionale ha segnato ai nostri giorni un notevole contributo alla pastorale delle vocazioni. Si è passati, infatti, dal limitarsi, nel migliore dei casi, a fare solo qualche incontro sul tema delle vocazioni, a trasformare la catechesi in un cammino costante di comprensione e di accoglienza del progetto che Dio ha su ciascuno di noi.
Mi chiedo: ma è così sempre e dovunque? La catechesi che si fa ai fanciulli, agli adolescenti e ai giovani nelle nostre parrocchie è veramente attenta alla dimensione vocazionale? Oppure tutta questa ricchezza presente nei testi della CEI risulta concretamente poco valorizzata?
Certo non è sempre facile per un catechista saper evidenziare nel modo migliore la dimensione vocazionale presente nei catechismi della CEI, pur così estesamente diffusa. Si tratta allora di prodigarsi perché i catechisti percepiscano il loro servizio come una “chiamata”, si interroghino profondamente sulla propria vocazione personale e “annuncino” la vocazione anzitutto con la propria testimonianza senza avere paura di condurre gradualmente i fanciulli, gli adolescenti e i giovani ad interrogarsi sinceramente sulla propria vocazione personale. Inoltre il CDV e gli animatori vocazionali, anziché prodigarsi nell’incontrare tutti i gruppi di catechesi, dovrebbero puntare maggiormente i loro sforzi per fornire ai catechisti tutti quegli aiuti e strumenti, perché questi ultimi diventino realmente “animatori vocazionali”.
C’è infatti da chiedersi a che cosa serva alla fin fine una catechesi che non vada al cuore della persona e non la interpelli vocazionalmente sul senso da dare alla vita e sul posto da occupare nella Chiesa a servizio dell’umanità. C’è da augurarsi che le numerose “scuole di formazione dei catechisti”, che fioriscono qua e là, addirittura a livello zonale e parrocchiale, non manchino di educare in tale servizio i catechisti.
La catechesi se vuole realmente contribuire a creare una mentalità vocazionale deve impegnarsi per suscitare nei ragazzi e nei giovani un grande desiderio di comprendere, di amare e di vivere la Parola. “La parola di Dio illumina i credenti a valutare la vita come risposta alla chiamata di Dio e li accompagna ad accogliere nella fede il dono della vocazione personale”[5].
Non si può, perciò, non rallegrarsi per la larga diffusione, in questi ultimi anni, del metodo della “Lectio divina”. Attenti però ad aiutare i giovani a non ricercare le “belle letture”, ma ad affrontare con coraggio il “rischio” dell’ascolto della Parola. L’incontro con la Parola di Dio, quando è autentico è sempre “provocante”: non lascia mai le cose così come le trova, ma muove sempre il credente alla conversione.
La liturgia
“La liturgia ha un ruolo indispensabile e un’incidenza privilegiata nella pastorale delle vocazioni. Essa, infatti, costituisce un’esperienza viva del dono di Dio e una grande scuola della risposta alla sua chiamata”[6]. Ho l’impressione, però, che la riforma liturgica abbia ancora tanto cammino da fare. Alcuni, infatti, hanno identificato il rinnovamento conciliare con i cambiamenti esteriori, mentre il Concilio invitava le comunità ad entrare nel cuore della liturgia per una “partecipazione piena, attiva e consapevole”[7].
Se prendessimo sul serio coscienza che l’autentica celebrazione ci introduce nel dinamismo di offerta che Cristo fa di se stesso al Padre, perché anche la nostra vita “diventi un’offerta gradita a Dio”, le nostre liturgie si trasformerebbero veramente in “una grande scuola della risposta alla sua chiamata”. Dobbiamo invece constatare che, a volte, per essere attenti nel realizzare “belle liturgie”, ci lasciamo sfuggire la ricchezza trasformante che essa porta con sé. È indispensabile allora aiutare i giovani a passare dall’estetismo liturgico, fenomeno in grande ripresa, al dinamismo liturgico.
Quanti sanno valorizzare le tante opportunità che la liturgia offre per pregare e riflettere sulla vocazione, per sentirsi interpellati, in un clima di preghiera, l’unico veramente adatto al fiorire delle vocazioni, da Dio che chiama? Quanti sono i sacerdoti che propongono alle loro comunità i formulari delle Messe “ad diversa” per invocare da Dio il dono delle vocazioni sacerdotali, missionarie, di quelle alla vita consacrata e per i laici? È solo un problema di superficialità o di dimenticanza o rivela al contrario la presenza nelle nostre comunità di una mentalità troppo efficientista che lascia poco spazio all’azione di Dio?
Sarà allora opportuno non dimenticare quanto ha affermato il Papa nella PdV: “Obbedendo al comando di Cristo, la Chiesa compie, prima di ogni altra cosa, un’umile professione di fede: pregando per le vocazioni, mentre ne avverte tutta l’urgenza per la sua vita e la sua missione, riconosce che esse sono un dono di Dio e, come tali, sono da invocarsi con una supplica incessante e fiduciosa. Questa preghiera, cardine di tutta la pastorale vocazionale, deve però impegnare non solo i singoli ma anche le intere comunità ecclesiali”[8].
La testimonianza della carità
Dall’ascolto della Parola, attraverso l’accoglienza della Grazia di Dio nella liturgia, siamo chiamati a “seguire Cristo nella via della perfetta carità”: ecco l’itinerario di un autentico cammino di maturazione cristiana. Non sono possibili salti o scorciatoie. Ma tutto questo non si improvvisa; non può essere opera di un giorno. È necessario un esercizio diuturno nella carità.
“Per questo un’autentica pastorale vocazionale non si stancherà mai di educare i ragazzi, gli adolescenti e i giovani al gusto dell’impegno, al senso del servizio gratuito, al valore del sacrificio, alla donazione incondizionata di sé”[9]. Il Papa ci ricorda continuamente che “nessuno si realizza se non nel dono sincero di sé”; per questo è quanto mai necessario offrire ai giovani tutte quelle opportunità per aiutarli ad “allenarsi” nel servizio della carità.
Bisogna, però, stare attenti a condurre i giovani dalle esperienze “festive” di servizio a quelle “feriali”. poco gratificanti, ma più autentiche, perché per mezzo di esse il giovane può imparare più facilmente a “donare la vita gratuitamente”, il che costituisce il segreto di ogni robusta vocazione.
La pastorale vocazionale si pone al servizio della Chiesa
In questi anni credo si siano fatti passi da gigante perché la pastorale vocazionale fosse sempre più unitaria, grazie soprattutto ai ricchi e ai qualificati contributi che sono venuti alle nostre Diocesi dal Centro Nazionale Vocazioni. Penso solo ai Convegni annuali organizzati dal CNV, che hanno cercato di creare uno stile di comunione con gli altri “settori” della pastorale: gli adolescenti, i giovani, la famiglia, i catechisti, i gruppi, movimenti ed associazioni, il servizio della carità, la liturgia…
Frutto di questo “lavoro nascosto”, apparentemente poco produttivo, è stata l’avvertita necessità di una maggiore collaborazione tra i diversi Uffici pastorali sia a livello nazionale che diocesano. Mi piace sottolineare la fraterna e fattiva collaborazione che si sta realizzando tra il CNV e il Servizio di Pastorale Giovanile; quanto affermato dal P.P.V. una decina di anni fa, mentre sembrava destinato a rimanere solo per iscritto, ora sta divenendo realtà: “Pastorale giovanile e pastorale vocazionale sono complementari: La pastorale specifica delle vocazioni trova nella pastorale giovanile il suo spazio vitale. La pastorale giovanile diventa completa ed efficace quando si apre alla dimensione vocazionale”[10]
Possiamo affermare che il lavoro di pastorale vocazionale stia ormai superando la tentazione dell’iniziativa per l’iniziativa mentre cerca di darsi un fisionomia più precisa di cammino articolato. Le iniziative di pastorale vocazionale, sempre meno staccate dalla vita e dalla capacità di cammino delle nostre comunità, tendono ad esser momenti forti e significativi nei programmi pastorali ordinari, all’insegna della continuità.
Ma è sempre così dovunque? Il primo e fondamentale ostacolo, a mio avviso, per la realizzazione di una pastorale unitaria è dato dal diffondersi di un certo darwinismo ecclesiale, che spinge gli Uffici diocesani più importanti (Catechistico, Liturgico e Caritas) a soffocare con la loro mole di proposte e di iniziative la vita già così difficile degli altri Uffici: in questa lotta per la sopravvivenza solo i più forti riescono a lanciare segnali di vita. Ma questo stile pastorale scatena una reazione a catena, “costringendo” tutti gli Uffici a non preoccuparsi tanto del raggiungimento di obiettivi comuni né di lavorare in sintonia con le indicazioni diocesane, ma a tentare in tutti i modi di dire alla Diocesi: ci sono anch’io!.
Sì, “ci sono anch’io”. Sembra essere questo l’unico obiettivo che spinga i diversi Uffici a proporre a gettito continuo iniziative e attività alle comunità parrocchiali, le quali si difendono cadendo in un’indifferenza quasi costante nei confronti di tutto ciò che viene dal centro diocesi.
Ed ecco che si precipita in un empasse mortale: gli Uffici diocesani anziché guidare, sostenere e coordinare il cammino della comunità, finiscono per essere di ostacolo alla vita delle parrocchie, provocando una specie di rigetto sistematico di tutto quanto viene proposto e favorendo il sorgere dell’individualismo e di una pastorale a corto respiro. Poiché negli organigrammi delle Curie il CDV non occupa il più delle volte le primissime posizioni, non possiamo negare che anch’esso sia tentato di preoccuparsi più delle iniziative che dell’“animazione” della pastorale.
Ma che la strada su cui bisogna camminare sia proprio quella della comunione ce lo ricorda anche la “Traccia di lavoro” per il prossimo Convegno di Palermo, quando afferma: “È nella comunione infatti che il Signore risorto è presente, parla e opera. Le iniziative, le esperienze, i doni e i carismi dello Spirito non mancano nelle nostre Chiese, ma essi devono concorrere a costruire unità, come membra di uno stesso corpo. La comunione non è un vago sentimento o un ideale generico, bensì uno dei doni più grandi che Gesù ha chiesto al Padre per i suoi “affinché il mondo creda” (Gv 17,21). Esige un conversione sempre nuova e un’ascetica esigente per i singoli, i gruppi e le comunità, la comunione non significa riduzione all’uniformità delle legittime diversità; al contrario vuol dire armonia sinfonica, che canta “ad una sola voce per Gesù Cristo al Padre”. La vita di comunione nelle nostre Chiese… deve esprimersi anche attraverso quegli organismi di partecipazione e di corresponsabilità” (n. 25).
Non dunque “una pastorale a strisce”, a scompartimenti stagni, ma come suggerisce il P.P.V., parlando dell’azione del Centro Diocesano Vocazioni: “qualificare la propria azione nel senso della comunione ecclesiale, con la consapevolezza che è più importante creare il senso della Chiesa attraverso le varie iniziative che promuovere le iniziative stesse”[11]. Questa rinnovata convinzione deve portare a delle scelte inevitabili.
No all’individualismo!
Se in passato ci si poteva imbattere a volte in navigatori solitari o pionieri intrepidi nella pastorale in genere, e in quella vocazionale in particolare, oggi tutto ciò non è più possibile! “Le varie componenti e i diversi membri della Chiesa impegnati nella Pastorale Vocazionale renderanno tanto più efficace la loro opera quanto più stimoleranno la comunità ecclesiale come tale, a cominciare dalla Parrocchia, a sentire che il problema delle vocazioni sacerdotali non può minimamente essere delegato ad alcuni ‘incaricati’ (i sacerdoti in genere, i sacerdoti del Seminario in specie), perché, essendo un problema vitale che si colloca nel cuore stesso della Chiesa deve stare al centro dell’amore di ogni cristiano verso la Chiesa”[12].
No alle deleghe!
Pensare che la pastorale vocazionale possa essere affidata agli specialisti o a coloro che hanno questo “pallino”, non è più possibile! È tutta la comunità, pur nel rispetto dei carismi e dei compiti di ciascuno, che è chiamata ad assolvere questo impegno “innanzi tutto con una vita perfettamente cristiana”[13]. E il Papa nella PdV ricorda che “è quanto mai urgente, oggi soprattutto, che si diffonda e si radichi la convinzione che tutti i membri della Chiesa, nessuno escluso, hanno la grazia e la responsabilità della cura delle vocazioni… Solo sulla base di questa convinzione la pastorale vocazionale potrà manifestare il suo volto veramente ecclesiale, sviluppare un’azione concorde, servendosi anche di organismi specifici e di adeguati strumenti di comunione e di corresponsabilità”[14].
No ai particolarismi e alle contrapposizioni!
Anche se nessuno afferma più apertamente di lavorare solo per il suo Istituto, non sempre però si ha l’impressione che questa mentalità sia del tutto scomparsa, perché la si vede affiorare improvvisamente ora qua ora là. Forse la preoccupazione del futuro del proprio Istituto porta alcuni a trasferire nella pastorale la legge della concorrenza più spietata, cercando di “vendere” meglio la propria merce, sminuendo quella degli altri.
Abbandonare gli abiti del pescatore per indossare quelli del contadino!
Sono finiti i tempi in cui, a livello vocazionale, si facevano delle “grandi retate”, rese possibili da tutto un clima presente nella società e nella Chiesa; oggi è indispensabile armarsi della pazienza del contadino che con fiducia getta il seme e attende che fiorisca, non senza prima aver lavorato per preparare il terreno.
Conclusione
La strada aperta dal P.P.V. dieci anni fa è ancora tanta e le forze sembrano essere impari, ci sorregga nel nostro impegno quanto il Papa ha affermato proprio all’inizio della PdV: “di fronte alla crisi delle vocazioni, la prima risposta che la Chiesa dà sta in un atto di fiducia totale nello Spirito Santo. Siamo profondamente convinti che questo fiducioso abbandono non deluderà, se peraltro restiamo fedeli alla grazia ricevuta”[15].
NOTE
[1] P.P.V., n. 1.
[2] P.P.V., n. 26.
[3] P.P.V., n. 26.
[4] PdV, n. 39.
[5] PdV, n. 39.
[6] PdV, n. 38.
[7] SC, n. 10.
[8] PdV, n. 38.
[9] PdV, n. 40.
[10] P.P.V., n. 43.
[11] P.P.V., n. 54.
[12] PdV, n. 41.
[13] OT, n. 2.
[14] PdV, n. 41.
[15] PdV, n. 1.