Dalla sponsalità alla paternità: un cammino vocazionale
Le indicazioni del magistero che inducono a cogliere la dimensione vocazionale del matrimonio e della famiglia ormai non si contano, tanto sono numerose e circostanziate, potenziate anche da tante lezioni della cultura contemporanea che segnalano, nei fatti, il disagio in cui si incorre quando si ascrivono matrimonio e famiglia alla sfera dei soli affetti individuali e narcisistici. Tuttavia il parlare in termini vocazionali di sponsalità e di paternità, anche nell’ambito della comunità cristiana, assume in chi si esprime o è percepito da chi ascolta i connotati di un intervento dal sapore moralistico. Lo stesso termine “vocazione” è caricato generalmente di valenze vagamente oppressive, quasi una sovrapposizione devota, un’imposizione spiritualistica alla sana spontaneità del vivere umano.
Dai macro ai micro percorsi
Per comprendere le ragioni di un rifiuto sordo, inconsapevole, una sorta di reazione di rigetto rispetto ad un linguaggio che esprima un sistema di significati impostato sulla dimensione vocazionale della vita – in generale, o, come in questo caso, coniugale e familiare – sarebbe necessaria una ricerca ad ampio raggio, che includa lo studio, l’osservazione, la valutazione e l’incidenza, sui vissuti personali e collettivi, de “i criteri di giudizio, i punti di interesse, le linee di pensiero, le fonti ispiratrici e i modelli di vita”[1] funzionali alla società dei consumi e creati, diffusi e imposti su scala mondiale dai mass-media. Dentro questo grande rumore, la coppia di fatto si ritrova sola, inadeguata ai modelli imposti, resa perciò insicura e incapace di sollevare lo sguardo oltre un quotidiano intrigante ed assorbente, limitato da un lato da modelli coniugali troppo vincenti e dall’altro da modelli coniugali troppo perdenti.
Non resta che il vivere giorno per giorno, sperando ogni mattina di sopravvivere fino a sera. Il tutto senza consapevolezza: la paura del futuro non è consapevole né tanto meno espressa – sarebbe già superata, almeno in parte – è una nebulosa confusa che impedisce di andare a fondo delle cose e di dar nome e voce alle istanze più profonde e più vere.
Di qui la fatica esistenziale ad accettare una progettualità che includa ottimisticamente la condivisione della vita con altri oltre e dopo il “noi due”, già tanto precario e compromesso da far temere per la sua continuità. Ma il percorso vocazionale della coppia che pur si propone di vivere secondo il vangelo è ostacolato anche dalla trascuratezza di una pastorale che non ha ancora deciso di impiantare saldamente nel battesimo e nella catechesi che gli corrisponde, la radice di ogni percorso di vita che diventa, proprio perché impiantato in quella prima vocazione, per ciò stesso e irrimediabilmente vocazionale.
Il Catechismo degli Adulti e il cammino vocazionale degli sposi
Le riflessioni che precedono intendono portare l’attenzione sul Catechismo degli Adulti nel suo complesso: poco servirebbe utilizzare solo i paragrafi specifici (grosso modo quelli corrispondenti al capitolo 27 e pochi altri) per accompagnare il cammino vocazionale degli sposi dalla coniugalità alla genitorialità, se quegli stessi sposi non fossero stati educati fin dalla iniziazione cristiana o non venissero contestualmente educati in questa specifica fase, ad assumere tutta la vita nella sua dimensione vocazionale. Perché riconoscere ed accogliere la vita come vocazione ha una prima radicale ricaduta esistenziale: il superamento della paura.
E se già è difficile, sotto il segno della paura, decidere di compromettersi coniugalmente con un’altra persona, diventa quasi impossibile giungere a progettare il futuro di un terzo ed assumersi la responsabilità di aprirgli la possibilità di esistere. Il cammino vocazionale degli sposi, quindi, viene da molto lontano e porta lontano: viene dal battesimo e porta fino al battesimo del figlio, con tutta la pregnanza catechistica, spirituale, esistenziale che il battesimo significa ed esprime. Probabilmente, in ultima analisi, “cammino vocazionale” significa “non vivere più per se stessi, ma per Lui che è morto e risorto per noi” (2 Cor 5,15) dove il “per” significa non solo finalità ma anche causa efficiente: radicati in Lui e finalizzati a Lui.
Sessualità e fecondità
È in questo contesto spirituale che la paura può essere vinta fino al punto di osare di dar la vita: se anche, come oggi spesso accade, gli sposi decidono di dar la vita – o vi si incaponiscono ostinatamente, ricorrendo a ogni possibile artificio della tecnica – fuori da questo contesto di abbandono fiducioso, per soddisfare inconsapevoli bisogni narcisistici, per la ricerca di soddisfazioni, per esercitare dominio e possesso, per colmare vuoti relazionali, ben difficilmente l’opera iniziata con il dono biologico della vita potrebbe completarsi e perfezionarsi in quell’ulteriore compito vocazionale che si esprime nel servizio educativo.
Il passaggio dalla sponsalità alla paternità, dunque, è il passaggio dal pensare per e a sé al pensarsi dentro un disegno che, superando i suoi protagonisti, insieme li rassicura al punto da indurli e quasi costringerli ad aprire ad altri questo disegno, facendone partecipi, prima con il dono della vita fisica e poi con la sua umanizzazione attraverso l’opera educativa, i figli.
In ultima analisi, si può dire che la fecondità è la cifra che completa la dimensione vocazionale della sessualità coniugale, in quanto ne esprime, fisicamente e simbolicamente, la ricchezza traboccante, accompagnando gli sposi a superare il momento autoriflessivo per aprirsi a un terzo che invera il processo, la crescita, l’andare oltre sé, il bisogno di futuro, la spinta all’apertura.
Fecondità ed educazione
La sessualità si esprime nella sua dimensione di fecondità anche nell’educazione, se è vero che quest’ultima è un’elargizione di umanità che il padre e la madre, ciascuno con la propria identità di genere, fanno al figlio[2].
“La fecondità non si riduce alla riproduzione biologica, ma include l’educazione. Innanzi tutto i coniugi educano se stessi; si aiutano reciprocamente a crescere verso la pienezza umana e cristiana” (CdA n. 1064): in questo passaggio il Catechismo degli Adulti evidenzia tutto il cammino vocazionale che porta gli sposi, diventando sempre più sposi con il reciproco aiuto, ad “osare” il dono della vita nella sua pienezza.
Il primo segno di fecondità della coppia è la capacità di autoeducazione che essa riesce ad esprimere: gli sposi, stimolati dal loro amore e stimolandosi l’un l’altro, si autocostruiscono vicendevolmente come genitori, giungendo così non solo a donare la vita fisica, ma a farla crescere con loro verso la pienezza dell’umanità.
Tale educazione feconda non è operazione intimistica: è condotta con consapevolezza e responsabilità sociali, nella vissuta convinzione che il ruolo della famiglia è quello di essere “comunità intermedia tra individuo e società” (cfr. CdA n. 1069), e questa consapevolezza segnerà lo stile dell’educazione familiare. Nel Catechismo degli Adulti si trova un richiamo significativo ad un aspetto dell’educazione familiare generalmente trascurato: “nella semplicità e concretezza della vita quotidiana” anche “i figli edificano i genitori” (cfr. CdA n. 1072).
Forse molte paure, molte lentezze, molte prudenze, molte perplessità degli sposi a diventare genitori dipendono anche dal fatto che sfugge, nel ragionare comune intorno ai figli, questo particolare che caratterizza in modo esclusivo la fecondità della famiglia: l’educazione in famiglia non è mai a senso unico.
Quando gli sposi si decidono a diventare genitori, tra le tante scoperte meravigliose che la loro nuova condizione li porta a fare, vi è anche questa.
Note
[1] PAOLO VI, Evangelii nuntiandi, n. 19.
[2] GIOVANNI PAOLO II, Lettera alle Famiglie, n. 16.