N.06
Novembre/Dicembre 1995

Verginità per il regno di Dio

Nel tentativo di giustificare la Verginità cristiana (nelle sue varie forme: celibato sacerdotale, consacrazione religiosa, consacrazione nel mondo) non è raro trovare chi si limita a sottolinearne soltanto l’aspetto di “funzionalità apostolica”, sperando così di rendere il discorso più “razionale” e più “accettabile”.

Il ragionamento in fondo è semplice: la scelta verginale cristiana avrebbe una certa analogia con la scelta di chi rinuncia al matrimonio perché intende dedicarsi – a tempo pieno e applicando ogni risorsa della mente e del cuore – a una determinata professione da cui la persona vuole lasciarsi esclusivamente assorbire.

Con un linguaggio popolare, ma significativo, si dice allora che uno “ha sposato la sua professione”: una determinata attività artistica, o la ricerca scientifica, o l’impegno socio-politico, o altro ancora. Analogamente ci sarebbe anche chi sposa così la Chiesa, o “la causa di Gesù Cristo”: rinunciando all’amore e all’esperienza coniugali, si resta disponibili, interiormente ed esteriormente, “per il regno di Dio” e ci si può dedicare – a tempo pieno e con ogni energia – alla salvezza e alla santificazione del prossimo, nelle mille forme dettate dalla giustizia e dalla carità.

Un certo fondamento biblico di questa persuasione, lo si vuol trovare nell’insegnamento dell’apostolo Paolo là dove dice: “chi si sposa si preoccupa delle cose del mondo, chi non si sposa si preoccupa delle cose del Signore” (cfr. 1 Cor 7,32-35). Non si può negare che in tale rapida e semplicistica formulazione ci sia qualcosa di vero e di facilmente documentabile; ma non sarebbe difficile far valere anche le ragioni contrarie.

C’è anche chi pensa – e si dice disposto a documentarlo – che una sana e appagante esperienza coniugale servirebbe all’equilibrio e alla maturazione globale di coloro che intendono prendersi cura della “famiglia di Dio”. In tutti i casi, chi ha una concezione “funzionale” della verginità, fa poi molta fatica a spiegare il valore e il senso di quelle vocazioni destinate esclusivamente alla contemplazione: vocazioni protese soltanto al rapporto personale con Cristo Signore.

La verità è che ogni discorso sulla “verginità cristiana” risulta carente se non viene esteso fino alle radici dell’antropologia teologica. È un tema amplissimo, che attraversa tutta la Rivelazione biblica e tutta la tradizione cristiana, e pertanto non è possibile sintetizzarlo in poche pagine. Qui possiamo solo indicare lo schema secondo cui la riflessione dovrebbe essere condotta, a cerchi concentrici, avvertendo che ciascuno dei punti segnati esigerebbe e meriterebbe d’essere approfondito, “gustato”, “pregato”.

 

All’inizio – proprio all’inizio della creazione – c’è l’inesauribile miracolo con cui Dio mette al mondo un essere spirituale-corporeo. L’uomo, “corpore et anima unus”, in forza di questa sua incredibile costituzione, esperimenta quella solitudine di cui parla la Scrittura: “solitudine trascendente”, l’ha chiamata Giovanni Paolo II; “ultima solitudo”, la chiamava già Duns Scoto. Ed è questa la prima ed ineliminabile verginità di ogni essere umano: niente e nessuno, se non lo stesso Creatore, potrà mai definitivamente appagare il cuore carnale-spirituale dell’uomo.

 

La comunione personale (uomo-donna, e poi quella genitori-figli, e poi quella dei “prossimi” che si riconoscono) – anch’essa inestricabilmente spirituale e corporea – è il secondo miracolo inventato da Dio. In forza di esso, la creatura umana da un lato esiste protesa verso l’altra creatura, simile e diversa, da cui riceve un rimedio alla propria solitudine, e dall’altro lato esperimenta che la comunione creata non è destinata a sopprimere quell’ultima solitudine, ma quasi ad acuirla: in una nostalgia del divino che tanto più cresce, quanto più la comunione tra creature offre la sua buona medicina.

 

Il peccato – che fin dall’origine ha ferito tutti i rapporti di comunione (con Dio e tra le creature) – ha corrotto anche quella sacra e originaria esperienza di solitudine: da una lato il rimedio previsto da Dio si tramuta sovente in insopportabile peso o addirittura in minaccia; dall’altro lato quella nostalgia, anch’essa, prevista, si tramuta spesso in rabbia e rancore, in ricerca spasmodica di idoli.

 

Nell’Antico Testamento di Dio che si rivela come partner di un’Alleanza d’amore, utilizza l’amore coniugale, e le sue molteplici vicende, come mezzo di illuminazione (“rivelazione”). La luce va in due direzioni: dapprima l’amore coniugale aiuta a capire l’Alleanza con Dio (fedele, unica, indissolubile, feconda) aiuta a capire la qualità originaria del vero matrimonio (che tende così a diventare sacramento).

 

Nell’Antico Testamento la “verginità originale” ancora non riappare, se non sullo sfondo come richiamo misterioso a un inesprimibile dolore:

– nelle vicende dei Patriarchi, come dolore della sterilità che esige l’intervento sanante della Paternità di Dio (“Dio dei Padri” anzitutto perché ha donato loro la forza della paternità);

– nelle vicende dei Profeti, come esperienza vissuta di quanto costi l’amore geloso di Dio che essi devono annunciare (Osea amando la moglie-prostituta; Geremia soffrendo la rinuncia alla coniugalità per dare volto al Dio abbandonato; Ezechiele accettando silenziosamente la morte della moglie amata);

– nella riflessione dei sapienti, come “Cantico dei Cantici” per ricondurre ogni amore (umano e divino) e tutto l’amore alla sua bellezza originaria.

 

Nel Nuovo Testamento la Verginità non è anzitutto un valore o un’idea ma l’esperienza vitale di Maria, di Gesù e di Giuseppe, poi di Paolo e di alcuni primi discepoli.

* Per Maria, essere e restare vergine, pur divenendo Madre, ha significato successivamente e unitariamente:

– la certezza fisica della Paternità di Dio sul suo Bambino;

– la totale dedizione al Figlio dal quale e per il quale Ella è totalmente costruita (“immacolata”);

– l’accettazione, ai piedi della Croce, dei figli peccatori, in cambio del Figlio.

* Per Gesù, essere e restare vergine (patendo per primo l’accusa di essere “eunuco”) ha voluto dire unitariamente:

il suo essere l’amore incarnato e totale per tutti gli uomini, e per tutto l’uomo (corpo e anima);

– la scelta del “destino eucaristico” del suo corpo.

* Per Giuseppe, la richiesta di accogliere Maria resa feconda dallo Spirito, e di “dare il Nome” al Figlio così generato, ha voluto dire l’accettazione di una sua paternità totalmente esaurita nell’essere segno e sacramento obbediente della prossimità assoluta del Padre celeste (“tam Pater nemo”).

* Per Paolo e alcuni dei primi discepoli, sulla base di un insegnamento esplicito di Gesù, la verginità fu una vocazione e un dono: la possibilità di vivere affermando la totale verità del Corpo incarnato e risorto del Figlio di Dio, meritevole di vero “amore coniugale” (al punto che, per i coniugi cristiani, è il loro amore ad esser segno, simbolo, di quel primo amore dovuto a Cristo, e non viceversa!).

 

Nella Chiesa, con il permanere delle vocazioni verginali – attraverso il segno della rinuncia al matrimonio e della conseguente solitudine e apparente infecondità si trasmette vitalmente ed sperimentalmente la certezza che:

– Il cuore dell’uomo può essere riempito soltanto da Dio, e la sua ultima solitudine può essere colmata solo dalla sua “compagnia”;

– Gesù Cristo, vivo e vero, qui e ora, è Dio incarnato che ha offerto e offre il suo vero amore;

– Di questo Suo amore si può vivere, con maggiore anche se diverso realismo, che in ogni altra esperienza coniugale;

– In quest’amore è contenuto e richiesto ogni altro amore: si ama, infatti, indissolubilmente “Cristo e ciò che è suo”,

E si tratta di un amore la cui particolare fecondità è destinata ad essere visibile anche in questa vita.

 

Nella comunità cristiana, le due vocazioni – alla verginità consacrata e alla coniugalità sacramentale – vanno comprese ed educate non in alternativa, ma in complementarietà (ricordando tuttavia che ognuna di essa è una vocazione totale e totalizzante, e affermando chiaramente che la verginità meglio testimonia lo splendore dell’immediatezza e della definitività dell’amore dovuto a Cristo). Per un’educazione riuscita poi è essenziale che le due vocazioni non siano mai descritte riduttivamente – come se attenessero solo alla sfera affettiva e sessuale – ma integralmente: sono vocazioni a uno stato di vita e si nutrono di tutto lo “stato vitale” (tempo, risorse, energie, scelte, decisioni ecc.) in cui generosamente ci si immette.

 

Da certi punti di vista, si può dire che anche i coniugi, sono chiamati alla “verginità consacrata” in forza della loro consacrazione battesimale: man mano che il “sacramento coniugale” produce i suoi effetti e realizza l’unità promessa, man mano che i due divengono davvero “una sola carne” (secondo l’originale disegno di Dio), accade che i due esperimentano verginalmente, la loro stessa unità. Come se i due formassero un solo essere vivente e questo unico essere scoprisse la sua esclusiva, verginale, appartenenza all’unico Cristo e all’unico Creatore. Ma anche quando questa piena maturazione non riuscisse, non si deve dimenticare che appartiene alla struttura del sacramento coniugale il fatto che i due camminino assieme verso quel momento supremo in cui si devono reciprocamente abbandonare nelle sole mani e al solo Cuore che possa accogliere un morente.

 

Infine occorre ricordare che anche la “consacrazione verginale” ha le sue stagioni e le sue età, e le sue modalità esistenziali, se non vuol correre il rischio di una certa immaturità. Così è normale che la “consacrazione verginale” di un giovane si connoti soprattutto in rapporto al tema della sponsalità, quella di un adulto maturo si connoti soprattutto a riguardo della fecondità della propria esistenza, e quella di un anziano o di un vecchio si connoti come definitiva comprensione e attuazione, davanti al Padre celeste, di quella “infanzia” senza la quale non è possibile entrare nel Regno di Dio.