La pastorale vocazionale diventa un percorso
In un articolo precedente, dopo aver passato in rassegna quello che è venuto a mano a mano maturando nel rapporto tra pastorale giovanile e vocazionale in Italia, non solo tra gli operatori, ma anche tra i giovani, abbiamo sintetizzato alcune affermazioni che fanno da quadro vocazionale ad ogni pastorale giovanile. Le riassumo per facilità di comprensione: il giovane ha diritto di essere aiutato a vivere la fede come risposta ad una chiamata; ogni esperienza di vita del giovane che tende ad essere globale e definitiva è sotto l’invito e la chiamata personale di Dio; è necessario che ogni vocazione vissuta con fede e decisione sia visibile e sperimentabile nel tessuto di relazioni che caratterizzano la vita d’ogni giovane e la sua esperienza ecclesiale; ogni chiamato è obbligato a riscrivere la sua esperienza in termini percepibili dal mondo giovanile; la proposta vocazionale fa parte integrante del progetto di pastorale giovanile.
Era un modo non esaustivo di interpretare il messaggio del Papa per l’ultima giornata mondiale di preghiera per le vocazioni sul rapporto appunto tra pastorale giovanile e vocazionale. Ora si tratta di fare un passo ulteriore, cioè di spostare l’attenzione dai tavolini delle riflessioni, dal pastoralese, dagli accordi tra operatori del settore, alla vita concreta del giovane: si tratta di vedere come fare in modo che tali affermazioni diventino percorso agibile dai giovani. Sono obbligatorie tre tappe.
1. L’annuncio
Una certa mentalità diffusa distingue nella pastorale giovanile due grandi tipi d’intervento: quello con i nostri giovani, i vicini, fatto di cesello, gruppi piuttosto compatti, ambienti e percorsi superassistiti, regola di vita… e un altro con i lontani piuttosto approssimato (tutto quello che si può ottenere è sempre più delle aspettative), dove ci si accontenta di sopravvivere, basta salvare l’essenza, per le sfumature non c’è nessuna speranza, anzi sarebbero sprecate. La proposta vocazionale, non solo di speciale consacrazione, è certo per i primi non sicuramente per i lontani; è una proposta – si dice – che rischia di non essere capita perché esige capacità d’ascolto, che non si deve buttare… Poi ti accorgi di un dato molto importante e cioè che oggi la frontiera tra chi è vicino e chi è lontano, tra chi è buono e chi è marcio non passa tra i vicini e i lontani, tra i nostri e quelli della strada, ma s’insinua all’interno stesso di queste due realtà. Tra i lontani ti capita di incontrare giovani che hanno desiderio di santità e tra i vicini gente che è tentata di pazzia. Un giovane lontano dall’esperienza ecclesiale è capace di piantare tutto, cambiare vita e seguire Gesù; un altro vicino può vivere tutta la sua giovinezza a farsi rincrescere d’essere cristiano. La frontiera è spostata sempre più all’interno dei nostri gruppi, delle nostre aggregazioni e soprattutto d’ogni coscienza. Ciò allora esige che l’annuncio sia sempre a disposizione e forte per tutti. Anzi a chi è lontano serve sentirsi dire che qualcuno personalmente lo chiama, che sta a cuore a Dio non in maniera generica, che ha una missione originale da compiere nella vita, che non trova felicità se non realizza pienamente questa prospettiva nel massimo della sua originalità e libertà. Una proposta cristiana non vocazionale rischia di non essere missionaria. Come farà un giovane che non ha mai sentito parlare di Gesù Cristo, ad accoglierlo se non lo sente provocatore di risposta, coinvolgente in un rapporto personale, come il giovane ricco? come Natanaele, come Pietro, Paolo…? La vocazione non sta alla fine dell’evangelizzazione, ma all’inizio, perché il Vangelo è una persona che chiama. Il problema si pone in termini altrettanto forti anche per chi vive con continuità un’esperienza di Chiesa, di gruppo formativo, d’associazione. Nessun laico è generico nella Chiesa, ma ciascuno è chiamato su una via di santità personale. Tenere desto e vivo l’annuncio è garanzia di non adagiarsi in quella mediocrità felice di tante nostre realtà aggregate, che non permette non solo slanci di santità, ma felicità della vita e missionarietà. Giovani infelici e ripiegati su di sé sono il massimo della controtestimonianza, forse anche più di chi fa i conti tutti i giorni col peccato.
2. Il percorso
Se l’annuncio è frutto di una comunità e di un educatore consapevole della sua stessa chiamata e facilmente, si fa per dire, esprimibile e comunicabile, la proposta di vivere un cammino che aiuta la risposta alla chiamata è ben più impegnativa. Si tratta di servire un progetto che si fa strada tra tutti i tentennamenti, i piccoli passi, gli entusiasmi e le depressioni e di aiutarlo a realizzarsi. Prima di essere un discorso personale è una disponibilità della comunità. Occorre avere l’avvertenza di pensare che le scelte di vita cristiana sono diversificate, vanno tutta annunciate e in seguito servite.
Questo significa che per ogni cammino di fede occorre che la comunità cristiana abbia un chiaro progetto, fatto di meta coinvolgente, di passi calibrati, di strumenti adatti, di revisioni per tutti. Ora, nella comunità cristiana capita che per alcune vocazioni esistono progetti molto ben definiti, anch’essi con qualche “buco” educativo, ma almeno chiari alla coscienza. Per esempio se si tratta di far crescere la risposta al presbiterato c’è un seminario, una struttura, una serie di persone, una preoccupazione, un’attenzione della comunità nella preghiera, una continua revisione dell’impostazione, una sensibilizzazione generale: per le suore o per i religiosi avviene altrettanto; per la vocazione al matrimonio invece c’è molto poco. Non si dà spesso progetto, non ci sono o quasi strutture, non si percepisce che la comunità cristiana senta la chiamata come fondamentale alla sua vita. Non si tratta di fare seminari per chi sceglie il matrimonio, ma di alzare il livello della proposta. Per la vocazione alla santità, se non ci fossero alcune associazioni laicali, spesso lasciate senza cura, si procede con il criterio della casualità, col principio di Gamaliele (se la chiamata è Dio, sicuramente si farà strada), che è più un monumento alla nostra inedia che una fedeltà ai progetti di Dio.
Ogni cammino educativo deve essere sempre un attrezzare il giovane a rispondere, un offrirgli le coordinate di un dialogo, in cui si sente d’essere protagonista, un mettere a disposizione spazi d’ascolto, di preghiera, d’interiorizzazione, d’apertura alle domande della propria coscienza, della vita del mondo e degli uomini, per intuirvi la domanda di Dio. Non si propone l’autorealizzazione, ma la ricerca di una risposta originale ad una chiamata libera di Dio in cui l’uomo si realizza pienamente. Si aiuta il giovane a sognare e ad intercettare i sogni di Dio. Elenco qui di seguito alcune attenzioni che permettono tale cammino educativo.
– Aiutare a vivere l’esperienza della Chiesa come mistero, come fatto storico e a superare le appartenenze di comodo, la riduzione dell’esperienza di Chiesa alle relazioni esplicite della vita di gruppo o alle chiusure dell’ambiente in cui si vive. Questo esige che la stessa comunità cristiana si ponga come effettivo contesto dell’esperienza di Chiesa del giovane.
– Favorire la disponibilità a scelte radicali, illuminate da proposte non solo deducibili dalla mentalità o cultura dell’ambiente in cui si vive, ma provocate dalla consuetudine con la Parola e dalla passione per l’umanità.
– Aiutare un giovane a farsi un orario interiore, a predisporre una sequenza di esperienze di vita interiore che diventa quasi normativo o per lo meno quotidiano, così da tentare l’organizzazione di una vita credente.
3. L’accompagnamento
Nell’attività giovanile di questi ultimi anni sono scomparsi tutti i dubbi, se ancora ne resistevano, sulla necessità di accompagnare ogni giovane nel suo cammino di fede. Si è riscoperto il rapporto personale del prete con il giovane, si parla spesso di guida e di direzione spirituale, di contatto personale programmato. Talvolta è un’affermazione che rivela il sogno irrealizzabile di molti operatori pastorali, talaltra è l’ultima spiaggia su cui si cercano di far giungere i molteplici tentativi andati a vuoto nella vita pastorale: per molti invece è il punto di arrivo di una seria scelta di campo del presbitero nella pastorale giovanile. Io spero che ci si ponga da questo versante.
L’accompagnamento è attività volta alla persona
La convinzione della necessità di un rapporto personale deve passare dal mondo delle utopie ai progetti. Ciò esige che il prete abbandoni tanti ruoli di supplenza che spesso ha dovuto o voluto assumere e che altri animatori a questo particolarmente chiamati, i religiosi e le religiose, siano aiutati a svolgere tale compito. L’accompagnamento è aiuto personale a intercettare i sogni di Dio sulla propria vita ed esige allenamento non solo spirituale.
L’accompagnamento è attività volta a un gruppo di persone
Se si è fatto sempre annuncio vocazionale, se si sono fatte proposte vocazionali la necessità di tenere il filo di una vita che si sviluppa di conseguenza è vera anche per gruppi di persone che si aiutano l’un l’altro a rispondere con originalità alla chiamata. Accompagnare è attività che non può solo essere isolata in un rapporto interpersonale, soprattutto oggi che l’identità è approfondita in un massimo di relazioni, ma che passa dal gruppo per arrivare a tutta la comunità. Ecco alcuni elementi che aiutano l’accompagnamento a diventare prassi pastorale ordinaria.
– Aiutare ad assumere uno stile. La ricerca di facili regole può ingannare, se per regola intendiamo l’affidare ad un orario esterno alla vita, basato sulla nostra forza di volontà il nostro crescere. Lo stile è quello di Gesù. E qui vanno riconsiderati i consigli evangelici della povertà, castità e obbedienza, che non vengono assunti per il loro valore umano, ma perché trovano in Gesù la loro ragione d’essere e il loro valore decisivo. La loro valorizzazione prima di essere risposta ad una chiamata particolare è lo stile d’ogni cristiano. Sono quelle realtà che dedicano a Dio e al suo Regno i dinamismi della persona, in quello che essa ha di più vitale, nella sua struttura fondamentale, in quanto toccano il suo rapporto con la natura, con l’altro e con se stessi. Non c’è cristiano che non debba trovare equilibrio in queste tre sfere della sua vita. Il radicamento di questo stile è frutto di un accompagnamento esplicito e programmato.
– Favorire il riferimento alla coscienza e non solo ad un diario. L’accompagnamento aiuta a passare dal diario che molti giovani spesso si tengono ad una profonda consapevolezza della propria interiorità. Il diario è solo la pallida esplicitazione della voce di una coscienza. Gli uomini anziché un istinto hanno una coscienza: è il punto in cui l’uomo, il mondo e Dio si incontrano, rendendosi presenti l’uno all’altro. È la solitudine attiva in cui Dio chiama l’uomo a decidersi per la storia. A partire da questo evento nuovo l’uomo trova la sua strada nel mondo.
– Aiutare a vivere nell’orizzonte della comunità. Viviamo in un mondo che offre strutture da single, organizza la vita da single, costringe a fare i conti solo con pezzi di vita. L’accompagnamento non è operazione per sostenere tanti single, ma l’aiutarli a vivere quella comunione che solo Dio sa tenere viva e questa comunione è incarnata nella Chiesa. È un intervento sia sulla persona che sulla stessa comunità. La Chiesa è viva anche nella esperienza di solitudine che ogni giovane può fare. È un riferimento visibile e invisibile, riconoscibile solo in alcuni momenti, ma sempre attivo nell’impossibilità di sperimentarne la concretezza.