N.06
Novembre/Dicembre 1996

La comunità cristiana testimonia ed educa alla povertà

Nella Scrittura e nella cultura ebraica, e quindi in gran parte anche negli scritti neotestamentari, il termine “povertà” ha un significato – una valenza semantica – un po’ diverso da quello odierno. Povero è certo chi non ha il necessario per vivere, ma è anche chi è senza tutela, chi è oppresso o comunque esposto all’oppressione. Può esserlo per mancanza di denaro o di beni, ma può esserlo anche per mancanza di tutela di fronte al prepotente: nella Scrittura sono poveri l’orfano, la vedova e lo straniero, indipendentemente dal fatto che possiedano o no denaro o beni. L’orfano manca della tutela paterna, la vedova di quella del marito, lo straniero manca di qualsiasi tutela; non esisteva un diritto internazionale, e lo straniero non aveva diritti e non poteva difendersi in giudizio. Vi è dunque un significato della povertà che nella sua origine è solo descrittivo e senza giudizio morale.

 

Dalla parte del povero

Ma Dio si manifesta sempre nell’AT come il difensore del povero in termini odierni si potrebbe dire che la giustizia di Dio è una giustizia di parte. Egli è sempre dalla parte del povero, e questo indipendentemente dal fatto che il povero sia moralmente buono. Gran parte dei salmi sono il sospiro del povero – il debole, l’oppresso, il senza speranze umane. Il re-messia in Is 32 sarà colui che regna con giustizia, e cioè colui che è come un riparo dalla tempesta, rifugio del povero; non vi sarà più chi macchina ingiustizie verso il povero per lasciarlo senza cibo e senz’acqua, né il prepotente sarà più chiamato persona importante. E frutto di questa giustizia sarà la pace (Is 32 passim, ma si veda anche p.es. Ger 22 e tutto il libro di Amos).

Nel Vangelo Gesù annuncia, ma soprattutto esprime e rivela con la sua vita questa nuova giustizia: Gesù è sempre e senza eccezione dalla parte del povero. La samaritana, le prostitute, i pubblicani sono emarginati dalla religione ebraica; i lebbrosi sono intoccabili; l’adultera condannata alla lapidazione trova Gesù al suo fianco prima di essersi pentita; sorprendentemente, e con grave scandalo per gli usi religiosi ebraici, la donna è sempre in molti modi presente a Gesù nella conversazione diretta, e non solo come entità silenziosa sullo sfondo della sua attività; è addirittura inviata (apostolo) come la peccatrice samaritana o le donne che annunciano agli apostoli la resurrezione. Lui stesso sarà scomunicato dal tempio, e accoglierà il cieco nato anch’egli scomunicato. Sono solo alcuni esempi di un atteggiamento lineare e costante, che rivela nel vissuto concreto di un’esistenza umana l’essenza di Dio.

 

La libertà della povertà

Vi è dunque una povertà che Dio non vuole: la povertà generata e mantenuta dal potente, dal prevaricatore, dall’oppressore. Cercare il Regno di Dio e la sua giustizia, avere fame e sete di giustizia, di una giustizia ben al di là di quella degli scribi e i farisei, vuol dire impegnarsi contro questa povertà. A ragione dice il III Sinodo dei vescovi che la lotta a ogni stato di cose oppressivo è parte integrante dell’annuncio evangelico.

Ma la stessa logica divina che impone l’impegno contro tale povertà, impone simultaneamente un’altra povertà: la povertà del non-potente. È questa una virtù – o atteggiamento di fondo – fondamentale per il cristiano, ed è elemento essenziale dell’annuncio del Regno al mondo e sulla storia della famiglia umana. E lo è perché Gesù fu l’uomo del non-potere: “Il figlio dell’uomo è venuto per servire e non per essere servito” (Mt 20,28; cfr. Lc 22,27). II figlio di Dio, immagine perfetta del Padre, non ha posto la sua tenda in mezzo a noi (Gv 1,14) per dominare, ma per donarsi. È nell’annientamento finale della Croce che noi vediamo Dio, che appare la gloria di Dio.

Povertà è in questo secondo senso non fidare nei poteri terreni, siano essi politici, economici, militari, sia pure a fin di bene; il cristiano e la comunità dei credenti in Cristo – la Chiesa – si affida solo alla fedeltà di Dio. Nell’adempiere la sua missione né il cristiano né la Chiesa deve fare affidamento sulle ricchezze, sulle amicizie politiche, sulla forza delle armi o sulla tutela di organismi militari. Ogni forma di annuncio del Vangelo e ogni forma di vita di Chiesa che non rispecchi la totale povertà dell’annuncio e della vita di Gesù è in realtà un tradimento della missione; è rendere non credibile l’annuncio. Nell’imminenza della passione Gesù è turbato: sa che deve andare incontro allo scacco supremo, a ciò che agli occhi degli uomini – compresi i discepoli – è il fallimento della sua missione (si veda l’opposizione di Pietro e il durissimo rimprovero di Gesù in Mt 16,22-23). Ma Gesù, da vero povero, si affida esclusivamente al Padre in un gesto di totale obbedienza: “Ora l’anima mia è turbata; e che devo dire? Padre, salvami da quest’ora? Ma per questo sono giunto a quest’ora! Padre, glorifica il tuo nome” (Gv 12,27-28).

 

Testimoniare la povertà

Questa povertà la comunità cristiana deve annunciare, e con essa un Regno – una logica di convivenza – non fondato sul potere dell’uomo sull’uomo. Testimoniare ed educare alla povertà è simultaneamente testimoniare ed educare alla pace, a una convivenza umana fondata sull’attenzione all’altro, sul reciproco disinteressato servizio. E questo vale, prima di tutto, per la povertà in senso economico.

Per il cristiano le ricchezze – i beni terreni in genere, anche se modesti – non sono interessanti, non sono un valore in sé. Si può e si deve cercare col proprio lavoro di avere il necessario per un minimo indispensabile di vita umanamente dignitosa (e quindi un modesto sostentamento materiale e un adeguato sviluppo culturale). Il di più che in qualunque modo possiamo avere non è nostro: cercare di avere di più solo perché è di più è grave peccato. In termini neotestamentari è idolatria: cercare di arricchirsi e non esser pronti a dare del nostro sono due forme attuali dell’idolatria. E infatti alla base dell’avidità e dell’avarizia vi è l’idea che la ricchezza è un bene in sé desiderabile, mentre per il cristiano è vera ricchezza solo Dio e il suo Regno. Il possesso o l’acquisizione dei beni terreni, dice il Signore, non è ricchezza vera, non è ricchezza per voi (cfr. Lc 16,11-12, a cui segue immediatamente il detto dei due padroni). Purtroppo la tradizione dei testi di teologia morale degli ultimi tre secoli ha ridotto la morale economica al non rubare, mentre il precetto di non rubare – preso alla lettera – è solo un particolare secondario, e ovvio, del divieto più generale di avidità-avarizia. Il cristiano può trovarsi a possedere ricchezze: ma esse sono per lui interessanti solo in quanto strumento per il Regno, in quanto servono cioè a combattere quella povertà che Dio non vuole, in quanto sono disponibili per la liberazione del misero.

Questo dobbiamo, come singoli e come comunità, testimoniare con la nostra vita e annunciare a un mondo che oggi è dominato da una logica direttamente opposta a quella del Regno. Oggi quasi tutti i messaggi che riceviamo, i modelli di vita buona che ci vengono proposti dai media e dai potenti della terra, “educano” a considerare l’aver di più come qualcosa di essenziale; chi non riesce ad arricchirsi è un perdente. Anzi, in molte aree della cultura bianca degli USA – soprattutto protestanti, ma anche cattoliche – chi non ce la fa nella corsa al successo economico è un peccatore (e un collega teologico svizzero mi diceva che nel suo Paese l’unico vero peccato è esser povero).

Sempre più vediamo affermarsi una sorta di “moralità” radicalmente immorale: la predicazione di un’etica del successo (economico) è martellante e continua, è presente ovunque nei media (tutti dominati da centrali di potere economico). La sfida che sta di fronte al cristiano e alla Chiesa (alle chiese tutte) è terribile, e va affrontata. Oggi il voto di povertà acquista questo nuovo e più profondo significato di annuncio e di testimonianza sul mondo: una speranza per i miseri della terra, una controtestimonianza verso lo spirito di rapina che si cerca di indurre come unica ragionevole logica di vita.

 

Educare alla povertà

Ma la virtù della povertà non è limitata al significato da dare ai beni terreni: la povertà è il rovescio del potere. Il potere dell’uomo sull’uomo, in tutte le sue forme piccole e grandi, deve essere duramente e coraggiosamente messo in questione dal nostro annuncio. È mia personale opinione che questo dovrebbe essere un momento essenziale di ogni istanza educativa: nella scuola come nelle parrocchie, nell’associazionismo e nei media di ispirazione cristiana. E anzi, ogni forma di associazionismo, di volontariato anche non esplicitamente cristiano, anche laicista, che sia impegnato su questo fronte deve essere appoggiato, deve esser considerato compagno di viaggio in questa contro-educazione al nonpotere. Ricordo una reclame dell’auto Clio: “io posso, io voglio, io Clio”; i messaggi pubblicitari, e quelli impliciti nei film come Rambo o Terminator o nei videogiochi in cui l’essenza del gioco è distruggere qualcuno, sono il pane quotidiano dei nostri ragazzi. L’altro, qualunque altro comunitario o extracomunitario, è di fronte a me non per essere dominato, ma per essere servito. C’è da domandarsi come le chiese abbiano fallito in modo così clamoroso nell’annunciare il Regno. Ma soprattutto c’è da domandarsi quale sia il compito che l’annuncio del Regno imponga alla comunità cristiana di oggi. La vocazione alla vita sacerdotale o religiosa è chiamata di Dio a spendere la propria vita a tempo pieno per annunciare questo Regno. E di qui nasce un’ultima considerazione.

 

Riscoprire la povertà

La Chiesa è essa stessa una società terrena, con una sua visibilità fatta di esseri umani, di strutture, di regole, e con un inevitabile e necessario esercizio dell’autorità. La prima testimonianza, il primo annuncio deve essere la vita stessa della società “chiesa”. Non c’è bisogno di spiegare come tale società debba gestire la componente economica, che è indispensabile momento della sua visibilità. È invece importante rilevare le mancanze della Chiesa nella vasta area del potere vigente al suo interno, a tutti i livelli, dalla parrocchia alla famiglia religiosa fino alle diocesi e alle congregazioni romane. Occorre ricordare una lezione del Concilio che ancora non è penetrata nel profondo della vita ecclesiale: il fatto che la Chiesa è in primo luogo il popolo di Dio. È il popolo di Dio il destinatario della missione specifica della Chiesa, il responsabile ultimo dell’adempimento della missione. L’antica distinzione fra “chiesa docente” e “chiesa discente” è già discutibile sul piano dello sviluppo della dottrina: quasi tutti gli atti di magistero sono nati e nascono dal lavoro dei teologi e dalle esperienze della base. Ma diviene aberrante se diviene distinzione fra chiesa che comanda e chiesa che obbedisce, fra la chiesa che parla e quella che deve stare zitta. La grande maggioranza delle deliberazioni necessarie a livello centrale, diocesano, parrocchiale, di congregazione religiosa, non ha niente a che vedere con la dottrina rivelata. Ha invece a che vedere con situazioni di fatto, variabili nel tempo e nello spazio, nelle quali si deve cercare il modo migliore di annunciare il Regno; e non è affatto detto che in questa ricerca un parroco capisca più di un consiglio parrocchiale. Nella Chiesa l’autorità non deve divenire potere: l’autorità deve promuovere e guidare il popolo di Dio nella ricerca del modo migliore di annunciare il Regno, e deve essere ben lieta di ascoltare tutte le voci che ne derivano. Quando l’autorità divenisse puro atto di imperio, che prescinda in partenza da tale ascolto, diverrebbe potere. E la Chiesa non sarebbe più testimone credibile della povertà evangelica. Il mio padre nel sacerdozio, il venerato card. Dalla Costa, diceva a noi ordinandi: “ricordatevi che per il popolo il Vangelo siete voi”. Lo stesso detto va applicato al rapporto fra Chiesa e mondo: è soprattutto con la povertà, col nonpotere al proprio interno, che la Chiesa sarà luce in un mondo in cui potere e ricchezza sono i valori dominanti.