N.06
Novembre/Dicembre 1996

La pastorale giovanile: itinerario educativo alla povertà evangelica

Ognuno di noi ha i suoi. Nessuno ce la fa a rimanere tranquillo, quando l’inquietudine gli martella dentro. Per questo cerchiamo, con trepidazione, risposte ai nostri interrogativi.

 

 

La vita in genere è piena d’interrogativi.

Di risposte che salgono alla nostra vita, ce ne sono tante in giro: troppe per scegliere con un po’ di tranquillità. Il Vangelo suggerisce una risposta complessiva a tutti questi interrogativi. Li afferra tutti, con l’unica grande preoccupazione di farci scoprire che Dio è un Padre che ci ama, ci vuole pieni di felicità, confortati nella speranza, impegnati a vivere veramente da figli suoi. Obiettivo, allora, di ogni itinerario di educazione alla fede (pastorale giovanile) delle nuove generazioni è l’incontro con Gesù e la confessione, vissuta nella Chiesa, che solo Lui è il Signore.

Seguire Gesù non è come mettersi al seguito di qualsiasi altro maestro. È invece qualcosa di profondamente originale, come una folata improvvisa di vento che butta all’aria tutto quello che avevamo cercato di raccogliere con ordine. Gesù non ci chiede, prima di tutto, un rapporto affettivo nuovo nei suoi confronti. E nemmeno ci chiede la decisione di consegnarci totalmente a Lui. Non gli basta né l’una né l’altra cosa. Vuole molto di più: la condivisione appassionata della causa che ha riempito la sua vita e l’ha trascinata fino alla morte. Dentro una Chiesa che si impegna consapevolmente a darsi un vero progetto educativo-pastorale a servizio dei giovani, che possa suscitare un’esperienza nuova di vita e far vivere tutta un’esistenza come sequela di Gesù, occorre attivare diverse attenzioni: la chiarezza, innanzitutto, sulla matura decisione di fede verso cui è in cammino il giovane, che non può dipendere solo dall’esperienza personale, ma anzi esige un senso di insufficienza della propria libertà, chiamata a consegnarsi al bene e al vero; una pedagogia della motivazione, che discerna e promuova i bisogni autentici e costruisca gradualmente un sistema di significati e di valori, aperto alla dimensione etica e religiosa.

L’educazione alla fede deve quindi mostrare la sua capacità di interpretazione dell’esistenza umana, senza manipolare la specificità del messaggio rivelato, ma riconciliando frontalmente fede e cultura. E allora, per elaborare itinerari di fede sufficientemente strutturati, la comunità ecclesiale fa memoria della sua migliore tradizione, seleziona una gamma di proposte differenziate, adeguabili liberamente nella concreta decisione pastorale, per offrire comunque a ogni giovane la possibilità di accedere a un’assunzione personale della fede.

In questa direzione, soprattutto l’annuncio delle “beatitudini”, tra le parole più sorprendenti del Vangelo e sempre di attualità, acquista enorme importanza. Le beatitudini sono una strana parola sulla vita e sulla felicità. Seducono con il fascino delle promesse e poi inchiodano in pretese dure e insolite. Sono una pagina difficile, perché più di ogni altra rivela l’originalità della concezione cristiana della vita e della felicità, e sono lontanissime dalla mentalità mondana di tutti i tempi.

Proporre un itinerario educativo alla “povertà evangelica” deve partire dalla beatitudine sulla povertà dove “Beati voi poveri, perché vostro è il regno di Dio” – come ci racconta Luca (Lc 6,20); oppure “Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli” – come dice Matteo (Mt 5,3), diventano un programma di vita non semplice per i ‘giovani, anche se porta con sé un grande fascino e conseguenze non di poco conto. Il mondo di oggi, infatti, è potente, è grande, è forte. Non basta gridare più forte o minacciare più violentemente. La soluzione è un’altra, molto più impegnativa: mettere l’esperienza cristiana a confronto con le cose che contano veramente. I discepoli di Gesù pongono la fede in Lui e l’incontro personale con Lui come condizione pregiudiziale per la vittoria piena della vita sulla morte.

 

 

Seguire Gesù richiede di poter camminare anche liberamente e gioiosamente scegliendo la povertà.

La povertà consiste nell’accettare con umiltà le proprie ricchezze: in ogni momento è possibile accorgersi di come si è ricchi di fede, speranza, amore, cultura, salute, libertà, questo però non deve far dimenticare che tutti possiedono doni, in quanto Dio non ha preferenze per nessuno. Povertà è accettare i doni di Dio in continua azione di grazia e, dato che non si possiede nulla che non si abbia ricevuto, essere poveri consiste nell’offrirsi continuamente a Dio così come si è, nell’umiltà di colui che sa di possedere solo ciò che viene dalla bontà del Signore e non dalle sue forze. Sembra un controsenso: vince chi ha tanto, chi guida più forte, chi sa mostrare facilmente di avere ragione e Gesù, invece, insegna che il più grande di tutti è colui che non possiede niente! È così che il messaggio di Gesù di Nazaret diventa una “lieta novella” perché è un messaggio di liberazione: e questa liberazione è in atto oggi.

Ma essere poveri è anche abbandonare ogni ricchezza materiale; considerando che si nasce senza nulla e si muore portando con sé nulla, viene facile accettare le ricchezze materiali come temporanee, transitorie e quindi tali da non dover essere amate in assoluto. Il distacco dal mondo materialista e consumista deve essere coraggioso, ma soprattutto radicale, senza compromessi e vie di mezzo. Del resto se la preoccupazione principale di un’esistenza è imitare Cristo, non c’è tempo per arricchirsi d’altro che di Lui.

 

 

Perché in questo itinerario c’è bisogno di simile dichiarazione: “beati” i poveri?

Non interessano adesso le analisi storico-esegetiche. È importante rendere tutta la pregnanza dei termini usati dal nostro Salvatore e tutta l’energia della sua proposta di vita, attuale per i nostri giovani. Gesù certamente voleva parlare dei poveri “veri” ma intendeva anche presentarli come esempio e modello per tutti, dal momento che tutti devono sforzarsi di diventare “anawim”; vale a dire gente che vuole appoggiarsi soltanto su Dio e solo in Lui trovare le proprie sicurezze.

Dunque i poveri di cui si parla sono prima di tutto i poveri nel senso letterale del termine: coloro che non hanno mezzi e non trovano garanzia di sopravvivenza in ciò che possiedono, perché non possiedono nulla. Gesù li ritiene “beati”: essi sono posti nelle migliori garanzie per accettare il discorso del regno. Nella corsa alla vita eterna partono avvantaggiati. Quelli invece che abbondano di certezze economiche e di soddisfazioni terrene, di solito fanno più fatica a capire.

La difficoltà che trova oggi l’evangelizzazione e anche la pastorale giovanile, ha qui una delle ragioni più convincenti; mediamente, gli uomini non hanno mai avuto a disposizione tanti agi e tante assicurazioni come nella nostra epoca. Anche se nessuno è escluso dal regno in forza delle sue condizioni sociali, perché Dio è capace di far passare perfino i cammelli per le crune degli aghi. E difatti anche tra i ricchi ci sono stati molti santi, come San Carlo, San Luigi e lo stesso San Francesco. Gesù ritiene “beati” i poveri sul serio, ma non per questo vuole che restino sempre confinati nella loro povertà, così come non proibisce di asciugare le lacrime a quelli che piangono e sono anch’essi detti “beati”.

Percorrere un cammino di fede che possa aiutare ad educare alla povertà evangelica vuol dire intraprendere un’esperienza che permette al giovane di liberarsi progressivamente dagli impedimenti che lo trattengono dal raggiungere una meta. Come dunque impegnare il cammino di fede del giovane perché non rimanga allo stadio iniziale, dell’infantile?

 

 

Primo: educare il linguaggio e la condotta alla povertà.

Ci vuole un’educazione alla povertà, a cominciare persino dal linguaggio. “Povertà di linguaggio” credo possa significare abolire tutte le forme tronfie, tagliare la cresta al nostro mondo esteriore. Niente contorni! Niente pretese! Umili cogli umili! Educare a vivere la povertà con semplicità senza sbandierarla e senza giudicare gli altri. Non bastano i pii desideri, ci vuol coraggio, occorre che venga intrapreso un allenamento tenace alla vita tra i poveri.

“Perché i poveri veri vanno prima di tutto rispettati. E si può mancare loro di rispetto in molti modi; per esempio, quando li si imita in modo esteriore, scenografico, sostanzialmente falso… Si ‘gioca ai poveri’, quando ci si vanta di ‘non pensare al denaro’ o si accusa qualcuno di ‘pensare al denaro’; e si dimentica che i poveri veri ci pensano sempre, proprio perché non ce l’hanno e ne hanno un bisogno vitale. I veri poveri non si vestono volentieri da povero, se possono farne a meno, perché hanno sempre paura di esser costretti a farlo un giorno o l’altro. Mentre i giovani del nostro tempo, che hanno tutto e vivono spensieratamente, molte volte si divertono a mettersi in divisa da straccioni. I veri poveri non hanno nessuna voglia di restare poveri, ma si danno da fare per migliorare almeno un poco il loro stato. Solo i ricchi ci prendono gusto a ‘giocare alla povertà’; e magari, senza rinunciare personalmente a niente, si convincono di essere cristiani più progrediti degli altri, perché parlano con accenti profetici della ‘Chiesa dei poveri’. I veri poveri sanno anche essere generosi nell’aiutare gli altri; ma, conoscendo quanto sudore costa il denaro, lo distribuiscono oculatamente e si guardano bene dal regalarlo ai fannulloni e ai profittatori”[1].

Si potrebbe allora tentare di tracciare un piccolo programma di allenamento alla povertà. Sono piccole cose, ma un allenamento è fatto di piccoli passi, piccoli ma costanti.

– Ho pretese esorbitanti? Cioè sono uno di quelli che si lamentano sempre degli altri, non sono mai contenti, vogliono che tutti li servano? (Non lamentarmi mai di ciò che mi manca e non darmi subito da fare per averlo; privarmi ogni giorno di qualche cosa, anche piccola, per far contento qualcuno).

– So impormi qualche austerità? (Non lamentarmi mai del cibo e non parlarne mai; imprestare con generosità ogni cosa che mi è richiesta).

– So accettare quei piccoli segni di povertà che ci toccano sempre un po’ anche se magari ho qualche soldo in tasca? (Avere molta cura delle cose prese in prestito dagli altri; intrattenermi con amore con tutti i poveri e far loro dei servizi con molto amore).

 

 

Secondo: contare più su Dio che sui soldi e sui mezzi umani, educandosi alla sobrietà.

“Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; riposati, mangia, bevi e datti alla gioia”. Ma Dio gli disse: “Stolto,…” (Lc 12,19-20). Viene definito stolto. Perché fonda la propria sicurezza sull’avere e non sull’essere. Perché si affanna a possedere e accumulare, invece di impegnarsi a crescere. Perché si identifica con le cose, e non le trasforma in sacramento di comunione coi fratelli. Perché crede che molto denaro significhi molta vita. Perché pensa che il possesso egoistico dia gioia. Perché non sospetta che, anche se i conti tornano, la sua esistenza è un fallimento. Perché non si rende conto che non è possibile riempire il vuoto con l’ingombro. Perché non intuisce che la sicurezza può derivare soltanto da un atto di coraggio, di rottura, di liberazione. Perché non si avvede che la vita va riempita di amicizia, di dono, di relazioni, non di cose.

Allora educare alla sobrietà i giovani è educarli a non essere prigionieri delle cose materiali; significa apprezzare i beni materiali, avere buon gusto nel vestire e nel mangiare, ma non fare del “possesso” il fine della vita. È vivere con allegria e fantasia, scoprendo ciò che già si ha. Inseguire sempre qualcosa che non si possiede porta solo scontentezza.

 

 

Terzo: quale che sia la situazione finanziaria, mirare sempre allo “spirito di povertà”.

Lo spirito di povertà, ideale necessario di chi vuol essere discepolo del Signore, “non ci preclude la comprensione e l’impiego del denaro” ma ce ne rende liberi.

È povero in spirito colui che non vuol riporre la sua fiducia in alcun mezzo umano, né in quelli che di fatto possiede né in quelli che in futuro potrebbe possedere. E le “ricchezze” possono essere di diversa natura: ci sono i beni economici, ma ci sono anche le posizioni di potere, il prestigio della cultura, le amicizie che contano, le conoscenze utili, ecc.

Lo spirito di povertà è non aver attaccamenti affettivi esagerati, perché non vi sono rapporti che sono tanto stretti quanto quello con Dio. Dio è geloso, vuole tutto per sé, però ricompensa, perché egli ha dato, con la morte di Gesù, tutto se stesso agli uomini. Tenendo presente questa logica di dono, si capisce anche l’essere poveri di affetti, sia legittimi che disordinati, per donarsi interamente al Signore che è giunto, per amore, ad “odiare” la sua stessa vita. Lo spirito di povertà non è volere ciò che voglio io, ma volere come Dio; non è pensare secondo il mio pensiero, ma secondo il pensiero di Dio; non è cercare nelle mie conoscenze il senso della vita, ma cercare nelle conoscenze di Dio. Lo spirito di povertà non è durezza di cuore, ribellione, fermezza nelle proprie abitudini e sicurezze. Il segno più alto della povertà di Gesù sta nell’essersi abbandonato alla volontà del Padre.

Lo spirito di povertà è spogliarsi di se stessi rinunciando ad affermarsi, ad avere ragione, ad essere potente; per assumere l’umiltà, la capacità di fare del bene senza essere visti; povertà è, in pratica, camminare sulla stessa strada di Gesù Cristo. Lo spirito di povertà non è avidità, sete di possesso, desiderio di avere molto. Un cuore semplice, infatti, sa gioire unicamente di cose piccole e semplici, non saprebbe come destreggiarsi davanti alle complicazioni. Non è possibile inoltre arricchirsi del Signore, mentre ci si preoccupa unicamente di accumulare tesori per sé. Essere poveri non è cercare sostegno negli affetti umani, attaccarsi anche solo a memorie, ricordi, al desiderio di incontrare proprio determinate persone. Cercando l’incontro con il Signore Gesù nella Parola, nei Sacramenti, nel prossimo, si giunge già a quella pienezza che trasforma il cuore e lo rende ripieno dello Spirito nuovo.

 

 

Quarto: la povertà, a somiglianza di Gesù, chiede di vivere la situazione di colui che riceve tutto per donare tutto; di vivere la povertà buttandoci in pieno nella carità.

Nessuno può illudersi di vivere secondo lo “spirito di povertà”, se questo spirito non trova anche qualche forma concreta di manifestarsi. Bisogna che ci sia qualche “segno” che dimostri e ricordi che nel Signore riconosciamo la nostra unica e autentica eredità. Questi “segni” possono essere molto differenti tra loro, a seconda della propria vocazione e del proprio grado di carità. Si va dall’abbandono di ogni possesso personale (come è tipico del voto di povertà nella vita religiosa) fino a qualche decisione libera, meno impegnativa, ma ugualmente ricca di significato. Significa, per esempio, vivere la solidarietà, scegliere di essere nella Chiesa a totale servizio delle povertà e debolezze di ogni uomo e non solo materiali, ma anche morali che sono più gravi, perché tolgono alla persona la dignità stessa di creatura, nata dalla bontà di Dio; significa fare pace con la voglia di prevalere, di porre al di sopra di tutto la propria opinione, di ricercare benevolenza e successo in ogni cosa; per lasciare posto alla docilità dello Spirito Santo; significa ancora la rinuncia a qualche agio, liberamente decisa, e a un tenore di vita che leghi troppo l’anima alle cose del mondo.

Concludendo: delle cose che ci siamo raccontati ci è data un’immagine ed una spiegazione molto chiara. Per essere grandi non servono teorie profonde, né gesti che fanno rumore, basta cercare di assomigliare ad un volto, quello di Dio, la somma potenza e ricchezza, che si è fatto povero in Gesù Cristo. Ecco come la grandezza può chiudersi nella piccolezza e debolezza e quindi diventare a misura di uomo, a misura anche nostra. La vita cristiana è “vocazione”: decisione coraggiosa di decentrare la propria esistenza verso il regno di Dio, il trionfo pieno della vita sulla morte, nel nome del Dio della vita. L’esperienza di fede confessata si trasforma in un’esperienza di fede vissuta. Quando si capisce che il vero tesoro è Gesù, allora si sceglie la povertà.

 

 

 

 

Note

[1] G. BIFFI, La meraviglia dell’evento cristiano, Piemme, p. 331.