N.05
Settembre/Ottobre 1996

La mia vocazione a servizio della vocazione degli altri

Credo che ci sia un rischio quando si devono affrontare temi come quello della pastorale vocazionale, e comunque sempre quando si devono escogitare “metodologie di intervento”: quello di ritenersi già “a posto”, un po’ superiori rispetto alle persone che dobbiamo servire con la nostra pastorale. Indubbiamente non potrei “fare” pastorale vocazionale e neppure pensarla se non mi sentissi, almeno in parte, già “a posto”: non posso aiutare nessuno a far luce sulla sua vocazione se non vivo “illuminato” nella mia. Dunque, un po’ di “superiorità” ci vuole. Tuttavia, a me accade così: quando affronto temi come questo, temi vitali, mi sento anzitutto chiamato in causa come uno che non può mai smettere di fare pastorale vocazionale verso se stesso. Non posso parlare di vocazione senza parlare di me, non posso pensare alla vocazione degli altri senza esaminare, delucidare la mia chiamata. Quindi, mi chiedo se la mia vocazione così come la vivo sia capace di attrarre altre persone, e i giovani, a Dio; se il mio continuo approfondire la chiamata di Dio (il discernimento, cioè) mi dispone all’ascolto della chiamata degli altri in verità e carità. Quando deve affrontare argomenti come questo, dunque, cerco prima di entrare in me stesso per poi “exire ad alias”, “ad fratres” per essere pastorale. Questo è stato pure l’atteggiamento di fondo con il quale ho vissuto la preparazione al simposio sulla Pastorale Vocazionale. Ho cercato di essere allievo, discepolo.

 

Qualcosa su quei giorni

Anzitutto è stato importante incontrarsi con amici “vecchi e nuovi” e pregare con loro, per arricchirsi della loro esperienza vocazionale. Queste, poi, le impressioni e le indicazioni. Tutti ci siamo trovati concordi sulla necessità di riflettere in maniera profonda e integrale (globale) sul tema. Più che come problema da risolvere, abbiamo inteso approfondire la vocazione come un dono vissuto nella consapevolezza che essa -è un mistero che si svela passo dopo passo.

Il termine “vocazione-chiamata” è astratto, e anche se ci è utile per discutere, ragionare e comprenderci, dobbiamo abituarci al fatto che in concreto esiste la persona chiamata. Pastorale vocazionale è dunque attenzione alla persona, a come essa è, a quel che può essere, a come viene continuamente chiamata, a come risponde… a come deve rispondere per essere persona. 

Prima ancora di questo, va tenuto presente, il Fondamento delle vocazioni. Dirlo è un po’ banale, forse, ma… abbiamo ritenuto necessario che ci si soffermi a contemplare Gesù come uomo chiamato e come “chiamante”: “Tutto è stato creato per mezzo di Lui e in vista di Lui”. Partiamo da Lui: come ha vissuto la sua vocazione, quale l’essenza della sua vocazione, quale il motivo della vocazione di Gesù Cristo. “Mistero nascosto da secoli, ma ora svelato”. Lui, che è come il luogo in cui siamo e esistiamo come persone, così che possiamo dire che la nostra vocazione (perdonate il termine astratto) è rivelazione – comunicazione della sua Vita a noi, in pienezza.

 

Un altro punto

Ogni persona ha una storia, che si evolve, e d’altro canto la Storia degli uomini è storia di vocazioni. Dobbiamo sentirci testimoni di una storia di vocazioni che si incontrano, entrano l’una nell’altra e partecipano allo svelamento della pienezza del Mistero di Cristo. È necessaria dunque attenzione alla storia della vocazione e alle vocazioni lungo la storia.

Ancora: la mia vocazione è il significato della mia umanità, di ogni mio frammento di umanità donatomi da Dio. Sono pertanto chiamato a lasciare illuminare la mia vita, i miei “frammenti di umanità”, dal significato che Gesù Cristo dà a loro. Tutto ciò che io sono (nel bene, ovviamente) viene imbevuto… animato dalla vocazione.

 

Termino

Vocazione come contemplazione. Vivendo come chiamato sono in continuo atteggiamento di ascolto, investigazione, dialogo, collaborazione con Gesù, che mi chiama. Contemplandomi chiamato scopro Dio, dietro i veli delle sue varie manifestazioni. Si può, allora, intendere la preghiera come modo, come un dar voce ai richiami della Parola, o come linguaggio che permette alla vocazione di esprimersi e di essere compresa? Son convinto di sì. Dal momento che senza alcun tipo di linguaggio (qualsiasi forma esso rivesta) non possiamo avere alcuna possibilità di comprenderci, e senza la preghiera ci viene meno l’espressione della vocazione.