L’anima della pastorale vocazionale: una preghiera incessante
L’intento del seguente contributo è di offrire alcuni stimoli per collocare l’invito ad una preghiera incessante per le vocazioni nel quadro complessivo del P.P.V. e per individuare sinergie coi piani pastorali della Chiesa italiana.
La preghiera “cardine” della pastorale vocazionale
Iniziamo percorrendo tutto il Piano. Sarebbe riduttivo soffermarci solo sui numeri che esplicitamente sottolineano l’importanza della preghiera. Infatti: “Ogni membro della comunità ecclesiale deve essere educato ad una preghiera incessante” (n. 27) e, perché quest’obiettivo sia raggiunto, è la comunità ecclesiale stessa che deve riappropriarsi della propria forza sorgiva.
Il documento, fin dalle prime battute, invita la chiesa a rivelare il proprio volto vocazionale mostrandosi quale comunità di chiamati. Essa vive perché avvolta dal mistero di Colui che nessuno chiama ed è, perciò, incessante appello; di Colui che è il Chiamato nel quale ogni nome risuona; di Colui che è custode di inesauribile fecondità (cfr. nn. 1.4). Solo rispecchiando il proprio volto nel volto purissimo del Dio Tripersonale la Chiesa può educare ogni battezzato ad una preghiera incessante. Lo stesso Dio, infatti, non – chiamato e chiamante nell’amore, è Colui che prega senza interruzione nel cuore del credente.
L’ascolto della sua Parola assume, perciò, una priorità assoluta a cui la catechesi educa tramite catechisti che, nella preghiera, coltivano la propria vocazione e, in clima di preghiera, conducono i giovani non ad imparare qualcosa su Dio, bensì ad ascoltare Colui che interviene nella vita (cfr. n. 28).
Vertice dell’ascolto e della risposta orante, la Liturgia è l’espressione più alta della preghiera della Chiesa (cfr. n. 29), preghiera che assume la vita rendendola offerta; preghiera che fa parlare alla vita il linguaggio della oblatività avvolgendola col ritmo incessante di un anno che racconta i mirabilia Dei. Essi divengono stupore di risposta in ogni fedele.
Quanto detto è vero soprattutto per la celebrazione eucaristica, ma s’invera anche nella Liturgia delle ore che “rende vivo e continuo il dialogo tra Dio che chiama e l’uomo che risponde” (n. 29). Attori di questo dinamismo orante sono tutti i membri della comunità. I Vescovi che devono adoperarsi affinché le chiese particolari a loro affidate si qualifichino per una preghiera incessante per le vocazioni (cfr. n. 31); i presbiteri, sostanziati da una spiritualità che li conduca ad una preghiera per le vocazioni incessante, quotidiana, personale e comunitaria, preparata da strumenti appropriati quali le scuole di preghiera (cfr. n. 32); i diaconi, visti nella loro funzione di servi del discernimento dei carismi, discernimento che solo la preghiera può consentire e sostenere (cfr. n. 33); religiosi e religiose, invitati a creare vere comunità in cui si facciano esperienze vive di preghiera (cfr. n. 34); Istituti secolari, missionari, famiglia che sostentino la propria vita ed il proprio annuncio di preghiera (cfr. nn. 35-38). Questo insistente richiamo alla preghiera pervade anche la presentazione delle esperienze dei diversi gruppi ecclesiali i quali “devono presentare una forte capacità di educazione alla preghiera” (n. 39) nelle diverse fasi evolutive, dai ragazzi agli adulti (cfr. nn. 42-44).
Una tale comunità cristiana, animata dalla Parola, dai sacramenti, dalla preghiera diviene punto di partenza e terreno propizio per un cammino vocazionale che sarà scandito da preghiera, meditazione, silenzio… (cfr. nn. 46-48). Gli accompagnatori di tali itinerari dovranno perciò essere persone “spirituali”, contrassegnati dall’amore alla preghiera ed alla contemplazione (cfr. n. 49).
Appare evidente, al termine di questa carrellata, che il P.P.V. non poteva che porre al primo posto, tra le linee programmatiche prioritarie, la maturazione dei giovani alla fede tramite la preghiera e l’esperienza di Dio (cfr. n. 57).
Così inquadrate le affermazioni contenute nel n. 27 acquistano una profonda risonanza, poiché non appaiono esortazioni quasi scontate in un documento di tale intonazione, quanto, piuttosto, la naturale espressione dell’essenza profonda della Chiesa, comunità in attesa del suo Signore, che si adorna dei doni più diversi, sapendo che tali doni esigono un’accoglienza orante.
La preghiera, dunque è il mezzo, non nel senso di porsi come strumento tecnico, bensì nell’accezione liturgica del “per Cristo” che pone ogni orazione nella Persona del Cristo-Mediatore, che simultaneamente ascolta ed è ascoltato.Si può qui riprendere una felice sottolineatura fatta da Mons. Masseroni: “La preghiera è già vocazione. Nella preghiera la persona entra in dialogo, dà una risposta, prende coscienza che la vita ha radici altrove… Dentro la parabola della esistenza tutto è provvisorio: ha un inizio ed una fine… La preghiera è l’unica esperienza che cresce con la vita e continua, oltre la morte, nell’esistenza del Regno, nella comunione con Dio”[1].
La preghiera quale mezzo si configura, dunque, a livello di espressività profonda: il credente si appropria di quello che è, figlio, e – in quanto tale – dialoga col Padre… Il cuore dei credenti diviene un “monastero invisibile”[2] da cui può irradiarsi quella preghiera intensa che sa farsi anche coinvolgente richiamo ed assumere una pluralità di forme che solo la creatività dello Spirito può stimolare e sostenere.
Un problema di omissioni
Quanto abbiamo affermato ci ha condotto al secondo momento delle nostre riflessioni che cercano di fornire alcuni tratti per un bilancio di questi dieci anni dalla pubblicazione del P.P.V. Dove sono finite queste ricche suggestioni? Hanno innervato e vitalizzato la nostra pastorale?
Ai numeri 21 e 22 del P.P.V. si indicava l’innesto della pastorale vocazionale nel grande albero della Chiesa italiana che si progettava alla luce di “Comunione e comunità”. Significativa, per l’ottica in cui ci siamo posti in queste riflessioni, è la sottolineatura del valore del rinnovamento della liturgia; indicazione poi ripresa ed ampliata in “Eucaristia, comunione e comunità” con un’esplicita valenza vocazionale: “L’eucaristia è scandalo da vivere. È qui la vera sequela di Cristo… fatta di ascolto, di preghiera, di sacrificio, di presenza responsabile incarnata nelle vicende del tempo”. Questa vocazione eucaristica può tuttavia restare incompiuta, perché l’eucaristia “come è sede di una chiamata e di una risposta di amore per alcuni, diventa per altri il mistero di una risposta respinta, di un invito non accolto” (E.C.C., 62-69, passim).
Potremo proseguire arricchendo con alcune sottolineature presenti in “Evangelizzazione e testimonianza della carità” che sviluppano alcune suggestioni presenti nel P.P.V. Negli Orientamenti per gli anni ‘90 la comune vocazione all’amore viene posta nell’alveo che le è proprio: “la partecipazione al dialogo di amore fra il Padre e il Figlio nella gioia dello Spirito” (E.T.C., 15). Per ciò stesso si ribadisce la funzione decisiva della preghiera nella vita e nella missione della Chiesa: “La contemplazione, il silenzio, l’ascolto, l’adorazione ci dischiudono gli orizzonti infiniti dell’amore di Dio” (E.T.C., 19).
Se la Chiesa italiana ha indicato precisi itinerari di solidarietà, di condivisione, di volontariato lo ha fatto a partire da questo humus e non per indulgere a mode o pressioni sociologiche. Già il P.P.V. diceva che il volontariato può essere un itinerario in vista della vocazione definitiva se “è evangelicamente motivato e coltiva nella preghiera il senso dell’Assoluto” (n. 30). La discriminante appare, dunque, l’educazione alla fede: solo una comunità che vive come Sposa in attesa dello Sposo diviene feconda di vocazioni all’amore (E.T.C., 18).
Ancora Mons. Masseroni fa notare la necessità della “mediazione educativa” della comunità, capace di creare un tessuto di fede recettivo e generativo di doni, capace di preghiera e di proposta. Ma questo è “forse lo spazio che maggiormente fa problema per le sue omissioni”[3]. Un problema di omissioni in ordine alla educazione alla preghiera: se ciò è vero – come pare di costatare – non appare conveniente l’attivismo pastorale. Si può convenire con Enzo Bianchi quando afferma: “La vita ecclesiale ha interiorizzato l’idea che l’esperienza di fede corrisponda all’azione nel mondo piuttosto che all’accesso ad una relazione personale con Dio vissuta in un contesto comunitario… Questa riduzione dell’esperienza cristiana a morale è la via più diretta per la vanificazione della fede”[4].
Nodo irrisolto della nostra pastorale, giovanile e vocazionale, appare quindi questa simbiosi fra la vita spirituale ed il suo traboccare nel mondo. Tensione di sempre: benefica se vissuta come perenne stimolo di conversione; sterile se assunta quale criterio discriminante dell’una dimensione sull’altra. “La vita cristiana non è un “andare oltre”, sempre alla ricerca di novità, ma un “andare in profondità” uno scendere nel cuore per scoprire che è il Santo dei Santi di quel tempio di Dio che è il nostro corpo”[5].
La sempre sconvolgente novità dell’Incarnazione che porta Dio a dimorare in noi coinvolgendoci nel dinamismo del suo Spirito, è l’opportunità, gratuita ed impensabile, che il credente vive nella preghiera di cui si appropria con la contemplazione e che si fa in lui risposta di fede nel quotidiano scorrere dei giorni.
È a recepire e a scegliere tale opportunità (tale kairòs) che la nostra Chiesa è chiamata ad educare i giovani nei quali è presente “la simpatia per la preghiera” (P.P.V., 20).
Note
[1] E. Masseroni, La preghiera per le vocazioni nella vita della comunità cristiana e dell’animatore vocazionale, in: CNV, Perché pregare per le vocazioni, Rogate, Roma 1994, pp. 94-95.
[2] Espressione usata dal Papa nel Messaggio per la GMPV 1979 e ripreso in P.P.V., 27.
[3] E. Masseroni, o.c., p. 97.
[4] E. Bianchi, Ansia pastorale e vita cristiana, in Segno nel mondo 13 (1995) p. 27.
[5] Idem.