Credere all’amore in questa società
A partire dalla struttura comunicativa della persona arriviamo a riconoscere nell’amore la via irrinunciabile per la maturazione umana, cristiana, vocazionale della persona. Due disagi insidiano oggi questa decisiva esperienza.
Io sono guardato e quindi esisto
Con questa formula vogliamo indicare la persona come “essere in relazione, in comunicazione”. Comunicare non è un’attività facoltativa: senza comunicazione non c’è esistenza e sviluppo personale. La stessa trasmissione della vita è un grande atto di comunicazione, anzi il primo.
Il punto di partenza ci è offerto da una suggestiva affermazione di Nietzsche: “Il ‘tu’ è parola più originaria dell’ ‘io’”. Questa intuizione trova conferma nelle prime parole che un essere umano pronuncia. Le nostre prime parole sono state quelle rivolte appunto al “tu”: alla mamma, al papà… solo successivamente il bimbo impara a dire il suo nome e come conseguenza di una relazione che ha istituito con gli altri, appunto con il tu. Potremmo svolgere questa intuizione ricorrendo ad un’affermazione di Emmanuel Mounier che ricalca e svolge l’affermazione nicciana: “L’esperienza primitiva della persona è l’esperienza della seconda persona. Il ‘tu’, e in esso il ‘noi’, precede o almeno accompagna 1’ ‘io’”. Ancora Mounier: “Io non sono affatto un cogito, cioè un puro pensiero che pensa, leggero e sovrano nel cielo delle sue idee, io sono questo essere grave di cui solo una grave espressione renderà il peso: io sono un io – qui – adesso – così – fra questi uomini – con un ‘passato’”. Più brevemente, io sono un io incarnato, con tutto quello che comporta questa incarnazione: situazione, rapporto con altri, col mio passato, con l’ambiente. Per comprendere la persona dobbiamo cogliere questa originaria relazionalità. La persona è, esiste solo in quanto è situata, in quanto legata grazie al corpo, al tempo, allo spazio, in relazione con altri, verso il mondo e nel mondo. Mounier dirà che la persona trova la sua consistenza solo nell’essere al quale si protende. Se questa è la struttura costitutiva della persona, solo nell’apertura comunicativa e relazionale la persona troverà la sua realizzazione. Sta qui la verità del mito di Narciso che incontra la morte nel tentativo di fissarsi sulla sua immagine.
Quei due si parlano
Conferma di tale costitutiva relazionalità della persona è il linguaggio. Se linguaggio è dire qualcosa a qualcuno di qualche cosa, esso comporta una duplice referenza: a colui al quale mi rivolgo, al Tu, e al mondo di cui parlo. L’esperienza linguistica attesta la costitutiva relazionalità dell’uomo. Pensiamo a quella formula del linguaggio corrente così suggestiva per indicare un rapporto d’amore tra due persone: “Quei due si parlano”. In realtà quei due non si parlano semplicemente nel senso di scambiarsi dei messaggi. “Parlarsi”, in questo caso vuol dire cammino verso l’intimità reciproca, la comunione dell’amore.
Non senza ragione riteniamo che chi parla rivolgendosi a se stesso manifesti un segno preoccupante di disturbo psichico. La parola, è infatti mezzo comunicativo, ponte gettato verso l’altro, quindi non ha senso se non in presenza di un tu.
Il corpo parla
Ulteriore conferma di tale relazionalità costitutiva è la nostra struttura corporea. Il corpo infatti non si aggiunge estrinsecamente alla persona. Ci costituisce, noi siamo un corpo e non abbiamo semplicemente un corpo. Il corpo accompagna e favorisce l’apertura dell’io all’altro: si pensi al ruolo decisivo che lo sviluppo corporeo e sessuale ha nell’adolescenza: vanno di pari passo lo sviluppo corporeo e l’apertura al tu, l’uscita dal narcisismo sterile per rivolgersi all’altra persona.
Il nostro corpo “parla” è cioè un grande mezzo espressivo. Basti pensare allo sguardo come mezzo comunicativo. A tutti sarà capitato di trovarsi in grande imbarazzo, per esempio in ascensore, di fronte ad una persona sconosciuta. A quel punto abbassiamo lo sguardo nel timore d’essere come espropriati dallo sguardo dell’altro. Nella vita affettiva, nell’esperienza dell’amore umano il corpo e il suo sguardo sono un grande mezzo di comunicazione.
In principio è la Parola
Una straordinaria conferma della struttura relazionale della persona ci è data dall’esperienza religiosa ebraico-cristiana: l’Altro, la Trascendenza, Dio è comunicazione, è Parola e agape. Dio ha riempito il vuoto, quel vuoto che ci spaventa e che tentiamo di colmare con ogni rumore, l’ha riempito della sua Parola. C’è un’espressione suggestiva nel libro dei Numeri (12, 7-8) per indicare il dialogo di Dio con Mosè: “Bocca a bocca parlo con lui, in visione e non con enigmi”. E un altro testo straordinariamente significativo presenta Dio che parla “sul cuore del suo popolo” (Os 2,16), un parlare che ha una nota di intimità, di tenerezza quasi fisica, una comunicazione che è coinvolgimento vitale. La Costituzione conciliare sulla divina Rivelazione così presenta Dio comunicatore: “Dio invisibile nel suo grande amore parla agli uomini come ad amici e si intrattiene con essi per invitarli e ammetterli alla comunione con sé” (n. 2). Possiamo dire che Dio è un desiderio incontenibile di comunicazione. E infatti: Gesù non porta messaggi: è Lui stesso il messaggio.
La comunicazione di Dio si realizza nella sua forma più piena in Gesù: il suo nome è “Parola di Dio”, chi vede lui vede il Padre. Gesù non è come gli altri profeti il portatore di una parola più grande di lui, è lui stesso il messaggero e il messaggio, il rivelatore e la rivelazione.
Capita anche a noi: quando vogliamo comunicare nel modo più intenso non ci limitiamo ad inviare un messaggio ma diventiamo noi stessi messaggio, comunicazione: ci presentiamo alla porta di colui col quale vogliamo comunicare e la nostra presenza, senza parole, dice tutto. Se in quella casa c’è un dolore la nostra sola presenza dice condivisione, sostegno, amicizia, ecc. Noi siamo diventati con la nostra presenza una parola efficace. Così è stato anche per Dio: non solo ci ha inviato messaggi e messaggeri, è diventato lui stesso messaggio per noi, si è fatto Parola. Per questo il Prologo di Giovanni presenta la rivelazione di Dio in Gesù come Parola che si fa carne: “Dio nessuno lo ha mai visto, ma il Figlio unigenito che è nel seno del Padre è venuto e lo ha raccontato” (Gv 1,18). In Gesù comprendiamo che l’autentica comunicazione è ben più che scambio di informazioni, messaggi, notizie: l’autentica comunicazione è incontro, dialogo interpersonale nel quale metto in gioco me stesso e non semplicemente le mie idee o parte di me, il mio corpo. In una parola: è amore-agape.
Patologie del nostro tempo
Due malattie contemporanee della relazione di comunicazione e di amore sono: la relazione con l’altro che non giunge fino alla comunicazione di sé, al dono di sé; la relazione come strumento di controllo e di dominio, non di accoglienza dell’altro.
Prevale nelle nostre società una nozione di relazione comunicativa come risolta nello scambio delle informazioni, dei dati, degli oggetti. I mezzi di comunicazione di massa ci rovesciano addosso una valanga di messaggi. Eppure a tale quantità della comunicazione non sempre corrisponde una qualità della comunicazione. Spesso denunciamo la solitudine, l’incapacità a comunicare, le chiusure e le ghettizzazioni di questo mondo dove non mancano le informazioni e gli scambi sono intensi e facili. Anche la relazione affettiva subisce questo disagio: il prevalere di rapporti superficiali, effimeri, epidermici, disimpegnati con l’altra persona senza un coinvolgimento intenso e una dedizione profonda. Dobbiamo qui distinguere due tipi fondamentali di scambio: quello materiale e quello simbolico. Nel primo caso scambiamo cose per cose, denaro per cose; è lo scambio mercantile dove prevalgono gli oggetti e i dati. Nello scambio simbolico, il dono per esempio, gli oggetti scambiati sono meno importanti dello scambio stesso, dalle persone che si incontrano e si scambiano. Nello scambio simbolico, sugli oggetti prevale la relazione tra le persone. La solitudine che spesso denunciamo è anche conseguenza del prevalere del primo tipo di scambio, quello materiale dominato dagli oggetti a scapito del secondo, della relazione interpersonale.
Prevale nella relazione una logica di cattura e possesso dell’altro, analoga a quella che ci spinge a dominare il mondo e le cose. L’altro è sempre per me un enigma che tento di controllare e dominare. Anche il rapporto d’amore può assumere questa forma di dominio e possesso dell’altro. Spesso le nostre parole tendono solo a dominare l’altro, troppo poco spazio lasciamo al silenzio che permette l’ascolto dell’altro, che lascia essere l’altro. Un grande filosofo contemporaneo ha indicato nel silenzio la condizione per la vera comunicazione: “Nel corso di una conversazione, chi tace può far capire, cioè promuovere la comprensione più autenticamente di chi non finisce mai di parlare. L’ampiezza di un discorso su qualche cosa non equivale affatto all’ampiezza della comprensione di una cosa. Proprio al contrario, un fiume di parole su un argomento non fa che oscurare l’oggetto da comprendere, dando ad esso la chiarezza apparente dell’artificiosità e della banalizzazione. Tacere non significa però essere muto”[1].
Abbiamo così raggiunto il punto in cui il silenzio è all’origine dell’ascolto e quindi della comunicazione autentica. È del resto questa l’esperienza più comune nella comunicazione interpersonale. Solo chi sa ascoltare, appunto facendo silenzio, è capace di comunicare autenticamente con l’altro. Diversamente non farà che imporre all’altro se stesso, non farà che assorbire l’altro nel proprio orizzonte. Quante volte uno spirito di dominio, di prevaricazione tenta di ridurre a me l’altro, nella sua alterità.
Possiamo allora indicare due criteri per guarire la relazione comunicativa e renderla autentica: nella relazione comunicativa e d’amore impegnare non solo le nostre parole ma noi stessi, coinvolgerci in quello che diciamo; saper accogliere e rispettare l’altro per entrare in una comunicazione non prepotente, non possessiva.
Per questo il silenzio nella relazione d’amore non è assenza di comunicazione, è anzi la condizione per una comunicazione profonda, autentica. Si può comunicare con il silenzio: non si dicono parole eppure si stabilisce una comunicazione intensa e profonda. Anche il silenzio della contemplazione, dell’adorazione, della preghiera è carico di comunicazione, cioè di apertura verso il mistero di Dio.
Note
[1] Heidegger, Essere e Tempo, p. 264.