N.06
Novembre/Dicembre 1996

Il Vangelo e i poveri

La “povertà”, nella vita della Comunità di S. Egidio, non è semplicemente il frutto di uno sforzo ascetico compiuto su se stessi in ordine ad una perfezione spirituale. Essa, potrei dire, sin dall’inizio, ha assunto, più che i risvolti di una virtù astratta, i tratti dei volti dei poveri delle nostre città moderne. In tal senso c’è stato e continua ad esserci tuttora un rapporto stretto tra la Comunità (i singoli membri di essa) e il vasto mondo dei poveri. Perciò la povertà, nella Comunità di S. Egidio è vissuta e manifesta l’inscindibile legame tra essa ed i poveri; sì da poter dire che non c’è Comunità di S. Egidio, ovunque nel mondo, che non abbia tra i suoi cardini un rapporto stretto e fraterno con i poveri. Ed è ovvio che non si tratta di un rapporto esteriore o ideologico, bensì di un legame evangelico. La povertà non è perciò un “voto” o una virtù suppletiva; essa diviene parte integrante della vocazione di ogni credente. Tuttavia non è vissuta unicamente in se stessa, bensì in un rapporto stretto con i poveri.

 

Il Buon Samaritano

Fin dai primi passi la Comunità è stata segnata dall’attenzione verso i poveri, tanto da farne uno dei tratti specifici della sua vocazione. La realtà delle borgate nella Roma degli anni ‘60 – ‘70 (la Comunità nasce nel 1968) colpì i primi giovani della Comunità, i quali per lo più provenivano dall’ambiente borghese. La lettura del Vangelo fatta insieme costantemente, non solo acuiva il senso del “debito” verso quelle persone poste ai margini della grande città, ma soprattutto spingeva ad andare verso di loro, a fermarsi accanto a loro e a portare le cure di cui si era capaci. La Parabola del Buon Samaritano era (ed è) una delle “icone” che descrivevano (e descrivono) la vita della Comunità. Quella via che “da Gerusalemme scendeva verso Gerico”, diventò la via che dai quartieri borghesi di Roma, capitale d’Italia (e del Cristianesimo), scendeva verso la periferia ove si ammassavano le migliaia di persone che cercavano in essa accoglienza e rifugio ma non li trovavano, che sognavano una vita migliore rispetto alla loro terra d’origine ma si ritrovavano in baracche di lamiera. Portare su questa “via” altri giovani fu uno degli impegni prioritari della Comunità. Percorrere fisicamente quelle strade significa aiutare quei giovani ad allontanarsi dalle numerose vie della solitudine e dell’indifferenza per riscoprire un senso bello per la loro vita. Fermarsi accanto ai deboli e ai piccoli, assistere anziani e handicappati, tenere la mano ai malati di AIDS e accogliere stranieri, aiutare i bambini zingari e accompagnare i malati di mente, tutto ciò aiutava (e aiuta) a dare un senso alla propria vita, fa sentire che c’è qualcuno che non solo ti aspetta ma che senza di te sarebbe ancor più disperato. È la scoperta vissuta della verità delle parole di Gesù riportate dall’apostolo Paolo: “C’è più gioia nel dare che nel ricevere”. Da Roma, la Comunità si è estesa in altre città italiane, quindi fuori Italia nei vari continenti. Erano diverse le città, i popoli, le nazioni, i continenti, ma la “via” era sempre la stessa: quella che “da Gerusalemme scendeva verso Gerico”. E i membri della Comunità dovevano apprendere a seguire l’esempio del Buon Samaritano. La “frequentazione” del Buon Samaritano ha permesso e permette di alzare lo sguardo dalle proprie ricchezze, spesso meschine, per accorgersi dei tanti poveri che ci circondano, dei poveri tradizionali e dei poveri “nuovi”. Non è infatti scontato accorgersi dei poveri, proprio perché la cultura contemporanea porta a ripiegarsi su se stessi e a non vedere altro che se stessi e i propri progetti, fossero anche progetti religiosi. Il Vangelo purifica lo sguardo, acuisce la vista e soprattutto riscalda il cuore perché il discepolo si commuova sui poveri e li consideri come propri fratelli. La povertà, perciò, non è semplicemente uno sforzo ascetico, è una vocazione. Ed è una vocazione per tutti i discepoli. Il Vangelo infatti spinge ogni credente a farsi accanto ai poveri, a condividere la loro sorte, a sentirli membri della comunità, nostri stessi fratelli. Quanto più la mentalità di questo nostro mondo cerca di mettere i poveri ai margini della vita, tanto più il Vangelo esorta i credenti a vedere in loro i membri della stessa Comunità. Non si tratta infatti di piegarsi sui poveri dall’alto in basso, magari dandogli qualche spicciolo del nostro danaro o del nostro tempo. Il problema è di porre i poveri al centro della nostra vita, appunto come Gesù pose al centro dei discepoli quel bambino, quando disse loro che solo se divenivano come quel piccolo sarebbero entrati nel regno dei cieli. La povertà è anzitutto sentire un amore privilegiato verso i poveri. E lo stesso amore che aveva Gesù per loro. In tal senso la povertà del cristiano nasce da Gesù stesso, dalla sua imitazione, dalla sua contemplazione.

 

Il Buon Samaritano e Maria

Un carissimo amico della Comunità, Valdo Vinay, ci ha insegnato a leggere sempre uniti il brano del Buon Samaritano e quello di Marta e Maria, che il Vangelo di Luca pone l’uno dopo l’altro (10,29-42). Non sappiamo se questa fosse l’intenzione dell’evangelista; certamente però attraverso quest’unica icona si descrivono bene le due dimensioni del discepolo nel suo rapporto con la preghiera e con i poveri. Infatti in questi due esempi, il Buon Samaritano e Maria, si delineano i due cardini della vita del cristiano: essere cioè assieme Buon Samaritano e Maria; ossia vivere contemporaneamente la preghiera e la vicinanza ai poveri. Secondo l’indicazione dell’evangelista non dovrebbe quindi esserci un cristiano (o una comunità cristiana) che ascolta il Vangelo nella preghiera e poi non sia vicina ai poveri; ed ugualmente non può accadere che ci sia chi si mette accanto ai poveri ma non ascolta il Vangelo da cui solo tale attenzione può trarre ispirazione e forza. È perciò una concezione miope quella che prevede gli specialisti della preghiera da una parte e gli specialisti della carità dall’altra. Anche perché questo vorrebbe dire che alla gente comune il Vangelo non chiede né l’una né l’altra cosa. La preghiera e la carità verso i poveri formano la vocazione del cristiano. È come dire che il cristiano, per vocazione, deve stare ai piedi di Gesù e ai piedi dell’uomo mezzo morto. Ogni cristiano è chiamato a questo. Non sto qui a ricordare l’esempio dei monaci, persone che dedicano la loro vita in special modo alla preghiera, essi hanno una tale attenzione ai poveri da strutturare architettonicamente i monasteri con una parte riservata alla loro accoglienza. Comunque, ogni cristiano, per vocazione, deve inginocchiarsi davanti al povero, condividere la sua condizione e sollevarlo nella misura del possibile e dell’impossibile. La povertà, in tale prospettiva, diviene parte integrante della conversione al Vangelo; essa consiste nel radicale allontanamento da se stessi e dal proprio individualismo, per “prendere con sé” l’uomo mezzo morto posto ai margini delle vie di questo mondo. Il povero diviene così, in certo modo, il “signore” della nostra vita, del nostro tempo, delle nostre preoccupazioni. Egli scandisce il ritmo delle giornate dei singoli e di quelle della stessa Comunità. Come appunto accadde al Buon Samaritano. Nella Chiesa di S. Egidio in Trastevere a Roma, nella navata ci sono due altari laterali, posti l’uno di fronte all’altro; a sinistra è l’altare dell’Eucaristia con il tabernacolo, a destra l’altare dei poveri con alcune croci che indicano le tante sofferenze dei poveri. Sono due altari nei quali si venera il corpo di Cristo, lo stesso corpo di Cristo. Si tratta di due culti inscindibili, inseparabili. Il santo vescovo Giovanni Crisostomo ammoniva: “se volete onorare il corpo di Cristo, non disdegnatelo quando è ignudo; non onorate il Cristo eucaristico con paramenti di seta, mentre fuori del tempio trascurate quest’altro Cristo che è afflitto dal freddo e dalla nudità”.