Il voto e la virtù della povertà ci impegnano
“Queste poche norme non sono la Regola: la nostra Regola va ricavata dall’assidua e amorosa meditazione dell’Evangelo (specialmente dei Vangeli della Passione e della Resurrezione, che leggeremo e considereremo almeno una volta alla settimana)”. Il penultimo paragrafo della “Piccola Regola”, la breve carta di principi che regola la vita della Piccola Famiglia dell’Annunziata (la comunità fondata a metà degli anni ‘50 da don Giuseppe Dossetti, con sede a Bologna e nuclei in Emilia, Calabria e, all’estero, in Palestina e Giordania), offre la chiave per comprendere come questa piccola fraternità affronti il problema della povertà evangelica. La regola della comunità sta nel Vangelo, come nel Vangelo stanno tutte le virtù, i doni e gli impegni che vincolano fratelli e sorelle nella comune sequela del Cristo. E dato che il Vangelo è parola rivelata, cioè donata dall’alto, ne segue necessariamente che anche la povertà evangelica è anzitutto rivelazione delle profondità di Dio e del suo Cristo. La povertà evangelica è primariamente un mistero della vita divina e della sua economia, cioè del piano di salvezza del mondo: la povertà evangelica è lo svuotamento del Figlio, è l’assunzione della condizione di servo. Questa povertà contraddistingue il Figlio in tutte le fasi del suo passaggio: la nascita in una grotta, la sottomissione a genitori di povera condizione, l’unirsi alla folla di peccatori che accorrevano al Battista, i giorni di digiuno, l’inizio dell’apostolato trai più diseredati, la chiamata dei pescatori e tutti i successivi sviluppi sino alla Passione e alla Resurrezione.
Di questa povertà, come di tutte le potenze del Vangelo, noi non possiamo che partecipare per dono, nella Chiesa, attraverso i suoi sacramenti, e nella comunità nella quale il Signore ci ha posti. Per questo motivo la Piccola Regola (par.11) afferma che “i voti sono soltanto un’umile risposta, da approfondire incessantemente, ai due doni che solo il Cristo sposo può dare: il dono della verginità e il dono della povertà evangelica”.
Poste queste premesse è possibile collocare nel quadro appropriato il passo della regolina comunitaria che tratta specificatamente della povertà: “il voto e la virtù della povertà ci impegnano: a non avere nessuna proprietà e a rinunciare, secondo le indicazioni dell’obbedienza, a quelle che comunque sopravvenissero; a lavorare per vivere e a versare alla comunità ogni nostro provento, ricevendo da essa il vitto, il vestito, l’abitazione e ogni oggetto d’uso; a consegnare totalmente l’impiego del tempo, che deve essere ritenuto non nostro ma di Dio e della Chiesa; a desiderare ardentemente e a sperare, non solo per ognuno singolarmente ma anche per la famiglia nel suo insieme e per sempre, il dono della povertà evangelica che spoglia da ogni ricchezza materiale e intellettuale e accomuna ai minimi e ai poveri di Gesù” (par.13).
Malgrado che la comunità si componga di vergini e coniugati, in questa breve testimonianza ci riferiamo in modo più diretto all’esperienza e alla situazione dei consacrati nella verginità (i nostri coniugati vivono gli impegni della regola con la stessa tensione di radicalità dei vergini ma nel rispetto, di forme e misure conformi al loro stato di vita). La risposta al dono si realizza dunque, anzitutto, in un impegno a non avere alcuna proprietà, tanto personale quanto collettiva. È una risposta, come già detto, da approfondire incessantemente. Il distacco dai beni si ripropone continuamente, tanto per il singolo fratello e sorella quanto per la comunità, e richiede una coscienza molto vigile nel saper discernere ciò che, anche lievemente, può offuscare questa scelta. La seconda determinazione è “lavorare per vivere”: è un’indicazione che discende lungo tutta la storia del cristianesimo e ha un peso particolare nella storia della vita consacrata. I monaci delle origini, pur immersi nella vita ascetica e nel distacco completo dai valori mondani, sottolineano a più riprese la necessità di “lavorare per vivere”. Gli sviluppi successivi, particolarmente in occidente, dovranno sempre ricercare e ricuperare un pieno equilibrio tra preghiera e lavoro. Se la dilatazione dei tempi in coro rischia di incidere sulla capacità dei monaci di mantenersi, un eccesso di lavoro può, soprattutto a livello delle singole anime indebolire il senso dell’unum necessario che ogni consacrato deve sempre nutrire in modo vitale. È poi ovvio che non tutte le occupazioni possano essere monetizzate (si pensi allo studio biblico e liturgico) o che vi sono lavori tipicamente monastici e di grande utilità nella Chiesa ma poco remunerati (ad esempio le traduzioni di lingue sacre); il principio del “lavorare per vivere” non può evidentemente negare spazio ad attività senza reddito o a basso reddito: tuttavia la comunità deve avvertire complessivamente una tensione all’autosufficienza economica. Quanto più vivrà con il lavoro delle proprie mani tanto più soccorrerà i poveri con i propri beni e con la beneficenza che essa riceve dall’esterno. Il terzo punto della nostra risposta al dono della povertà evangelica è l’impegno a “consegnare totalmente l’impiego del tempo, che deve essere ritenuto non nostro, ma di Dio e della Chiesa”. Ecco come le esigenze della povertà si spostano da aspetti più esteriori a quelli più interiori: la rinuncia alla disponibilità del proprio tempo, ad avere un tempo personale, “un momento tutto per me”, tocca già un livello molto profondo. Certo, la vita monastica è già questo: una giornata regolata dal tocco regolare della campana. Ogni attimo di questa giornata va tuttavia consegnato; la mia preghiera, il modo di farla; il mio stare a tavola; il mio modo di eseguire i servizi; l’impegno nel lavoro; il momento in cui scrivo una lettera; persino il tempo del riposo. Tutto è consegnato, cioè vissuto consapevolmente in obbedienza. Un tempo consegnato e ricevuto in uso, come un talento da far fruttare bene.
Il senso del dono ritorna ancora: ogni membro della famiglia è impegnato a desiderare ardentemente e a sperare per ognuno e per tutti il “dono della povertà evangelica, che spoglia da ogni ricchezza materiale e intellettuale, e accomuna ai minimi e ai poveri di Gesù”. Quest’ultima frase contiene un elemento ulteriore, di grande rilevanza: la povertà è rinuncia non solo a beni materiali ma anche a beni intellettuali. Anche qui l’equilibrio va costantemente ricercato e recuperato, anzi va approfondito il senso di una povertà intellettuale che non significhi semplicemente rifiuto e disinteresse verso ogni forma di conoscenza. Le lingue sacre, la liturgia, l’esegesi biblica, la patristica, la teologia, la storia umana, sono i grandi orizzonti su cui ogni consacrato a Dio si affaccia. Tutto questo non va rifiutato, né vanno negate le doti d’intelligenza che Dio dona a ciascuno: si tratta invece di subordinarle al precetto assoluto della carità e, in relazione a questa, della reciproca utilità conferita da ciascun membro all’unità e armonia del corpo di Cristo. Ancora una volta, come per la rinuncia ai beni, per il lavoro manuale, per la consegna del tempo, anche per la rinuncia ai beni intellettuali ciò che conta è l’atto d’obbedienza. La povertà qui è dare a Dio tutto ciò che si è e che si ha accogliendo umilmente le indicazioni della comunità. Obbedienza dunque.
Quest’ultimo punto ci rimette in collegamento con la premessa iniziale: la regola della Piccola Famiglia dell’Annunziata vuole essere l’Evangelo, e in particolare “i Vangeli della Passione e della Resurrezione”, vale a dire i testi della suprema obbedienza di Cristo, i testi vertice di tutta la Scrittura. E quindi, in definitiva, guardando soprattutto ad essi che noi possiamo attingere materia d’esempio e di grazia riguardo alle virtù evangeliche. Certo, il Discorso della Montagna parla di queste virtù; anzi, da molti, in campo cristiano e non cristiano, è stato preso come il punto di riferimento privilegiato. Tuttavia, a nostro avviso, è solo ancorandoci fortemente ai testi della Passione e Resurrezione che le virtù evangeliche trovano il loro vero spessore cristocentrico.